
Nella Napoli ferita dopo l’Unità, tra vicoli che odorano di povertà e strade intrise di rabbia, nasce la storia di Vincenzo. Ragazzino dagli occhi acuti e dal cuore ostinato, crescerà tra espedienti e amicizie indimenticabili, fino a diventare, suo malgrado, il guappo del quartiere: amato dal popolo, temuto dai potenti, ribelle a un destino già scritto. Ma quando la Storia lo trascina lontano, nel fango della guerra, Vincenzo dovrà scoprire se il cuore che lo guida sarà la sua condanna… o la sua gloria.
- IL GUAPPO -
Massimo Brandi
CAPITOLO 1
La Napoli Post unitaria
Dopo l’unificazione italiana, il Sud, e Napoli in particolare, subì un forte declino economico. Napoli, che era stata capitale del Regno delle Due Sicilie, si trovò declassata al ruolo di città di provincia del nuovo Regno d’Italia. Molti artigiani e operai persero il lavoro a causa della chiusura di manifatture, cantieri e industrie borboniche Si verificarono fenomeni massicci di urbanizzazione e sovrappopolazione, con gravi problemi igienico-sanitari. La disoccupazione e la miseria portarono all’aumento di mendicanti, senzatetto e piccoli delinquenti.
Le carceri, paradossalmente, garantivano un pasto quotidiano, un letto e una certa sicurezza. Alcune persone commettevano reati minori (come piccoli furti o atti di disturbo) proprio per farsi arrestare.
Anno 1890. Il Regno d’Italia è ancora giovane, nato da poco più di trent’anni. Ma l’unità politica è solo un’illusione: il Paese è diviso, fragile, tormentato da profonde ferite sociali, economiche e politiche. A Sud, la realtà è dura, aspra. Lo Stato fatica a imporsi, mentre intere aree sono nelle mani di gruppi criminali che dettano legge, spesso più temuti e rispettati delle istituzioni stesse.
A Napoli, la camorra non è un’ombra del passato, ma una presenza viva, radicata, quasi ufficiale. Non è un segreto: molti funzionari della pubblica sicurezza sono ex camorristi. Durante l’unificazione, lo Stato scelse il compromesso. Per ottenere il controllo della città, accettò un patto silenzioso: i camorristi avrebbero aperto le porte a Torino, in cambio della cancellazione delle accuse a loro carico. E così fu. Molti di loro vennero addirittura integrati nei nuovi apparati amministrativi locali.
Il governo sapeva bene che solo uomini d’onore — quelli veri, quelli temuti nei vicoli — potevano garantire l’ordine in territori dove nessun altro osava mettere piede. La loro forza non era solo nei coltelli o nella paura che incutevano, ma anche nella parola. Conoscevano la lingua del popolo, ne condividevano le sofferenze, parlavano con autorità e astuzia. E così, tra miseria e violenza, erano proprio loro a mantenere l’equilibrio, sottile e perverso, in un mondo che sembrava dimenticato dallo Stato.

Tra i vicoli scrostati di tufo e le strade impregnate di miseria, la vita scorreva ruvida, come carta vetrata sulla pelle. Una parte della popolazione era priva di tutto: alfabetizzazione, pane, dignità. Vivevano di espedienti, mendicavano briciole o le rubavano, e spesso la fame era l’unico pensiero a cui affidare il giorno. Alcuni dormivano sui gradini delle chiese, altri sotto le tettoie dei mercati abbandonati. A piedi nudi, tra vetri rotti e pozzanghere nere, camminavano dentro un’esistenza che non concedeva tregua.
Era una città dove lo Stato esisteva solo sui decreti affissi ai muri, ingialliti dal tempo e ignorati da tutti. Le istituzioni, locali e nazionali, erano incapaci — o peggio, assenti. La criminalità, quella vera, quella che nasce dalla fame e cresce nella disperazione, aveva messo radici nei cuori dei più giovani. Ma a governare l’ordine non erano soltanto i carabinieri. C’era l’onorata società.
Un termine elegante per indicare un sistema spietato. I camorristi la chiamavano così, come se fosse una confraternita di uomini d’onore, ma di onore non c’era che l’ombra distorta. Era un’organizzazione retta da silenzi, gerarchie ferree, e da una legge non scritta: l’omertà. Chi parlava, chi tradiva, chi sbagliava — pagava. A volte con una cicatrice sul volto, altre con la vita.
In quel mondo cresceva Vincenzo, quindici anni appena compiuti, ma con lo sguardo duro di chi ha già visto troppo. Figlio di genitori proletari, era uno dei tanti scugnizzi — ragazzi dei bassi fondi, nati poveri e destinati, quasi sempre, a restarci. Condivideva con cinque fratelli un letto di paglia e una minestra d’acqua e pane raffermo, quando andava bene.
Per aiutare la famiglia, Vincenzo rubava. Niente di grande: un portafoglio qua, una collana là. Ma ogni lira portata a casa era una vittoria, una boccata d’aria. A volte, però, doveva difendersi — la legge della strada era semplice: o colpisci, o vieni colpito. Portava sempre con sé un coltello pieghevole, imparando a usarlo in silenzio, imitando i più grandi.
Un giorno, nel dedalo di vicoli vicino Borgo Santa Lucia, lo notò Raffaele. Era un uomo anziano, la pelle del viso solcata da rughe profonde come i tunnel del Vesuvio. Aveva l’occhio esperto di chi aveva formato generazioni di picciotti, piccoli ladri e futuri camorristi. Raffaele parlò poco, ma fu chiaro:
«Tu hai fame. Io ti insegno a rubare per bene, a borseggiare senza farti accorgere. In cambio, voglio la mia parte. E rispetto. Capito?»
Vincenzo non rispose. Annuì. In strada, chi parla troppo spesso muore presto.
Il giorno dopo, nel cortile di un palazzo fatiscente, si presentò come promesso. C’erano altri dieci ragazzi. Ridevano, si davano spintoni, e quando videro Vincenzo lo presero subito in giro: la camicia troppo larga, le scarpe sfondate, lo sguardo chiuso.
«E tu chi saresti? ‘O figlio d’‘o prete?»
Ma prima che potessero ridere ancora, Vincenzo si scagliò contro il più grosso del gruppo. Lo colpì con furia cieca, con i pugni, i gomiti, perfino i denti. Non si fermò finché l’altro non cadde, sanguinante e stordito. Nessuno rise più. Nemmeno Raffaele.
Fu allora che il vecchio capì. Quel ragazzo non era solo affamato. Era nato per sopravvivere. Perché in certi quartieri, il talento non è leggere o scrivere. È non morire.
Raffaele annuì, come se parlasse tra sé e sé:
«Questo è buono... questo un giorno lo porto all’Onorata. E io mi prendo la mia parte.»
E così iniziò la seconda vita di Vincenzo. Non più solo un ladruncolo da vicolo, ma un apprendista, un futuro uomo d’onore. Ma nessuno sapeva — nemmeno Raffaele — che in fondo al cuore del ragazzo bruciava una fiamma diversa: non era l’ambizione a guidarlo. Era la rabbia. Una rabbia antica, profonda, che un giorno avrebbe cambiato tutto.
Perché i ragazzi dei vicoli possono diventare camorristi. Ma a volte, diventano anche leggende.
Con il tempo, Vincenzo si era creato una banda. Ragazzi scugnizzi, affamati e fedeli, con i quali metteva a segno scippi e borseggi tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli e nei convogli stipati della funicolare. La refurtiva finiva nelle mani di mercanti compiacenti, che pagavano gli orecchini d’oro con piatti di maccheroni fumanti, serviti in ciotole unte, da mangiare con le mani sporche.
Ma Vincenzo cominciò a sentire un morso allo stomaco che non era fame. Era dubbio.
«Perché un anello d’oro vale solo due piatti di pasta e un tozzo di pane?», si domandava. Gli altri ridevano. Non capivano. Ma Vincenzo aveva qualcosa che loro non avevano: la testa.
Un giorno, si travestì da garzone e si recò al borgo degli orefici. Camminava tra le botteghe ascoltando, spiando, osservando i prezzi, facendo conti a mente. Non aveva mai messo piede in una scuola, ma sapeva che se un grammo d’oro costava quanto un’intera cena al Gambrinus, allora c’era chi li stava fregando.
Tornò dai suoi con gli occhi pieni di verità.
Da quel giorno, ogni oggetto rubato non veniva più svenduto al primo mercante con la forchetta in mano. Vincenzo trattava, minacciava, sceglieva a chi vendere. E guadagnava il doppio. A volte il triplo.
Il rispetto crebbe. Ma con esso anche la paura.
Per i suoi seguaci, Vincenzo non era più solo il compagno di scorribande: era diventato il capo. Loro lo seguivano come si segue un santo o un demone, a seconda del giorno. E Napoli, con le sue fogne che vomitavano cadaveri e la puzza di disinfettante nelle strade, diventava ogni giorno di più il suo regno.
Ma l’epidemia non aveva portato solo morte. Aveva portato occhi, ispezioni, governi. La città doveva cambiare. E in fretta.
La "Legge del Risanamento" fu calata su Napoli come una mannaia. Interi quartieri vennero demoliti, i vicoli allargati, le fogne ricostruite. Le autorità volevano stanare il colera e, con esso, la delinquenza che si nascondeva nel ventre della città.
Vincenzo capì che i tempi stavano cambiando. I vicoli non sarebbero più stati i suoi nascondigli. Il suo potere, come l’oro che rubava, rischiava di sciogliersi tra le mani se non avesse trovato il modo di adattarsi.
E così, mentre il colera si spegneva come una candela sotto la pioggia, Vincenzo guardava la città rinascere, con gli occhi di chi non voleva essere travolto dal cambiamento, ma cavalcarlo.
Come un re senza corona. Come un ladro con il cuore pieno di numeri.
L’aria odorava di calce viva e polvere, mentre le impalcature della Galleria Umberto si stagliavano contro il cielo d’agosto come uno scheletro d’oro e ambizione. I martelli battevano come tamburi, e il vociare degli operai si mescolava al rumore delle carriole. Nessuno prestava troppa attenzione a quel giovane dagli occhi neri e le mani veloci, che si muoveva tra le colonne in costruzione con l’agilità di un gatto randagio.
Vincenzo non era uno qualunque.
Aveva imparato presto a vivere d’ingegno, a sopravvivere di notte e a sparire di giorno. Il suo nome passava di bocca in bocca nei bassi del Quartiere Montecalvario, nei vicoli sfregiati dal colera, dove il pane era più raro dell’onore.
Quella galleria, costruita sui resti del Rione Santa Brigida – spazzato via con la forza e con la scusa del morbo – per lui era più di un simbolo: era un’opportunità. Mentre i ricchi progettavano cattedrali di vetro e ferro per dimenticare la paura, Vincenzo si introduceva tra le impalcature e rubava. Marmo. Piccoli blocchi, schegge pregiate di Carrara, da rivendere a mezza voce nei retrobottega dei rigattieri o agli scalpellini del Vomero.
Ma non era solo un ladro.
Vincenzo aveva un talento naturale per la bellezza. Osservava ogni dettaglio del cantiere: le volute delle colonne, l’armonia delle arcate, i riflessi dorati delle cupole. E sognava. Sognava di più. Di un futuro dove non avrebbe dovuto nascondersi. Dove avrebbe potuto costruire, non solo rubare.
Uno dei compagni più fedeli di Vincenzo era Carmine. Avevano la stessa età, ma erano diversi come il giorno e la notte. Vincenzo era scaltro, veloce, con gli occhi sempre in allerta, pronto a cogliere l’occasione. Carmine, invece, era riflessivo, spesso silenzioso, come se ascoltasse un mondo che gli altri ignoravano.
Una sera, mentre camminavano tra i vicoli umidi e scuri della città vecchia, Carmine ruppe il silenzio.
— «Vincenzo, sai perché la galleria l’hanno chiamata Umberto I?»
Vincenzo si girò con un’espressione sorpresa, quasi infastidita dalla domanda.
— «No... tu lo sai?»
— «Sì. Mi sono informato. È il nome del Re d’Italia… che sarebbe anche il nostro re!»
— «Il nostro re?! Ma chi lo conosce! E tu come fai a saperlo?»
— «Sto iniziando a imparare a leggere… credo sia importante, capisci?»
Vincenzo si irrigidì. Gli sembrava una perdita di tempo, quasi un tradimento.
— «Lascia stare. Non perdere tempo inutilmente. Pensa che domani dobbiamo rubare, altrimenti non mangiamo. E poi non dare retta a quelli del nord: qui ci sono problemi che nessuno ha mai voluto risolvere.»
Quelle parole, seppur dette con tono duro, non ferirono Carmine. Ma qualcosa si incrinò, come una crepa sottile nel muro. Da quel giorno, tra i due amici iniziò a delinearsi una differenza di visione. Vincenzo vedeva il mondo come una lotta per la sopravvivenza. Carmine iniziava a immaginarlo come qualcosa da capire, forse anche da cambiare.
Continuavano comunque a frequentarsi, spinti dalla necessità: il bisogno di portare a casa qualche soldo, di riempire lo stomaco e sfuggire alla fame che li tallonava come un cane randagio.
Ogni sera, Vincenzo tornava stanco e sporco nel buco che chiamava casa. La stanza puzzava di muffa e miseria, ma era tutto ciò che aveva. Tuttavia, in quel vicolo dimenticato, c’era una presenza insolita. Un uomo, magro e con i baffi, si sedeva spesso su un muretto e suonava la chitarra. Le sue dita danzavano sulle corde con una delicatezza che sembrava appartenere a un altro mondo. Cantava canzoni d’amore — sincere, malinconiche — rivolte a una donna che abitava proprio accanto alla stanza di Vincenzo.
La donna usciva sul balcone, ogni volta. Non diceva nulla, ma sorrideva. E in quel sorriso c’era un universo che Vincenzo non capiva. Non c’era fame, non c’era miseria, solo un barlume di qualcosa di più… forse speranza, forse follia.
Una notte, mentre si toglieva le scarpe stracciate, Vincenzo si fermò a guardare l’uomo e la donna. Per un istante, qualcosa gli tremò dentro. Un pensiero fugace, quasi una domanda: "E se Carmine avesse ragione?"
Ma poi scrollò le spalle. Domani bisognava mangiare.
C’era qualcosa di magnetico in quel rituale, qualcosa che spezzava la monotonia del vicolo sporco e puzzolente dove Vincenzo viveva. Quella sera, incapace di tenere a bada la curiosità, il giorno seguente cercò Carmine.
Lo trovò seduto su un gradino, intento a rigirare tra le mani un giornale vecchio.
— «Carmine, sono diversi giorni che ogni sera c’è un tipo che canta e suona sotto una finestra, con una donna che lo guarda da sopra... sembrano innamorati. Ma che significa tutta questa scena?»
Carmine scoppiò in una risata, allegra e profonda, come solo chi sa qualcosa in più riesce a fare.
— «Ah! Conosco bene quel bel giovanotto. Ogni sera fa la serenata a quella donna. Nella sua voce e con quella chitarra esprime il suo amore. Se lei ricambia, si affaccia e butta giù una rosa. Se non lo fa… chiude la finestra e spegne la luce.»
Vincenzo si grattò la testa, incuriosito.
— «Ma allora… da quello che vedo la donna sembra proprio interessata, sta lì ogni sera ad ascoltarlo. Ma non ha mai buttato la rosa. Perché?»
Carmine rise ancora, ma questa volta con un velo d’amarezza.
— «Vuoi sapere perché non gliela butta?»
— «Sì, non capisco.»
— «Perché quella donna è sposata, Vincenzo. Anche se il suo cuore è stato rapito da quel giovane, lei non può permettersi di rompere il matrimonio. Ha giurato davanti a Dio di restare fedele. E lei, quel giuramento, lo prende sul serio.»
Vincenzo ammutolì. Una storia d’amore, sì… ma con un retrogusto amaro, quasi ingiusto.
— «Ma lui… quel bel giovanotto… lo sa che lei è sposata?»
— «Certo che lo sa. Ma è perdutamente innamorato. E a quanto pare… anche lei.»
— «È una storia triste… soffrono entrambi.»
Carmine annuì, lo sguardo perso nel vuoto.
— «Lui è uno studente, viene da fuori. Lei è la moglie di un pescatore, un uomo molto più grande. Si sposarono per necessità, per salvare la famiglia di lei dalla fame. Non fu una scelta d’amore… ma di sopravvivenza.»
Vincenzo strinse le labbra, con un senso di rabbia che non riusciva a spiegare. Poi, come se un dubbio improvviso lo attraversasse:
— «Ma… il marito? Lo sa che lo studente fa la corte a sua moglie?»
— «Lo sa, sì. E ne è furioso. Ieri pomeriggio l’ho sentito parlare con on Vittorio… si stava lamentando proprio di questo.»
— «On Vittorio? Chi è?»
Carmine lo guardò e si mise di nuovo a ridere, stavolta scuotendo la testa.
— «Vincenzo, tu pensi solo a rubare, e non ti informi. Ed è pericoloso, lo capisci? On Vittorio è il guappo del nostro quartiere. Mantiene l’ordine. Nulla succede qui senza il suo permesso.»
— «Ah sì! Ora ricordo… è quell’uomo sempre elegante, lo vedo spesso passeggiare per via Roma.»
— «Proprio lui. Il marito ha chiesto a on Vittorio il permesso di sfreggiare lo studente, per dargli una lezione e scacciarlo dal quartiere.»
— «E on Vittorio… gliel’ha concesso?»
Carmine abbassò la voce, come se il vento potesse tradirli.
— «All’inizio no. Il marito, per rispetto, ha obbedito. Ma poi… ha minacciato di togliersi la vita, tanta era la vergogna. Così, on Vittorio ha ceduto. Gli ha dato il permesso di sfreggiarlo, ma ha proibito di ucciderlo.»
— «Cos’è… lo sfregio?»
— «È una ferita inferta con il rasoio, in viso, che lascia un segno per tutta la vita. Un marchio di dolore e di vergogna. Ma uccidere no, quello no. On Vittorio non vuole morti nel suo quartiere. La morte porta gli sbirri, porta il caos. E lui, l’ordine lo difende con tutto se stesso.»
Vincenzo rimase in silenzio. La storia della rosa che non cadeva si era trasformata in qualcosa di molto più pericoloso e oscuro. Non era solo una questione di amore o di passione. C’era l’onore, la legge non scritta della strada, la crudeltà silenziosa delle scelte obbligate.
E quella sera, mentre il sole tramontava sui tetti rossi e le campane lontane annunciavano l’ora dell’Ave Maria, Vincenzo si ritrovò a guardare ancora quella finestra. Lo studente suonava, la donna ascoltava.
La rosa, ancora una volta, non cadde.
Ma l’aria… sembrava più tesa del solito.

— «Chi è il guappo? E perché bisogna ubbidire a lui?»
Vincenzo lo chiese a mezza voce, mentre camminava al fianco di Carmine lungo i vicoli anneriti dal tempo e dalla miseria. Il sole ormai era calato e i lampioni a gas, tremolanti, gettavano ombre lunghe e sottili.
Carmine lo guardò serio, fermandosi un attimo.
— «Vincé, stammi a sentire bene. Il guappo è l’eroe del quartiere, è quello che protegge i più deboli. È un gentiluomo romantico, con la camicia stirata e il cuore appassionato. Tiene l’ordine, scaccia chi vuole farci del male. E quando lo incontri, anche se passa in carrozza… china il capo e togliti la coppola. È segno di rispetto.»
— «E se non lo faccio?» chiese Vincenzo, quasi per sfida.
Carmine si voltò di scatto, lo afferrò per il collo della camicia e lo spinse contro un muro sporco d'umidità.
— «Tu non capisci, Vincé! Per gente miserabile come noi… ci vuole un padrone a cui ubbidire. Altrimenti c’è la morte. E non quella dolce nel sonno... ma quella lenta, sporca e solitaria, in un vicolo come questo.»
Lo lasciò andare, con uno sguardo che mescolava rabbia e pena. Vincenzo si sistemò la camicia, non disse nulla. Ma gli occhi si erano fatti improvvisamente più stanchi.
Proseguì da solo verso casa, le mani affondate nelle tasche e la mente piena di domande senza risposta. Dovette scansare due uomini che si prendevano a spintoni per un posto letto in affitto offerto da una vedova al terzo piano. Poco più avanti, una fiumana di ambulanti gli offriva di tutto: calze bucate, sapone fatto in casa, frutta acerba e giornali vecchi. Ma lui tirava dritto, come un automa.
Davanti al suo portone, come ogni sera, c’era lo studente con la chitarra. Quella sera però non cantava d’amore. Le sue dita scorrevano lente sulle corde, e le parole che uscivano dalle sue labbra erano imprecazioni dolci, versi spezzati da un dolore che sembrava scavargli il petto. Aveva gli occhi rossi, forse per il vino o forse per le lacrime che non voleva mostrare.
Vincenzo lo guardò per un attimo, poi spinse la porta e salì le scale.
Dentro casa, la scena era sempre la stessa. Un lume a olio al centro della tavola illuminava volti scavati dalla fatica. Il cibo era poco: pane raffermo, qualche oliva, un pugno di ceci cotti in acqua e sale. I genitori, come ogni sera, si ritirarono in un angolo, rinunciando a mangiare per lasciare qualcosa in più ai figli.
La povertà aveva il volto della rinuncia quotidiana.
Dopo aver mandato giù un tozzo di pane, Vincenzo si avvicinò a suo padre, che stava seduto su uno sgabello con lo sguardo fisso nel vuoto.
— «Padre… vorrei sapere da voi alcune cose.»
— «Dimmi, figliolo.»
— «Perché viviamo in povertà? Garibaldi ci aveva promesso benessere… Chi erano i briganti?»
Il padre lo guardò con uno sguardo profondo, poi fece cenno di sedersi. Il lume tremava come se sapesse che stava per essere raccontata una verità scomoda.
— «Viviamo in povertà perché le cose non sono andate come ci avevano promesso. L’Unità d’Italia, figlio mio, ha portato più dolori che vantaggi a questa parte del Paese. Il trasferimento della capitale a Roma ha fatto svuotare Napoli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. Senza loro… il commercio è calato. Senza commercio… il lavoro è svanito. E con esso, anche la speranza.»
Fece una pausa. Vincenzo ascoltava in silenzio, come se quelle parole aprissero una ferita che aveva sempre avuto ma che non aveva mai saputo di avere.
— «Il porto di Genova è stato aiutato, il nostro dimenticato. Gli investitori hanno scelto il nord: strade migliori, più vicine ai loro paesi. E gli ex soldati borbonici? Buttati in mezzo alla strada senza lavoro, né pensione. E allora… alcuni di loro sono diventati briganti.»
— «Ma chi erano davvero… i briganti?»
Il padre lo guardò negli occhi.
— «All’inizio? Erano bande che vivevano nei boschi, sì. Rubavano per vivere. Ma dopo l’Unità… molti di loro hanno preso coscienza. Hanno iniziato a combattere per la libertà, per la loro terra. Sono diventati ribelli, patrioti. Volevano difendere il Sud, che veniva spogliato a nome dell’Italia unita.»
Vincenzo serrò i pugni.
— «E noi non potevamo fare niente?»
— «Cosa vuoi fare, figlio mio? Non ci hanno solo tolto il pane… ci hanno tolto anche le parole. Hanno vietato il napoletano nelle scuole. La nostra lingua, la nostra storia… cancellate.»
Si alzò lentamente, poi aggiunse:
— «E per finire, ci hanno truffati col cambio della moneta. Il ducato valeva più della lira. Ma ce lo hanno cambiato uno a uno. È stata una rapina, non un’unione.»
Fu allora che Vincenzo comprese. Il dolore non era solo fame. Era una fame che veniva da lontano, da decisioni prese in stanze lontane, da uomini ben vestiti che non avevano mai conosciuto il rumore della pancia vuota.
Quella notte, mentre fuori lo studente cantava il suo amore impossibile, Vincenzo non riuscì a dormire. Guardò il soffitto umido e si chiese se sarebbe mai esistito un domani in cui avrebbe potuto vivere senza abbassare la testa davanti a nessuno. Nemmeno al guappo.

Vincenzo non riusciva a staccare lo sguardo dal lume tremolante. Il volto di suo padre, scavato dagli anni e dalla fatica, era illuminato a metà dalla fiammella che sembrava anch’essa tremare sotto il peso della verità.
— «Ora non esistono più?» chiese piano, quasi con speranza.
Il padre sospirò, poi abbassò gli occhi come se stesse parlando con i fantasmi del passato.
— «Non più. Il governo italiano, con la legge Pica, li ha sterminati. Ha mandato l’esercito, migliaia di soldati… e in dieci anni li hanno spazzati via: arrestati, giustiziati, cancellati dalla faccia della terra. Il brigante era un problema, un simbolo scomodo. Non si poteva tollerare chi si opponeva al nuovo ordine.»
Vincenzo si avvicinò, sentiva il cuore stringersi.
— «Tu… li hai visti?»
Il padre annuì lentamente, senza alcuna vanità, come se fosse un dolore da rispettare.
— «Certo. Li ho visti. Li ho conosciuti. In qualche occasione li ho aiutati. Erano uomini come noi, ma con gli occhi pieni di fuoco. Hanno combattuto fino alla fine, ma gli italiani del nuovo regno erano più forti, meglio armati, più feroci. In tutta la campagna hanno ucciso cinquemila briganti. Li hanno crocifissi, squartati, seppelliti vivi… e poi… poi sono arrivati gli scrittori, quelli pagati per riscrivere la storia.»
Fece una pausa, come se facesse fatica a proseguire.
— «Hanno scritto che erano ladri, assassini, banditi. Li hanno infangati, resi mostri. Ma io li ho visti morire con dignità, cantando canzoni alla loro terra. Vincé… li hanno uccisi due volte: prima con il ferro, poi con la penna.»
La stanza era sprofondata in un silenzio che nessuno osava rompere. Fu il padre a riprendere la parola, con voce più ruvida.
— «E sappi un'altra cosa… Napoli nella sua storia è stata dominata da tutti: greci, romani, bizantini, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnoli, austriaci, francesi, borbonici… e ora gli italiani. Sempre qualcuno sopra la nostra testa, sempre un padrone a cui piegarsi. Non siamo mai riusciti a governarci da soli. E forse, figlio mio, è nel nostro destino. Siamo un popolo misto, una cultura ricca ma disunita. E ora… ci dobbiamo rassegnare ad avere i piemontesi come sovrani.»
Vincenzo rimase in silenzio. Quelle parole lo ferivano e lo confortavano allo stesso tempo. Per la prima volta sentiva la storia non come qualcosa da leggere, ma come una catena che portava ancora addosso, stretta ai polsi. Non era solo lui ad essere povero. Lo era stato suo padre, suo nonno, e il nonno ancora prima. Era una povertà tramandata, sedimentata, accettata come la pioggia o la fame.
Eppure, dentro di lui, qualcosa si agitava.
Quella sera, quando si sdraiò sul saccone di paglia, Vincenzo non chiuse gli occhi. Restò a guardare il soffitto annerito, mentre fuori lo studente innamorato cantava ancora, ma stavolta in silenzio. Solo le corde pizzicate della chitarra raccontavano il suo tormento.
Il giorno dopo, pensò, qualcuno sarebbe stato sfregiato. Qualcuno avrebbe versato sangue per amore.
Ma Vincenzo sentiva che il vero sfregio… era nella carne viva della sua terra.
E quella, nessuno l'aveva mai davvero curata.

I suoi vestiti puzzavano di muffa e sventura, gli stracci che portava addosso sembravano non aver mai conosciuto né sapone né dignità. I pidocchi gli danzavano tra i capelli e le scarpe, ormai ridotte a brandelli, lo costringevano a camminare scalzo: una soluzione meno dolorosa del dover sopportare la pelle lacerata dal cuoio spaccato. Eppure, ogni mattina, come un rito, Vincenzo si affacciava alla finestra della sua stanza nel basso, al terzo piano di un palazzo decadente nel cuore della città.
Da lì vedeva tutto. E ogni giorno, alla stessa ora, c’era quel giovane studente che sedeva in silenzio sotto il suo portone. Non parlava mai, non si muoveva quasi, come pietra scolpita nel dolore. Aveva un’aria rassegnata, malinconica. Quel vicolo sudicio e maleodorante, impregnato di piscio e di silenzi, era lo specchio fedele della città: Napoli in ginocchio, Napoli senza speranza.
Quella mattina Vincenzo sentì un morso allo stomaco che non era fame: era inquietudine. Il ragazzo, quello della serenata, era ancora lì. E Vincenzo sapeva. Sapeva che da lì a poco sarebbe stato aggredito. E non da uno qualunque. Il marito della donna che lo studente amava, un uomo geloso e potente, aveva già ottenuto il permesso. On Vittorio, il guappo del rione, aveva dato il via libera. Nessuno avrebbe potuto fermarlo. Nessuno… tranne forse lui.
Si legò la camicia alla cintola e scese le scale, deciso. Quando fu davanti al ragazzo, si avvicinò lentamente e sussurrò:
— «Ehi... ti posso dire una cosa importante?»
Lo studente sollevò appena il capo. I suoi occhi erano pozzi senza fondo, intrisi di amarezza.
— «Cosa vuoi, ragazzo?»
— «Io ti vedo. Sempre. Quando canti quella serenata alla tua donna. Ma il tuo amore... non è ricambiato. E so anche perché.»
Il giovane aggrottò le sopracciglia, con una nota di sospetto.
— «Vedo che sei ben informato. Cosa vuoi da me?»
— «Voglio salvarti. Il marito sa tutto, e vuole sfregiarti. Ha ottenuto il permesso da on Vittorio. Devi andartene, adesso. Non c’è più tempo.»
Lo studente guardò istintivamente verso l’alto, verso la finestra della donna. Ma era vuota. Nessun volto, nessuna mano a salutarlo, nessuna speranza. Un velo di omertà e di dolore era calato su di lui come la nebbia sul mare.
— «Capisco. Va bene. Grazie.»
Ma Vincenzo lo afferrò per la camicia, con rabbia.
— «Ma non capisci? Devi scappare! Non farti più vedere!»
Il giovane non si mosse.
— «No. Io resto. Se non posso avere la mia amata, allora venga pure la morte. Senza di lei non ho scopo di vita.»
Vincenzo rimase a guardarlo, incredulo. Dentro di sé provava ammirazione e tristezza. Poi si voltò, guardingo, per assicurarsi che nessuno lo stesse spiando, e risalì nella sua abitazione, dove si lasciò cadere sul letto, ancora vestito. Si addormentò senza sogni, solo con il peso dell’inevitabile.
L’indomani, con le prime luci dell’alba, si incamminò per via Roma. Il sole di agosto colava come pece dalle mura e la città sembrava trattenere il fiato. Doveva raggiungere Piazza San Ferdinando, dove lo attendevano alcuni amici, tra cui Carmine, il suo compagno di mille guai.
Ma a metà strada, proprio all’altezza del Teatro, una carrozza apparve davanti a lui. Il cocchiere, impassibile, reggeva le redini di due cavalli neri come la notte. All’interno, seduto con un’eleganza sinistra, c’era lui: on Vittorio.
Vincenzo si fermò. Il cuore gli batteva come tamburo in petto. Gli occhi del vecchio guappo incrociarono i suoi. Nessun cenno, nessuna parola. Ma Vincenzo capì: il destino stava per compiersi.
E lì, in quel momento, si rese conto che, nonostante il sudiciume, la fame e le cicatrici, lui aveva ancora qualcosa da perdere. Ma lo studente no.
Vincenzo rimase lì, immobile, come se il tempo si fosse bloccato. Non fece in tempo nemmeno a togliersi la coppola, che la carrozza si fermò bruscamente, con le ruote che graffiavano i ciottoli. Una porta si aprì con un colpo secco e ne scese lui: on Vittorio, l’uomo che tutti conoscevano, che nessuno osava guardare negli occhi.
Si avvicinò con passo deciso, il bastone che picchiava ritmico sul selciato e lo sguardo tagliente come una lama.
«Giovanotto… ma nessuno ti ha insegnato l’educazione?» disse, la voce colma di veleno e superiorità.
Vincenzo sentì la gola seccarsi. Avrebbe voluto scomparire. Fece un mezzo passo indietro e con un filo di voce rispose:
«Vi chiedo scusa… non ho avuto il tempo… ma vi assicuro che non era mia intenzione mancarvi di rispetto.»
Abbassò lo sguardo, come si fa davanti a un giudice o a un dio capriccioso. Ma on Vittorio non era tipo da perdonare in silenzio. Gli mise una mano sotto al mento e gli sollevò il viso, con una dolcezza che sapeva più di minaccia che di carezza.
«Impara a tenere rispetto per gli uomini adulti…» disse lentamente, scandendo le parole. «E impara a non intrometterti negli affari del mio quartiere. Mi sono spiegato?»
Quelle parole caddero come pietre. Vincenzo non aveva bisogno di spiegazioni: sapeva benissimo a cosa si riferisse. Il suo gesto di avvertire lo studente era stato visto. E giudicato.
«On Vittorio… vi chiedo ancora scusa… e sappiate che non vi mancherò più di rispetto.»
Un silenzio breve. Poi l’uomo annuì, soddisfatto.
«Bravo. Ora vai. I tuoi amici ti stanno aspettando… e io non voglio disordini nel mio quartiere.»
Con un gesto impercettibile, fece segno al cocchiere, che immediatamente spalancò la porta. On Vittorio risalì sulla carrozza, lasciandosi dietro il solito profumo costoso e quella scia di potere che lo precedeva e lo seguiva sempre. Il cocchio ripartì lentamente, e la gente ai lati della strada si fece da parte, abbassando lo sguardo, mormorando saluti e inchinandosi appena.
Vincenzo restò fermo qualche secondo, poi si asciugò la fronte con la manica. Il cuore gli martellava nel petto. Era vivo, ma sentiva di aver camminato sull’orlo del precipizio.
Quando raggiunse finalmente i suoi amici in piazza San Ferdinando, Carmine lo accolse con una pacca sulla spalla:
«Oh Vincé! Ma dove sei stato? T’hai visto la faccia? Sei pallido come un lenzuolo!»
«Non è niente, Carmine… solo un po’ di caldo» mentì, con un sorriso tirato.
Ma mentre gli altri ridevano e parlavano delle solite futilità, Vincenzo guardava oltre, verso il vicolo dove poco prima aveva sfiorato la morte. Si era illuso di poter cambiare qualcosa, di fare la cosa giusta, e ora capiva: a Napoli certe verità hanno un prezzo, e lui lo aveva appena sfiorato.
Eppure, dentro di sé, qualcosa era cambiato. On Vittorio lo aveva ammonito, è vero. Ma non lo aveva punito. Forse lo rispettava. O forse stava solo aspettando il momento giusto.
Vincenzo e Carmine si incamminarono in direzione di Chiaia, le mani in tasca e gli occhi vigili. L’obiettivo era chiaro: le signore delle carrozze, con quegli orecchini pendenti che scintillavano come piccole lune. Bastava un attimo, una corsa, una mano veloce, e via.
Ma quella sera il destino aveva altri piani.
Mentre si avvicinavano a una traversa silenziosa, un uomo comparve all’improvviso. Nessun grido, nessun avvertimento. Solo il clic secco di una pistola puntata. Si fermarono di colpo, il cuore in gola, lo sguardo fisso sull’acciaio lucido.
«Niente scherzi. Adesso venite con me.»
Li condusse per vicoli e cunicoli, fino a via Nardones. Lì, dentro un alloggio poco illuminato, li attendeva un uomo dal portamento teatrale, il petto gonfio come quello di un gallo da combattimento. Lo chiamavano Ciccio, e bastò uno sguardo per capire che non era uno qualunque.
«Ragazzi,» disse con voce carismatica e dura, «voi oramai siete quasi uomini ed è giusto che vi sia data una guida.»
Li squadrò uno a uno con occhi fiammeggianti, come se cercasse di leggere l’anima dietro lo sguardo.
«Vi affiderò a Raffaele. Vi insegnerà come funziona la vita di strada e le sue regole. I più forti entreranno nella nostra famiglia. Riceverete benefici, ma avrete anche doveri. So che alcuni di voi già lo conoscono, perciò non fate i finti tonti. Ci siamo capiti?»
I ragazzi annuirono in silenzio, le teste basse, come scolari colti in fallo. Poi furono accompagnati alla porta e lasciati andare, uno alla volta, nella notte ancora calda di voci e speranze.
Vincenzo camminava accanto a Carmine, turbato. «Ma chi è questo Ciccio?» domandò a bassa voce.
Carmine rispose senza guardarlo: «È il capo della camorra. Guai a chi gli manca di rispetto.»
Quel nome — camorra — gli rimbombava nella testa, confondendosi con altri: guappi, malavita, rispetto, onore. Ma cosa significava davvero? Chi comandava più di chi?
Non ebbe il tempo di riflettere. Il colpo mancato a Chiaia significava una sola cosa: niente soldi quella sera. Provò in ogni modo a racimolare qualcosa durante la giornata, ma Napoli sembrava aver chiuso ogni porta. Al calare della notte, affamato e amareggiato, tornò verso casa.
Quando svoltò nel vicolo che conosceva come le sue tasche, lo colpì una presenza inattesa: lo studente.
Ma qualcosa non andava.
Pochi passi dopo, un uomo comparve dall’ombra. Il volto deformato dalla rabbia, le mani strette a pugno. Prima che Vincenzo potesse intervenire, l’uomo si scagliò sullo studente con violenza. Senza pensare, Vincenzo agì.
Spinto da un impulso feroce, colpì l’aggressore. Questi barcollò, perse un rasoio che scivolò lontano. Vincenzo lo allontanò con un calcio, poi si voltò verso il giovane.
«Scappa! Fai presto!»
Lo studente non se lo fece ripetere due volte. Scomparve nel buio, come un fantasma liberato.
L’uomo a terra, ansimando, si rialzò furioso. «Perché ti sei intromesso?! Avevo il permesso di on Vittorio!»
Quel nome pesava come piombo. Ma Vincenzo non si lasciò intimidire. Lo colpì di nuovo, più volte, con rabbia cieca, fino a che il sangue non gli macchiò le mani e la camicia. L’aggressore crollò, svenuto.
Vincenzo fuggì. Le gambe correvano da sole, guidate dalla paura e da un fremito d’orgoglio che ancora non sapeva decifrare.
Arrivò a casa col fiatone, sporco di sangue, i capelli arruffati, lo sguardo ancora acceso di adrenalina. Sua madre spalancò la porta, tremante.
«Vincenzo! Figlio mio, cosa ti è successo?!»
Lui la guardò con occhi che non sembravano più quelli di un ragazzo.
Con voce bassa, ma fiera, disse:
«Madre… questa sera ho salvato una vita umana.»
Poi calò il silenzio. Un silenzio profondo, come quello che segue un tuono. Vincenzo non sapeva se aveva fatto la cosa giusta. Non sapeva nemmeno cosa sarebbe accaduto domani. Ma per la prima volta, sentì di aver scelto da solo.
E forse, quella notte, era davvero diventato un uomo.
Raccontò tutto, con il respiro affannato e gli occhi lucidi. Nessun dettaglio fu omesso. Vincenzo parlò come se volesse liberarsi di un peso troppo grande per le sue spalle: la colluttazione, il rasoio caduto, il sangue, lo studente fuggito via. Parlò con l’urgenza di chi sa di non avere più tempo.
Sua madre rimase pietrificata, il volto contratto dalla paura. Suo padre, Gennaro, invece, non disse nulla. Si alzò lentamente, come se sapesse già cosa doveva fare. Aprì un vecchio armadio, ne tirò fuori una sacca consumata e ci infilò dentro alcuni pezzi di pane avvolti in uno strofinaccio e qualche straccio pulito. Poi estrasse dal fondo del cassetto una lira argentata, la guardò un attimo alla luce fioca della lampada, e la porse al figlio con mano decisa.
«Vincenzo, ascolta…» disse con voce grave. «So che hai agito d’istinto. E sì, hai fatto qualcosa di giusto… ma l’uomo che hai colpito era sotto il nome di on Vittorio. E questo, figlio mio, non si perdona. Ti devo mettere in salvo. Subito.»
Non c’era spazio per proteste o spiegazioni. Uscirono di casa di corsa, scendendo le scale come fuggiaschi, senza voltarsi. Le strade erano ancora umide della notte, il cielo cominciava appena a schiarirsi, ma l’odore della paura era già forte.
«Padre, dove andiamo?» chiese Vincenzo, mentre correva accanto a lui, il cuore in gola.
«Da un amico mio. Un uomo fidato. Ti porterà lontano, in un posto sicuro.»
Giunsero davanti a un basso nei Quartieri Spagnoli. Gennaro bussò due volte. La porta si aprì, e comparve Nicola, un uomo di poche parole, ma con uno sguardo che parlava da solo. Si limitarono a un cenno. Nicola capì.
«Questo biglietto lo darai a Francesco» disse, consegnandogli un foglietto ripiegato mille volte. «Solo a lui.»
Il momento dell’addio era arrivato. Gennaro prese suo figlio per le spalle, lo guardò intensamente, e lo abbracciò forte, quasi a voler imprimere quell’ultima carezza sulla sua pelle per sempre. Poi gli posò un bacio sulla fronte, come quando era bambino.
«Figlio mio… dove andrai troverai persone che si prenderanno cura di te. Resta lì. Non muoverti per nessun motivo. Un giorno… un giorno verrò a prenderti.»
Vincenzo, con la gola stretta, lo fissò.
«Padre… io vi voglio bene. Ma… odio l’Italia!»
Gennaro sorrise amaro, abbassando lo sguardo per un attimo. Poi, con voce ferma:
«No, Vincenzo. Impara a volerle bene queste strade, questa terra. Un giorno saremo una nazione vera… unita, forte, orgogliosa. E tu dovrai esserne parte. Promettimi una cosa… se un giorno avrai un figlio maschio, lo chiamerai Umberto. Come il nostro Re. Me lo prometti!?»
«Sì, padre. Lo farò. Ma… perché mi dite questo? Noi ci rivedremo presto, vero?»
La carrozza era lì. Nicola fece segno di salire. Vincenzo obbedì, ma prima si voltò ancora una volta. La sua voce si ruppe nel vento dell’alba.
«Padre! Padre… tra quanto tempo verrete?!»
Gennaro restò fermo. Non disse una parola. Lo guardò soltanto, con gli occhi lucidi, il volto immobile come scolpito nella pietra.
E quel silenzio fu più duro di qualsiasi risposta.
La carrozza partì, cigolando sull’acciottolato. Vincenzo si sporse un’ultima volta, cercando con lo sguardo la figura del padre. Ma Gennaro era già scomparso nel buio di un vicolo, inghiottito da una città che non perdona.
E mentre Napoli si allontanava, Vincenzo sentì il gelo della solitudine salire dalle ossa. Un brivido lungo la schiena, uno squarcio nell’anima.
Quel silenzio lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Al ritorno, Gennaro trovò una piccola folla raccolta davanti al portone del palazzo. Il brusio, le voci concitate, la presenza di due uomini che reggevano un corpo disteso a terra: l’uomo aggredito da Vincenzo. Era ancora vivo, ma malconcio, il volto insanguinato e gli occhi chiusi. Alcuni cercavano di soccorrerlo, altri di capire cosa fosse accaduto.
Gennaro abbassò lo sguardo, serrò la mascella, e senza fiatare scivolò tra la gente, salì le scale con passo rapido e si chiuse in casa a doppia mandata.
Sapeva già.
Aveva già capito.
Si mise seduto sulla sedia, le mani tremanti, il sudore freddo che gli imperlava la fronte. Si aggrappò a una speranza che sapeva già perduta: che nessuno avesse riconosciuto il volto di suo figlio, che nessuno avesse notato i suoi occhi accesi, le sue mani furiose. Ma bastò un dettaglio, uno solo, a distruggere ogni illusione: la coppola di Vincenzo, rimasta a terra, sporca di sangue e fango. Un segno inequivocabile. Una condanna.
Fuori cominciò a piovere. Una pioggia violenta, rabbiosa, come se anche il cielo volesse piangere o punire. I tuoni squarciavano il silenzio dei vicoli, e Napoli sembrava stringersi su sé stessa, cupa, minacciosa. In quella notte di tempesta, Vincenzo proseguiva il suo viaggio rannicchiato nella carrozza, avvolto in una coperta ruvida, mentre ogni scossone del legno sotto di lui sembrava un monito, un colpo di tamburo verso l’ignoto.
Verso le due del mattino, il suono degli zoccoli cessò. La carrozza si fermò.
Erano arrivati.
Davanti a lui si stagliava una masseria, immersa nel buio della campagna, con una sola luce accesa a rischiarare la soglia. Una figura massiccia li attendeva sulla porta. Quando Vincenzo scese, sentì il freddo della terra bagnata salire fino alle ossa. Il vento portava con sé l’odore acre della pioggia e della legna bruciata.
Nicola fece un passo avanti e consegnò un foglietto ripiegato all’uomo. Questi lo aprì, lo lesse attentamente, poi sollevò lo sguardo verso Vincenzo e lo scrutò a lungo.
«Benvenuto, Vincenzo» disse con una voce grave ma calda. «Io sono Francesco. Ho letto la lettera che mi ha scritto tuo padre, e… sono lieto di aiutarti.»
Fece una pausa, poi sorrise sotto i baffi grigi.
«Ho quattordici figli, e tu sarai il quindicesimo!»
Scoppiò in una grassa risata, tanto inaspettata quanto sincera. Poi aggiunse:
«Scherzavo. Volevo semplicemente dirti che ti terrò come un figlio.»
Il cuore di Vincenzo si rilassò un poco, appena un po’. La voce di quell’uomo aveva qualcosa di vero, di protettivo. Era diverso dai volti ruvidi e taglienti di Napoli.
Nicola si voltò per andare via, ma prima si avvicinò di nuovo a Vincenzo e gli porse un piccolo involto, avvolto in un panno unto e consumato.
«Cos’è questa?» chiese il ragazzo, confuso.
Nicola lo guardò negli occhi, serio.
«È una baiaffa. Una pistola. Tienila con estrema attenzione. Impara ad usarla. Un giorno… ti potrà essere utile.»
Vincenzo deglutì, senza dire nulla. Prese l’arma, la ripose in fondo al sacco, come se stesse nascondendo un pezzo della sua vecchia vita. Poi si lanciò al collo di Nicola, lo abbracciò con forza.
«Quanto tempo dovrò stare qui? Dimmelo, ti prego!»
Ma Nicola non rispose. Gli accarezzò la testa con un gesto dolce, quasi paterno, poi si voltò e salì di nuovo sulla carrozza. Sparì nell’oscurità della campagna, lasciandolo lì.
Solo.
Francesco, intanto, gli mise una mano pesante sulla spalla.
«Vieni dentro, figliolo. Qui avrai un letto asciutto, del pane caldo e qualcuno che ti insegnerà come vivere… lontano dalla guerra dei vicoli.»
Lo accompagnò all’interno della masseria. L’aria odorava di fieno, vino e minestre. Le voci basse dei figli nelle stanze accanto, il crepitio del fuoco nel camino, tutto sembrava distante anni luce dalla Napoli che aveva lasciato.
Eppure, nel cuore di Vincenzo, quel silenzio carico e profondo… non lo abbandonava.

Quella notte, Vincenzo non chiuse occhio. La pioggia batteva incessante contro il vetro della finestra, come una danza furiosa del cielo. Il giovane era immobile, avvolto nei pensieri che si aggrovigliavano nella sua mente. Non riusciva a scrollarsi di dosso il peso di ciò che aveva fatto, il ricordo del volto dell’uomo a terra, la violenza del gesto, l’urlo che si era spezzato nei suoi orecchi. Il pensiero più grande, però, era rivolto alla sua famiglia. Come sarebbe stata la loro vita dopo quell’atto di ribellione? Cosa sarebbe accaduto a lui, al padre, a sua madre, a tutto ciò che conosceva? Era la solitudine più profonda, quella che gli toglieva respiro.
Nel frattempo, la notizia dell’aggressione si diffuse rapidamente. Fu una di quelle voci che si propaga tra le strade come un incendio: dalla bocca di un testimone all'orecchio di un altro, fino a raggiungere le mani di chi aveva il potere di fare giustizia. La coppola di Vincenzo, ormai un segno inequivocabile, finì nelle mani di On Vittorio. Fu consegnata da uomini a lui molto vicini, alcuni dei quali avevano assistito all’intera scena, altri l’avevano semplicemente udita.
On Vittorio non amava essere disturbato durante la notte. Il suo mondo era fatto di silenzio e calma apparente, interrotta solo dal battito di un cuore che sapeva come farsi sentire. Ma questa notizia, quella di un moccioso che gli aveva mancato di rispetto per la seconda volta, lo turbò profondamente. Non si trattava più di una questione di semplice ripicca. No, questa era un’affronto che non poteva rimanere impunito. Il ragazzo, quel giovane che aveva osato sfidarlo, doveva imparare a sue spese quanto fosse pericoloso ignorare le regole di Napoli.
Nel cuore della notte, On Vittorio si alzò dal suo letto, le mani tremanti ma ferme. Poteva già immaginare quale fosse il destino che lo attendeva. Non si sarebbe fermato fino a che quella giustizia non fosse stata compiuta.
Il mattino successivo, Gennaro si svegliò prima del solito, come se avesse sentito il peso del giorno gravi sulle sue spalle ancor prima di alzarsi. La sua mente era già affollata dai pensieri più cupi. Senza una parola di troppo, si vestì in silenzio, come se ogni gesto fosse un atto di devozione e sacrificio. Si inginocchiò brevemente, con la testa bassa, davanti alla Madonna del Carmine, la sua protezione in tempi di difficoltà. La preghiera che sussurrò era una di quelle che gli era stata insegnata da giovane, una di quelle che gli davano la speranza che, in fondo, la grazia potesse ancora arrivare.
Sua moglie lo guardò con occhi pieni di preoccupazione. “Gennaro, dove vai così presto?” gli chiese, cercando di trattenere la sua mano.
“Vado a vedere dove posso guadagnare qualche soldo, come al solito,” rispose, ma la sua voce tradiva una tensione sottile, come se anche lui stesse mentendo a se stesso.
“Non sei mai uscito a quest'ora,” insistette lei, guardandolo con sospetto. “E perché hai pregato alla Madonna? Vincenzo quando ritornerà a casa?”
Il cuore di Gennaro si strinse. C’era un dolore indescrivibile nel suo petto, una consapevolezza che non poteva più ignorare. Vincenzo non sarebbe più stato lo stesso ragazzo di prima, e nemmeno lui.
“Moglie mia,” disse con un filo di voce. “Nostro figlio si è cacciato in un guaio enorme. Ha agito con spirito di nobiltà, ma contro le regole di questa città. E purtroppo… ora esco ad affrontare il mio destino.”
“Cosa dici?!” disse lei, con le mani tremanti. “Chi ti ha messo in testa queste idee?”
“È inutile nascondersi. Tanto prima o poi On Vittorio mi verrà a prendere. A lui devo dare conto,” aggiunse, sussurrando la parte che gli lacerava l'anima. “Ho nascosto nostro figlio.”
Non disse altro. Si voltò e uscì di casa con passo pesante, il cuore pieno di un timore che non aveva mai conosciuto.
Passeggiò lentamente per le strade di Napoli, cercando di non dare troppo nell’occhio, ma senza una vera meta. Le strade bagnate dal mattino presto erano deserte. Si fermò a una vineria, sperando di trovare un po’ di lavoro, qualcosa che lo tenesse occupato almeno per un po'. Voleva distrarsi, ma il destino non lo permetteva.
Quando entrò, il suono del campanello della porta lo annunciò. Dietro il bancone, il titolare lo accolse senza parole, ma con un sorriso che non riusciva a nascondere una certa inquietudine. Gennaro si mise a chiacchierare con lui mentre, all'angolo della vineria, On Vittorio fece il suo ingresso. La sua figura elegante, la barba ben curata, l'espressione glaciale che lo accompagnava. I suoi occhi fissarono Gennaro, e quello sguardo fu tutto, tranne che amichevole.
Gennaro, come se fosse una reazione automatica, si alzò subito in piedi, si tolse il cappello e si inginocchiò per baciargli la mano, come segno di rispetto. Ma On Vittorio lo fermò con un gesto secco, ritraendo la mano come se fosse contaminata da un veleno invisibile. Il disprezzo non fu solo nell’atto, ma anche nei suoi occhi, che parlavano di un’ira inestinguibile.
"Sai perché sono qui, vero?" chiese On Vittorio, la voce bassa ma tagliente.
Gennaro, con il cuore che gli martellava nel petto, si alzò in piedi. La risposta era già scritta nel suo destino.
A quel gesto improvviso, gelido e rabbioso, le persone presenti nella vineria si dileguarono come topi spaventati dalla luce. Nessuno disse una parola. Nessuno si voltò indietro. Bastò la postura rigida, il volto teso e gli occhi stretti di on Vittorio per far capire che qualcosa di terribile stava per accadere. Era un linguaggio che il quartiere conosceva bene: quando il guappo non parlava, era il suo silenzio a far più paura.
Gennaro, rimasto solo, alzò lo sguardo verso l’uomo che gli stava davanti. Le sue mani tremavano, ma gli occhi erano fermi.
“On Vittorio... perché avete respinto i miei rispetti nei vostri riguardi?”
La voce gli uscì come un soffio, bagnata di umiltà e paura.
“Lo sapete bene!” ribatté l’altro con tono tagliente, mentre con un gesto secco estrasse qualcosa dalla tasca interna della giacca. Era la coppola di Vincenzo. La lanciò addosso a Gennaro con disprezzo, colpendolo al volto.
“Questa è la prova. Vostro figlio mi ha mancato di rispetto. Si è intromesso in una questione che non lo riguardava, e ha aggredito un mio uomo. Una persona che io stesso avevo autorizzato a rendere giustizia con una rasoiata. Una regola sacra, violata!”
Gennaro si inginocchiò. Era un uomo fiero, ma in quel momento non c'era spazio per l’orgoglio. Le mani giunte, gli occhi lucidi.
“Vi supplico… è solo un ragazzo, non conosce bene le regole. Ha agito d’istinto, non per offesa.”
On Vittorio non mostrò alcuna pietà. La sua risposta fu uno schiaffo secco, che risuonò tra le pareti della vineria vuota.
“Qui, nel mio quartiere, chi manca di rispetto… PAGA! Vedo che non mi avete portato vostro figlio. Vi siete presentato voi. Allora sarete voi a rispondere per lui.”
Gennaro alzò la testa. Lo sguardo era cambiato. Non c'era più solo paura nei suoi occhi, ma rabbia. Un fuoco che si accendeva per il sangue, per l’amore paterno che supera ogni logica.
“Ora basta!” gridò, con voce che tremava d’emozione. “Io difenderò mio figlio da chiunque. Lui è il mio sangue! E se dovrò affrontare tutto l’inferno per proteggerlo, lo farò.”
Si gettò in avanti, nel tentativo disperato di colpire l’uomo che gli stava rovinando la vita, ma il destino fu più veloce. Dall’ombra, uno degli scagnozzi di on Vittorio lanciò un coltello con gesto preciso e allenato. Il tempo sembrò fermarsi. Gennaro afferrò l’arma al volo, forse per usarla, ma non fece in tempo. Un altro uomo, alle sue spalle, si era già avvicinato. Il fendente gli arrivò dritto nella pancia, profondo, letale.
Gennaro cadde in ginocchio, poi a terra. Il suo respiro si fece affannoso, la bocca si riempì di sangue. On Vittorio si voltò e uscì senza più degnarlo di uno sguardo. Anche gli altri se ne andarono. Il vinaiolo fu costretto a chiudere bottega in silenzio. Nessuno osò parlare. Nessuno osò aiutare.
Il muro di omertà, vecchio quanto le pietre di Napoli, si alzò compatto come sempre. Era una regola antica, radicata nella pelle e nelle ossa della gente: chi parla, muore. E così, Gennaro morì da solo, dissanguato, con gli occhi rivolti al soffitto annerito e il pensiero che volava lontano, forse a Vincenzo, forse alla sua giovinezza, forse al mare che aveva tanto amato da ragazzo.
Passò del tempo. Nessuno entrò. Solo il destino, che si diverte a giocare con i vivi e i morti, volle che due carabinieri reali passassero di lì per caso. Trovarono il corpo riverso, freddo, già senza vita. La notizia corse veloce nel quartiere, come un vento nero.
Sua moglie, appena appresa la notizia, svenne dal dolore, colpita da una disperazione che le lacerò il cuore. Urlò, pianse, si aggrappò ai parenti come una naufraga in cerca di salvezza, ma nessuno poté darle ciò che più desiderava: riportarle il marito.
Arrivò sul posto anche il delegato di pubblica sicurezza Scognamiglio, un uomo burbero che da anni tentava di scardinare il potere dei guappi nei quartieri popolari. Cercò di raccogliere informazioni, ma trovò solo silenzio e spalle voltate. Nessuno aveva visto niente, nessuno sapeva nulla. Il muro, ancora una volta, aveva fatto il suo dovere.
Il corpo di Gennaro fu lavato, rivestito e riportato a casa. Sua moglie gli sistemò i capelli come faceva da giovane, gli mise la medaglietta della Madonna al collo e gli tenne la mano per ore, in silenzio.
Il giorno seguente, la bara fu portata a spalla da alcuni suoi parenti. Il corteo funebre attraversò le strade in un silenzio spettrale. Poche persone si affacciarono. Nessun abitante del quartiere partecipò. Era un modo per onorare il volere di On Vittorio. Un segno chiaro: chi si oppone, muore anche da morto.
E così, Gennaro fu sepolto da eroe silenzioso, un padre che aveva pagato con la propria vita per salvare quella di suo figlio. Lontano da tutto questo, Vincenzo lavorava nella masseria, tra gli animali e i campi, ignaro del sangue versato per proteggerlo. Ma il tempo, si sa, porta con sé la verità come il vento porta le foglie.
E quel giorno, anche per lui, sarebbe arrivato.

Gennaro riposava in un angolo silenzioso del cimitero, sepolto con umiltà tra croci di legno scolorito e lapidi consumate dal tempo. Nessuna tomba sontuosa, nessuna epigrafe solenne: solo un nome inciso su una lastra modesta, come tanti altri uomini del popolo, scomparsi nel silenzio di una città che da sempre divora i suoi figli migliori.
Intanto, lontano dalla polvere e dalla violenza di Napoli, Vincenzo viveva una vita nuova. La masseria di Francesco era un’oasi di pace, un rifugio dove il giovane imparava il significato del lavoro, della dignità e della libertà. Francesco, uomo giusto e severo, lo trattava come un figlio. A lui non mancava nulla: né il pane, né il rispetto, né il calore di una casa vera.
Ma a Napoli, mentre il tempo sembrava essersi fermato tra le lacrime di Amalia, qualcosa si muoveva nell’ombra. Carmine, amico d’infanzia di Vincenzo, non aveva perso tempo: approfittando dell’assenza del compagno, aveva scalato i ranghi dell’onorata società. Il rito del giuramento, fatto con il sangue e con la parola, lo aveva consacrato picciotto onorato, e con quel titolo erano arrivati rispetto, denaro e un potere che la sua famiglia non aveva mai nemmeno sognato.
Un giorno, spinto da un misto di nostalgia e curiosità, Carmine si recò nella vecchia casa di Vincenzo. Bussò forte, come si fa tra poveri. Amalia, vestita di nero e col volto scavato dal dolore, aprì la porta. Fece fatica a riconoscerlo: era elegante, ben pettinato, con l’aria sicura di chi comanda. Eppure, in quegli occhi, c’era ancora il ragazzo che correva per i vicoli con suo figlio.
«Signora Amalia, vi dovete fare forza. Oggi stesso vi farò portare qualcosa da mangiare dal pizzicagnolo.»
«Grazie Carmine, sei gentile… Ma io non riesco a vivere senza mio marito. On Vittorio mi ha tolto la vita.»
Carmine annuì lentamente, il volto teso.
«Lo so. So bene che si è sacrificato per Vincenzo. Questo gli dà onore. Ma voi ora non dovete più niente a nessuno. On Vittorio ha avuto ciò che voleva. Perché vostro figlio non è qui con voi? Dov’è?»
Amalia abbassò lo sguardo.
«Sta in provincia, da un amico di Gennaro. Lo tiene con sé come un figlio. Non sa ancora nulla... e io... io non ho la forza di dirglielo.»
«Non può stare sempre nascosto. Prima o poi dovrà tornare. E se non glielo dite voi, lo farò io.»
Carmine si alzò in piedi, la voce ferma ma rispettosa.
«Da oggi siete sotto la mia protezione. Se avrete problemi, anche con on Vittorio, venite da me. Mi sono spiegato?»
«Sì... Ti ringrazio.»
«E mi raccomando… diteglielo. Deve sapere.»
Le lasciò qualche soldo per una lettera, per un francobollo, per rompere il silenzio. Ma Amalia non scrisse mai nulla. Il dolore la paralizzava, la costringeva a vivere tra il presente e il passato, come se il tempo si fosse cristallizzato in quell’unico istante in cui aveva perso Gennaro.
Passarono gli anni.
Carmine mantenne la parola: si occupò di lei, dei figli minori, e nessuno più osò infastidirli. Era diventato una figura rispettata, un giovane uomo che mescolava forza e generosità con il carisma tipico dei veri leader di strada.
Nel frattempo, Vincenzo cresceva.
Aveva lasciato alle spalle la rabbia e l’istinto delle prime ore, sostituendoli con la pazienza e la disciplina. Assunta, la figlia di Francesco, era entrata nella sua vita in punta di piedi. Una fanciulla dolce, con gli occhi pieni di cielo e la voce gentile. Si frequentavano con discrezione, tra i muretti di pietra e gli ulivi secolari, come due anime che si erano riconosciute prima ancora di parlarsi.
In lei, Vincenzo scoprì qualcosa di nuovo: l’amore puro, quello che fa tremare le mani e battere il cuore senza bisogno di parole.
Con Francesco imparò l’arte della vita: come si scrive una lettera, come si apparecchia una tavola, come ci si rivolge a un ospite con rispetto. Ma anche come si caccia, come si carica un fucile, come si difende ciò che si ama.
Fu durante una sera d’estate, nel 1895, che Vincenzo si voltò verso Assunta mentre la luna piena li avvolgeva nel suo chiarore argentato.
«Assunta… devo dirti una cosa. Presto andrò a Napoli.»
Lei non parve sorpresa. Lo guardò con i suoi occhi sinceri.
«So che lì c’è la tua famiglia. E ti comprendo… Ma… ritornerai?»
Lui le prese la mano.
«Certo che ritornerò, amore mio. Voi siete la mia seconda famiglia. E poi… come potrei vivere senza di te?»
Si abbracciarono, stretti, nel silenzio complice della campagna. I grilli cantavano, il vento accarezzava le spighe e la luna li benediceva, inconsapevole del destino che stava per rimettersi in moto.
Perché Vincenzo stava per tornare a Napoli.
E là, sotto i vicoli bui e le finestre socchiuse, il passato lo stava aspettando.

CAPITOLO 2
Il guappo
All’indomani, mentre l’alba tingevano di rosa i campi ancora addormentati, Francesco fece preparare ogni cosa per il viaggio. Ordinò che venisse pronta la carrozza migliore, fece caricare casse di viveri, conserve, olio, pane e formaggi stagionati.
Vincenzo lo salutò con rispetto e riconoscenza, ricevendo da lui anche una pistola “baiaffa” che teneva a portata di mano. Non si fidava delle strade. I sentieri che portavano a Napoli erano spesso battuti da banditi e disperati pronti a tutto.
Durante il tragitto, la carrozza sobbalzava a ogni buca, il sole scottava sulla nuca, e la polvere si sollevava in piccole nuvole secche. Vincenzo, però, scrutava l’orizzonte con sguardo attento. Aveva lasciato Napoli ragazzo, ci tornava uomo. Accanto a lui, Giorgio – il collaboratore di Francesco – sembrava invece frastornato, come un contadino catapultato in un sogno troppo rumoroso.
«Attento, Giorgio, non parlare con nessuno e non fissare la gente in faccia. Qui basta uno sguardo storto per finire nei guai» disse Vincenzo, con tono serio.
«Ma com’è possibile? Solo per uno sguardo?»
«Qui a Napoli lo sguardo è tutto. È rispetto. È sfida. È condanna.»
Arrivarono alle porte della città nel tardo pomeriggio. Lasciarono la carrozza in un androne messo a disposizione da un vecchio amico di Gennaro, e proseguirono a piedi, caricando le provviste su una carriola. Le strade erano strette, i vicoli densi di odori – tra sugo, umidità e panni stesi – e le voci si rincorrevano tra i muri scrostati.
A un tratto, da un balcone al secondo piano, cadde un fazzoletto unto di salsa. Giorgio si fermò di colpo, lo raccolse, poi alzò lo sguardo verso una signora affacciata:
«Bel giovane, potreste rimetterlo nel paniere?»
«Con piacere, signora. Abbassate pure.»
Lo fece, e un profumo di ragù gli colpì le narici. Mentre proseguivano, Giorgio si grattò la testa:
«Che stranezze... ma com’è che le è caduto un fazzoletto proprio adesso, e proprio lì?»
Vincenzo scoppiò a ridere. Una risata amara ma sincera.
«Te lo spiego io, Giorgio. Non è caduto per sbaglio. La signora l’ha fatto apposta. È un modo per mostrare che a casa sua si mangia bene, che il ragù bolle lento e abbondante. È Napoli: anche un fazzoletto unto può essere uno status.»
Arrivarono finalmente al portone di casa. Vincenzo si fermò un istante, il cuore che batteva come un tamburo. Non saliva quei gradini da tre anni. Non sapeva cosa lo aspettasse. Bussò.
Ad aprire fu sua madre, Amalia. Era cambiata: il volto scavato, lo sguardo spento, i capelli sciolti sotto il velo nero. Per un istante rimase immobile, poi allargò le braccia tremanti:
«Vincenzo… figlio mio…»
Lo strinse forte, piangendo, ma lui sentì subito che qualcosa non andava.
«Dov’è papà?»
Amalia sbiancò. Un attimo di esitazione bastò a far esplodere la verità.
«Non c’è più, Vincenzo. È morto.»
Lui la spinse via, gli occhi accesi di rabbia e incredulità.
«Cosa dite?! Che vuol dire morto?! Quando?! Perché non me l’avete detto?!»
Amalia abbassò lo sguardo, cercando rifugio in una bugia:
«È morto all’improvviso, pochi mesi fa. Un malore…»
«Non vi credo. So benissimo che papà è morto per colpa mia. Si è sacrificato per me. Non dite bugie, mamma. Papà è morto per on Vittorio.»
Crollò a terra. Si portò le mani al volto, disperato, mentre i fratellini si affacciavano curiosi e intimoriti dalla stanza accanto. Giorgio, che non aveva mai visto l’amico in quelle condizioni, si fece da parte, rispettoso.
Il dolore che Vincenzo provava in quel momento non aveva voce. Era un dolore sordo, profondo, come una lama che gira nella carne. Era il dolore del rimpianto, dell’assenza, della verità taciuta per troppo tempo.
E in quel momento giurò, in silenzio, con gli occhi ancora lucidi:
"Io onorerò mio padre. Con la verità. Con la giustizia. E se serve… con il sangue."
Le ore che seguirono furono silenziose, cariche di un dolore che non trovava sfogo. In casa regnava un'atmosfera irreale: i fratellini, ancora troppo piccoli per comprendere, giocavano con le carte consumate accanto al lume, mentre Amalia, in un angolo della stanza, stringeva un rosario tra le dita come fosse l’unica cosa che le impediva di crollare del tutto.
Vincenzo, invece, sedeva al tavolo, le mani intrecciate, lo sguardo fisso davanti a sé, nel vuoto. I suoi occhi non piangevano più, si erano asciugati come la terra dopo un temporale. Dentro di lui, però, qualcosa si era spezzato. La morte di Gennaro, così taciuta, così ammantata di omertà, lo divorava più di quanto potesse ammettere.
Giorgio, seduto in disparte, si avvicinò con cautela.
«Vincenzo... vuoi che torniamo indietro? Possiamo dire a on Francesco che—»
«No.» lo interruppe freddamente.
Poi, con voce bassa e ferma:
«Ora devo restare. Ho lasciato un padre... e torno a cercare giustizia.»
Quella notte non chiuse occhio. Ogni scricchiolio, ogni passo nel vicolo lo riportava a quell’immagine che non aveva mai visto ma che sentiva dentro: suo padre in ginocchio, supplicante, lo schiaffo di on Vittorio, la lama che affonda. La mente costruiva l’orrore, il cuore lo scolpiva.
All’alba, prima che il sole sorgesse tra i tetti di Napoli, Vincenzo uscì. Aveva bisogno di respirare, di guardare in faccia la sua città dopo tre anni. I vicoli, però, sembravano più stretti, più bui. La città che ricordava da bambino gli pareva cambiata, eppure era sempre la stessa: viva, rumorosa, indifferente. E crudele.
Mentre camminava tra i banchi del mercato, tra l’odore di pesce, pane caldo e sudore, una voce lo chiamò da lontano:
«Vincè... è davvero tu?»
Si voltò. Carmine.
Vestito di tutto punto, con un cappotto nero che odorava di lusso e scarpe troppo lucide per un ragazzo di quartiere. Aveva un sorriso strano, uno di quelli che nascondono più di quanto mostrino.
«Carmine...» disse Vincenzo, come se pronunciare quel nome lo riportasse a un tempo in cui tutto era più semplice.
«T'ho cercato tante volte, ma tua madre non mi voleva dire nulla. Diceva che stavi lontano, in provincia... ti sei fatto uomo. Come stai?»
«Lo sai come sto. Mio padre non c'è più.»
Carmine annuì con sguardo serio.
«Lo so. È morto da uomo. Onore a lui. Io gli devo molto.»
«E io gli devo la vita. Ora voglio sapere tutto. Voglio nomi, fatti, e voglio capire chi ha deciso che doveva morire.»
Carmine si guardò attorno, poi abbassò la voce:
«Non è roba da dire qui. Vieni da me, ti racconterò tutto. Ma sappi, Vincè, che certe verità non si possono portare addosso senza pagarne il peso.»
Vincenzo lo fissò negli occhi.
«Meglio portare il peso della verità che il veleno dell’omertà.»
Quella sera, tornato a casa, raccontò tutto alla madre. Le disse che sarebbe rimasto. Le disse che voleva scoprire la verità, e che nulla l’avrebbe fermato.
Amalia pianse, cercò di dissuaderlo, ma non ci fu verso.
«Vincenzo, mio figlio, lascia stare... non ti immischiare...»
«Non posso, mamma. Lui ha dato la vita per me. Ora è mio dovere onorarlo.»
Poi, come spinto da un istinto che non sapeva di avere, prese la baiaffa e la ripose sotto il cuscino. Non voleva usarla. Ma sapeva che presto ne avrebbe avuto bisogno.
E così, in quel letto troppo piccolo per contenere il dolore e la rabbia, Vincenzo giurò a se stesso – e a suo padre – che avrebbe fatto luce su quella morte. Anche a costo della propria anima.
Napoli sembrava rifiorire.
Dimenticati i miasmi delle epidemie e i pianti dei vicoli, la città stava vivendo una stagione nuova, fatta di cultura, mondanità e promesse. La galleria Umberto I, con la sua maestosa architettura in vetro e ferro, era ormai il simbolo del progresso, mentre il Salone Margherita, appena sotto, vibrava ogni sera al ritmo sfrenato del Can-can. Le luci dorate, i profumi intensi di cipria e fumo, le gambe guizzanti delle ballerine: tutto sembrava una danza allegra sopra un pavimento fragile. La Belle Époque si era fatta largo anche qui, nel cuore contraddittorio di Napoli.
Ma sotto quella patina luccicante, le ombre restavano in agguato.
Giorgio, ancora scosso dagli ultimi giorni, si recò all’ufficio postale. Le mani tremavano leggermente mentre dettava il telegramma.
Era rivolto al signor Francesco, laggiù nella provincia serena. Voleva informarlo della morte di Gennaro, del dolore che aveva colpito la famiglia, e di quanto fosse diventato pericoloso restare ancora in città.
Prometteva: "Farò il possibile per tornare con Vincenzo. Il prima possibile."
Ma sapeva che quel "possibile" era un concetto sempre più fragile.
Nel frattempo, anche on Vittorio fu informato.
La voce del ritorno di Vincenzo si era sparsa veloce come la corrente tra i vicoli.
Vittorio, padrino incontrastato di una Napoli nascosta, passava le sue giornate al caffè Gambrinus, tra un espresso bollente e le sigarette sottili fumate con eleganza. Lì incontrava avvocati, notai, commercianti e gente di potere, amministrando giustizia a modo suo: stringendo mani, facendo promesse, spegnendo disordini con parole sibilanti e minacce taciute.
Chiese di vedere Vincenzo.
Non per minacciarlo apertamente, no. Solo per consigliarlo, con il tono mellifluo di chi ti sussurra:
«Nun tené paura, guaglió. Basta che te comporti bene… e a Napule nisciuno te tocca. Ma nun fa’ 'o fesso cu’ chi comanda.»
Ma Vincenzo… era un’altra cosa.
Rimase chiuso in casa cinque giorni. Non toccava cibo, parlava a malapena.
Lo sguardo era assente, eppure tagliente come una lama affilata. I pensieri gli scavavano dentro come vermi, e nessuno riusciva a penetrarne il silenzio.
Sua madre, Amalia, lo conosceva troppo bene.
Sapeva che quello non era solo dolore. Era qualcos’altro.
Una sera, mentre lui guardava fisso il vuoto, gli si avvicinò.
«Vincenzo, t’ho cresciuto. Ti prego, vattenne. Lascia sta’ Napule, torna da Francesco. Io, i tuoi fratelli... verremo noi a trovarti. Ma non restare qui. Non voglio perderti.»
Lui la guardò, per la prima volta dopo giorni. E sorrise appena, un sorriso stanco, spento.
«State tranquilla, mamma. Tra due giorni vado via. Farò come volete voi.»
Ma quelle parole non convinsero Amalia.
Troppo calme. Troppo misurate.
Chiese ai figli di parlargli, di convincerlo. Ma anche loro si trovarono davanti un muro. Vincenzo era presente, ma distante. Vivo, ma con l’anima altrove.
Poi, il mattino dopo, la casa era silenziosa.
Vincenzo non c’era.
Aveva lasciato tutto alle spalle senza fare rumore.
Amalia sentì il gelo scenderle nella schiena.
«Lui sta facendo qualcosa… qualcosa di brutto» sussurrò tra le lacrime.
I fratelli corsero a cercarlo ovunque.
Villa Nazionale, i Quartieri Spagnoli, il porto… niente.
Nessuno lo aveva visto. Era sparito nel nulla, come inghiottito dalla città.
Ma Vincenzo sapeva bene dove andare.
Si era diretto alla Basilica di Santa Maria del Carmine.
Aveva bisogno di silenzio. Di Dio. O forse solo di un segno.
Si inginocchiò, da solo, in fondo alla navata. Le mani strette, le labbra immobili.
Pregava o si congedava? Forse entrambe le cose.
Poi uscì.
Aveva con sé la baiaffa, fedele compagna della sua nuova pelle.
Camminava tra la folla con passo sicuro, il cuore calmo.
Niente fretta, niente esitazione.
Il caffè Gambrinus era affollato come sempre.
I camerieri correvano con vassoi lucenti, le risate si confondevano con il tintinnio delle tazzine.
E in un angolo, seduto come un re sul trono, on Vittorio sorseggiava il suo caffè, parlando con un dottore.
Vincenzo lo vide.
Si avvicinò senza una parola.
Tre colpi secchi.
Tre boati che squarciarono il brusio.
On Vittorio si accasciò all’indietro, il petto trafitto.
Lo sguardo sbarrato, incredulo. Nessuno osava muoversi.
Vincenzo restò fermo un attimo, poi abbassò lentamente l’arma.
Guardò il corpo. Poi voltò le spalle e si avviò verso l’uscita, mentre fuori, Napoli continuava a vivere come se nulla fosse.
Tutti a scappare, ci fu il panico totale un omicidio in pubblica piazza, Vincenzo senza perdere tempo si camuffò tra la gente e andò via. On Vittorio perse la vita per mano del giovane Vincenzo che si era vendicato di suo padre ma inconsapevolmente era diventato un criminale. Aveva mentito a tutti, la rabbia lo accecò. Percorse il lungomare Caracciolo e lanciò in acqua la baiaffa liberandosi per sempre. Con un aria soddisfatta si presentò a casa e disse che si era recato dagli amici per salutarli. Ma quell'aria serena insospettì sua madre ed ebbe fin da subito il sospetto che qualcosa di grosso era accaduto. Senza perdere altro tempo Vincenzo salutò i suoi cari e insieme a Giorgio si diresse in provincia alla masseria di Francesco.
Carmine il giorno dopo si recò da Amalia seppe dell'uccisione di on Vittorio < signora Amalia dov'è Vincenzo?> <È partito ieri sera, è ritornato in provincia, cos'è successo!> Carmine aveva le mani in faccia preso dalla disperazione <purtroppo Vincenzo ha ammazzato on Vittorio, per vendicarsi di suo padre ma non si è reso conto che si è cacciato in un grosso guaio> Amalia si sentì male, la notizia ricevuta la turbò enormemente <Carmine, mio figlio sarà ucciso?> <L'unico modo per non farlo uccidere è cambiare le carte in tavola> <ti prego salva la vita di Vincenzo> <ditemi dove si trova, devo andare a prenderlo prima io> Amalia diede le indicazioni dove si trovava la masseria al cui si trovava Vincenzo, chiese il permesso ai suoi superiori e gli fu concesso di andarlo a prendere.
L'arrivo di Carmine in masseria fu una notizia presa in modo positiva da Francesco, pensava che il suo migliore amico era arrivato lì a rincuorare suo genero ma lo scopo del suo arrivo era ben diverso; Vincenzo era stato chiamato a servire il suo quartiere e la sua gente. i due si abbracciarono e si strinsero come due inseparabili amici, fu allestito un banchetto in onore di Carmine quella sera, a tavola c'erano molte cose buone da mangiare. In tarda serata Carmine chiese a tutti che aveva bisogno di parlare con Vincenzo in disparte. <Amico mio sono venuto con uno scopo ben preciso qui, proprio perché tengo a te> <dimmi Carmine credo che sappia perché sei qui, è per l'uccisione di on Vittorio vero?!> <Si proprio per questo, tutti sanno di ciò che hai fatto tranne la polizia, né è a corrente anche l'onorata società <capisco, e cos'hanno detto? Che decisione hanno preso nei miei confronti?> <Per fortuna nulla di preoccupante, grazie a me, per salvarti da una sicura morte ho raccontato che il vostro è stata una zumpata (duello) e non che l'hai ammazzato a freddo tra la gente> <embè qual è la differenza?!> <La differenza è enorme, se sarebbe emersa la verità oggi già saresti morto invece raccontando che è stato una zumpata tu esci da questa faccenda con onore> <Ah meno male, grazie amico mio...> <Non è finita qui! ora dovrai venire a vivere nel tuo quartiere e sostituire on Vittorio, è già stato deciso> <perché dovrei sostituire on Vittorio?> <Perché l'hai ammazzato e ti sei dimostrato più forte.
«Sostituirlo? Cosa vuoi dire?»
«Che ora sei tu il guappo. Perché l’hai sconfitto. Perché la gente già ti guarda come un capo. E perché… io ho garantito per te.»
«Ma… non sono tagliato per questo. Io non voglio essere un guappo!»
«Non puoi tirarti indietro. Se lo fai, paghiamo entrambi. Vincenzo… questo è il tuo destino.»
Il silenzio calò pesante.
Vincenzo si sedette per terra, tra la polvere. Non aveva mai voluto tutto questo. Aveva solo voluto giustizia. E ora era diventato il simbolo di qualcosa che non gli apparteneva.
Eppure non aveva scelta.
Il giorno dopo, raccontò tutto a Francesco e ad Assunta.
Francesco, saggio e severo, non disse una parola per un lungo momento. Poi guardò sua figlia.
«Se questo è il vostro destino, allora prima voglio vedere onorato questo legame. Vi sposerete. E poi… partirete.»
Due giorni dopo, Vincenzo e Assunta si unirono in matrimonio.
Una cerimonia semplice, tra gli ulivi, sotto un cielo limpido. Lei indossava un vestito chiaro, i capelli raccolti, lo sguardo fiero.
Lui teneva la testa alta, ma dentro portava un peso nuovo.
Erano pronti a tornare.
Pronti a ricominciare.
Pronti, volenti o nolenti, a prendere il posto che Napoli aveva riservato per loro.

Tre giorni dopo il matrimonio, Vincenzo e Assunta lasciarono la masseria. Alle loro spalle, si chiudeva un capitolo fatto di pace e semplicità. La terra di campagna, gli ulivi, le albe silenziose: tutto quel mondo che avrebbe potuto offrirgli una vita serena, ora restava solo un ricordo.
Davanti a loro, invece, c’era Napoli.
Una città meravigliosa e inquieta, che profumava di speranza ma sapeva ancora troppo di miseria. I vicoli umidi, l’odore di fritto e di fogna, le urla dei bambini scalzi, le madri affacciate ai balconi. Napoli era una ferita viva. E Vincenzo, adesso, ne era diventato il nuovo figlio prediletto.
Appena la carrozza si fermò davanti al portone del quartiere, una folla si radunò attorno.
Uomini, donne, vecchi e ragazzi: tutti erano lì. Lo attendevano come si aspetta un re, come si accoglie una promessa.
«Eccolo! On Vincenzo!», gridò qualcuno.
La voce si sparse come fuoco. Gli applausi riempirono l’aria.
Quando scesero dalla carrozza, un uomo distinto si avvicinò a passo svelto.
«On Vincenzo, vi prego… seguitemi», disse con deferenza.
Li guidò attraverso i vicoli fino a un basso, un’abitazione al piano terra, modesta ma dignitosa.
«Questa è per voi. Un dono del signor Alfonso, il commerciante di stoffa a Taverna Penta. Vi manda i suoi omaggi.»
Vincenzo rimase immobile un attimo, sorpreso da tanta generosità. Poi prese le chiavi, aprì la porta ed entrò. L’abitazione, sebbene piccola, era ben tenuta. Mobili semplici ma puliti, un letto comodo, un tavolo di legno e una madonnina sull’angolo, con una candela ancora accesa. Era evidente: lì dentro c’era rispetto.
Alle sue spalle, Carmine sorrise con orgoglio.
«Tanti auguri, amico mio. Che il Signore ti accompagni. So che farai tanto per questa gente e rispetterai l’onorata società.»
«Sì… certo. Farò del mio meglio», rispose Vincenzo, quasi sottovoce.
Due inservienti arrivarono con i bauli. Quella sera, tra le pareti nuove di quella casa sconosciuta, Vincenzo e Assunta si sdraiarono uno accanto all’altra, in silenzio. Il sonno tardava ad arrivare.
Erano tesi, preoccupati, confusi. Ma uniti. E questo bastava.
La mattina seguente si svegliarono che il sole era già alto. Erano quasi le undici.
Un silenzio surreale avvolgeva il quartiere.
Nessuna voce, nessun grido, nessun venditore.
Solo un’attesa sospesa.
Quando Assunta aprì la finestra, un uomo appostato fuori gridò a gran voce:
«Ora potete parlare! Potete urlare! On Vincenzo si è svegliato!»
Dalla strada partì un boato di allegria. Le persone tornarono a parlare, a ridere, a vivere.
Vincenzo si affacciò, incredulo.
Gli passanti si toglievano il cappello al suo passaggio, lo salutavano con reverenza.
Era chiaro: per loro, non era più solo un uomo. Era diventato un simbolo.
Pochi minuti dopo bussarono alla porta.
Un uomo gli consegnò un baule.
«Un dono del popolo», disse, «un vero guappo deve essere impeccabile.»
All’interno, completi eleganti, scarpe lucide, camicie stirate.
Vincenzo si commosse.
Andò verso l’angolo della stanza, accese una candela e sussurrò una preghiera alla Madonna.
«Aiutami tu… dammi la forza per fare il bene. Per non perdermi.»
Ma non c’era tempo per perdersi nei sentimenti.
Il giorno seguente, ricevette una convocazione: doveva presentarsi al Cimitero delle Fontanelle.
Quel luogo sacro e oscuro era il rifugio dell’onorata società. Tra le ossa dei morti e il silenzio eterno, si parlavano verità che non dovevano mai uscire.
Vigeva una sola legge: chi parlava lì, viveva. Chi riportava fuori, moriva.
Vincenzo si presentò puntuale, da solo. Il passo deciso, ma lo sguardo attento.
On Enrico, il capintesta, lo attendeva con il suo solito portamento solenne, il bastone in mano e il cappello leggermente inclinato.
Vincenzo gli si avvicinò e gli baciò la mano, come si fa con i patriarchi.
«Ditemi pure, on Enrico.»
L’uomo lo osservò con occhi saggi.
«So che sei sveglio. Istruito. Ho fiducia in te.»
«Vi ringrazio. Qualche anno fa ho imparato a leggere e scrivere… userò questo dono al servizio della mia gente.»
On Enrico annuì, compiaciuto.
«Bravo. Aiuta i deboli, ma non essere debole. Ti concederemo di guadagnare dai cocchieri e dai commercianti del quartiere. Ma ricordati una cosa: noi siamo la mamma di questa città. E chi disubbidisce a sua madre… finisce male. Mi sono spiegato?»
«Siete stato chiarissimo. Non vi deluderò.»
On Enrico gli mise una mano sulla spalla.
«Ti osservo da tempo. E chissà… un giorno potresti anche entrare tra noi. Ma ora dimostra di essere all’altezza.»
Vincenzo uscì da quel cimitero con un peso nuovo, ma anche con una luce negli occhi.
Sapeva che il destino gli aveva assegnato un ruolo difficile.
Sapeva che la strada davanti a sé era piena di scelte complicate, inganni, dolori.
Ma sapeva anche una cosa: avrebbe fatto di tutto per cambiare la vita della sua gente.
E non avrebbe mai dimenticato chi era.
Un figlio di Napoli. Un figlio della miseria. Ma anche un uomo che voleva dare dignità a chi non ne aveva più.

La notizia che Vincenzo fosse divenuto il nuovo guappo del quartiere si era ormai sparsa in tutta Napoli, e sua madre, donna Amalia, ne fu profondamente felice.
Ogni giorno, seduta sulla sedia in vimini all’ingresso del basso, sorrideva ai vicini che passavano e sussurravano parole d’ammirazione:
«Quel figlio vostro, donna Amalia, è diventato un uomo di rispetto…»
Quasi cinquantenne, con il peso degli anni e delle fatiche di una vita spesa tra figli, preghiere e dolori, sentiva finalmente che uno dei suoi figli aveva trovato il proprio posto nel mondo.
«Posso morire serena», diceva spesso tra sé e sé, accarezzando il rosario tra le dita, «Vincenzo ha dato un senso alla nostra miseria.»
Ma non tutti erano dello stesso avviso.
Il delegato di pubblica sicurezza Scognamiglio, uomo severo e con il portamento rigido di chi crede fermamente nello Stato unitario, non poteva tollerare che un altro giovane guappo avesse preso piede nel cuore di Napoli.
Non perse tempo.
Una mattina d’agosto, mentre il sole si rifletteva sulle vetrate della Galleria Umberto, lo attese appoggiato a una colonna, con il cappello calato sugli occhi e lo sguardo vigile.
Vincenzo lo vide da lontano.
Capì subito che quell’incontro non sarebbe stato una semplice chiacchierata.
Si avvicinò con passo deciso, elegante come sempre, e il bastone d’argento che batteva ritmicamente sul pavimento.
«Buongiorno,» esordì Scognamiglio con tono freddo, «mi hanno riferito che voi siete il nuovo guappo del quartiere. Così giovane…»
«Buongiorno a voi,» rispose Vincenzo con un mezzo sorriso, «questo è quello che dice la gente. Evidentemente mi vuole bene.»
Il delegato strinse gli occhi, studiandolo come si fa con un avversario mascherato.
«Può darsi… ma ricordatevi una cosa: la gente dimentica in fretta le buone azioni. Oggi vi acclama, domani vi volta le spalle.»
Vincenzo restò impassibile.
«E ricordate anche un’altra cosa,» proseguì Scognamiglio avvicinandosi, «esiste una legge. Quella dello Stato italiano. Una legge che dovete rispettare.»
Il volto del giovane si indurì.
«Io questo Stato italiano che dite voi… non lo riconosco. Per me esiste Napoli. E il suo vero regno. Quello che ci avete strappato.
Per cui, con tutto il rispetto, io non riconosco nemmeno la vostra autorità.»
Il delegato rimase in silenzio un istante. Poi, con voce bassa e decisa:
«Mettetevelo in testa: il Regno d’Italia esiste. E io sono qui per mettere in galera tutti quelli che si credono sopra la legge.»
I loro sguardi si incrociarono, tesi come due lame che si sfiorano senza ancora colpire.
Non servivano altre parole. Ognuno sapeva chi aveva davanti.
Vincenzo si allontanò per primo, con passo lento ma fermo.
Aveva capito che quell’uomo non avrebbe mollato facilmente.
Scognamiglio gli stava addosso come un’ombra, e ogni passo falso sarebbe stato fatale.
Nonostante la tensione, Vincenzo si adattò rapidamente alla sua nuova vita.
Anzi, sembrava nato per quel ruolo.
Aveva il carisma naturale dei leader, ma soprattutto un cuore che batteva per la sua gente.
Si recava ogni giorno tra i vicoli, parlava con i venditori, ascoltava le donne affacciate ai balconi, sorrideva ai bambini che lo osservavano con occhi pieni di ammirazione.
Era presente. Sempre.
Non amministrava il potere con la paura, ma con la dedizione.
Quasi tutti i guadagni che gli venivano concessi – dal controllo delle carrozze, dai tributi dei commercianti, dalle offerte “spontanee” – li reinvestiva nel quartiere.
Pagava cure, comprava medicinali, distribuiva pane e coperte, faceva riparare i vicoli più disastrati.
Per sé teneva solo il necessario.
Un buon abito, un letto dignitoso, e l’amore di sua moglie Assunta.
Nulla di più.
Non chiedeva in cambio che rispetto e ordine.
E in cambio, riceveva amore.
Un amore sincero, viscerale, di quelli che solo Napoli sa dare a chi la protegge.
Ma dentro di lui, qualcosa si muoveva.
Sapeva bene che quella vita non sarebbe stata facile.
Ogni scelta, ogni gesto, ogni parola… poteva cambiare il destino suo e di chi gli stava accanto.
E in fondo, lo sentiva: il momento delle grandi decisioni non era ancora arrivato.
Quella quiete apparente… era solo l’inizio della tempesta
Vincenzo amava confondersi tra la sua gente.
Non passava giorno senza che lo si vedesse camminare a passo lento tra i vicoli stretti, con lo sguardo attento e vigile, come un padre che controlla i figli.
Ogni angolo, ogni porta socchiusa, ogni sguardo fugace dalla finestra… nulla sfuggiva ai suoi occhi scuri.
Quando qualcosa non andava, interveniva subito.
Non con urla, ma con la calma e la fermezza di chi sa farsi ascoltare.
Tra tutti, uno dei suoi “sorvegliati speciali” era il signor Gaetano, il maccaronaro del vicolo, un omone dalla faccia burbera e dalle mani sempre sporche di farina.
«Gaetà…» diceva Vincenzo con tono fermo ma non ostile, «dalli più abbondanti ’sti maccaroni ai figli del quartiere. Devono saziarsi, non assaggiarli.»
Gaetano, ogni volta, abbassava lo sguardo, borbottando:
«Eh, on Vincènzo… ma così il guadagno se ne va… non mi resta quasi niente a fine giornata.»
Vincenzo sorrideva appena, come uno che aveva già la risposta pronta.
Si avvicinava, gli metteva una mano pesante ma rassicurante sulla spalla e parlava piano, affinché solo lui sentisse:
«E allora non mi dai più la percentuale, Gaetà. Così il guadagno te lo tieni tutto. Io non voglio vedere bambini con la pancia vuota. Il rispetto si guadagna pure così.»
Il maccaronaro restava in silenzio, ma nei suoi occhi passava una scintilla di gratitudine mista a riverenza.
Vincenzo lo aveva sollevato da un peso e, allo stesso tempo, gli aveva ricordato chi comandava nel quartiere… e come si comandava: con giustizia e generosità, non con la sola paura.
E così, tra una pentola fumante e l’altra, nel vicolo riprese a diffondersi l’odore intenso del sugo e la risata dei bambini sazi.

Vincenzo, nel vedere quei ragazzi con le mani unte e gli occhi brillanti di gratitudine, sentiva il cuore riempirsi di un calore raro. Per lui, il vero potere non stava nelle minacce o nella paura, ma nel poter saziare un affamato, nel restituire dignità a chi l’aveva persa.
Fu in quei giorni che, in tutta Napoli, correva voce della trovata del pizzaiolo Raffaele Esposito: una pizza dedicata alla regina Margherita, con i tre colori della bandiera italiana — verde, bianco e rosso. Un gesto che il popolo commentava con un misto di curiosità e orgoglio patriottico. Ma non Vincenzo.
Quella notizia, anziché compiacerlo, gli accese dentro una fiamma di rabbia. Così, in una piazza gremita, con il brusio della folla che si spense appena lui si fece avanti, alzò la voce come un tuono:
— Invece di intitolare una pizza a un’invasora che non conosce la fame, fate del bene! Regalate ‘ste pizze a chi muore di stenti! La cosiddetta regina se ne sta al fresco del Real Bosco di Capodimonte, tra banchetti e servitori, mentre qui la gente dorme nei tuguri, senza luce, senza acqua, senza speranza! —
Il silenzio calò sulla piazza come una coltre pesante. Nessuno osò rispondere. Le parole di Vincenzo erano come pietre scagliate contro i palazzi del potere, eppure non avevano l’odore della ribellione cieca: avevano quello della verità.
Molti lo guardarono con occhi nuovi. Quel giovane guappo, venuto dalla plebe, non cercava di arricchirsi sulle spalle degli altri, ma di difenderli. Era un’eccezione in un mondo dove i guappi spesso cercavano solo il proprio tornaconto. Da quel giorno, la sua immagine si tinse di un’aura quasi leggendaria: Vincenzo non era soltanto il guappo del quartiere, era la voce della gente che nessuno ascoltava.

Un pomeriggio denso di vento salmastro e odore di reti bagnate, Vincenzo stava attraversando il vicolo quando vide avanzare, con il volto rigato di lacrime, la signora Patrizia. Il suo passo incerto tradiva un dolore profondo.
— On Vincenzo… mi permette di dirvi una cosa? — chiese, con la voce rotta.
Vincenzo si fermò immediatamente, le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo fermo ma accogliente.
— Signora Patrizia, ditemi. Sono qui ad ascoltarvi.
La donna prese fiato, quasi a voler ingoiare il nodo che la soffocava.
— Mia figlia Giovanna… è stata disonorata da Nicola, il figlio di Mario il pescatore. E lui… lui non vuole sposarla.
Il volto di Vincenzo si fece cupo. In quegli occhi neri si accese una scintilla che chi lo conosceva bene temeva: non era rabbia impulsiva, ma la determinazione fredda di chi ha già deciso cosa fare.
— State tranquilla, ci penso io. Statemi bene.
Fece un cenno al suo cocchiere di fiducia, un uomo alto e silenzioso che non chiedeva mai spiegazioni. Pochi minuti dopo, la carrozza si mosse veloce verso Mergellina. Lì, tra il frastuono dei gabbiani e lo sciabordio dell’acqua contro le barche, decine di pescatori riparavano le reti o scaricavano cassette di pesce, immersi nel lavoro duro e senza sosta.
Vincenzo scese dalla carrozza con passo lento ma deciso. Il suo bastone di legno scuro ticchettava sul selciato, attirando l’attenzione di chi lo vedeva arrivare. Gli uomini smettevano di parlare, i più giovani abbassavano lo sguardo.
Sapevano tutti che quando on Vincenzo veniva di persona, non era mai per una passeggiata sul mare.
Mergellina odorava di mare e di fatica. Vincenzo si avvicinò lentamente ai pescatori, che al suo apparire lasciarono le reti a mezz’aria. Qualcuno si tolse il berretto, altri abbassarono lo sguardo in segno di rispetto.
Si girò verso Mario, un uomo alto e ossuto, con le mani segnate dal sale.
— Buongiorno, Mario. Devo parlare con vostro figlio per una questione privata.
— Sì, certo… vado subito a chiamarlo — rispose, asciugandosi le mani sul grembiule di tela cerata.
Pochi minuti dopo tornò con Nicola, un ragazzo dal volto tirato, gli occhi bassi e la postura di chi sapeva di non poter sfuggire al giudizio.
Vincenzo non perse tempo.
— Caro Nicola, so che hai disonorato Giovanna, la figlia della signora Patrizia, e ora ti rifiuti di sposarla… è vero?!
Prima ancora che il ragazzo potesse replicare, un sonoro schiaffo risuonò tra le barche e i secchi.
Nicola barcollò, portandosi una mano al volto.
— Io… io la vorrei sposare, ma non ho soldi, né una casa. Mio padre ha quattordici figli da sfamare e non ha abbastanza per tutti…
Vincenzo lo fissò dritto negli occhi.
— Ci penso io. Ti organizzerò il matrimonio al miglior ristorante di Posillipo e avrete la vostra casetta. Ma ricordati, a tua moglie la dovrai onorare. E dovrai lavorare, sudare e mantenere la tua famiglia. Ora vattene da Giovanna, che ti aspetta a casa sua!
Mario, che aveva assistito alla scena in silenzio, annuì con un misto di rispetto e gratitudine.
— On Vincenzo… grazie — mormorò, tornando al lavoro tra le reti.
Gli anni passarono, e Napoli cambiava pelle: fermento culturale, piccoli progressi sociali, ma sempre la stessa miseria che si infilava nei vicoli come il vento gelido d’inverno.
Una mattina piovosa, i colpi alla porta svegliarono Vincenzo. Aprì, trovandosi davanti Antonio, il giovane figlio di Filomena. Gli occhi rossi, le mani tremanti.
— On Vincenzo… mamma… mamma ha accettato la surrogazione militare da una famiglia ricca, per soldi.
Vincenzo conosceva bene quella pratica: i benestanti pagavano un poveraccio per mandarlo a fare il servizio militare al posto dei loro figli. Una legge, sì, ma scritta per proteggere chi poteva permetterselo.
— Chi sono quelli che hanno fatto la proposta?
— On Alfonso, il titolare del banco dei pegni al Borgo Santa Lucia.
Il volto di Vincenzo si irrigidì. Senza una parola, prese il cappotto e fece cenno ad Antonio di seguirlo.
Il banco dei pegni era una tana di dolore: gente che entrava con oggetti cari e ne usciva più povera di quando era entrata.
Dentro, Alfonso stava discutendo con una donna che per poche lire lasciava in pegno un anello d’oro.
— Siete voi, Alfonso?!
— Sono proprio io… in che posso aiutarvi?
— Oltre a succhiare il sangue alla povera gente, volete pure pagare la madre di questo ragazzo per fare il militare al posto di vostro figlio. Non vi vergognate?!
Alfonso alzò un sopracciglio.
— Andate piano con queste accuse. Qui comando io. Il mondo funziona così, rassegnatevi. E poi è stata sua madre a venire da me.
— E allora vi ordino di rifiutare.
— Altrimenti?
La risposta fu il suono secco del rasoio che scattava. Alfonso, senza esitare, afferrò un coltello. In un attimo, il banco dei pegni diventò un’arena. Colpi rapidi, il fiato corto, il tintinnio del metallo. Vincenzo ebbe la meglio, sfregiandogli il volto con un colpo netto.
— Andiamo, stanno arrivando gli sbirri! — sussurrò Antonio.
Sgusciarono fuori dal retro appena in tempo. Poco dopo, il delegato Scognamiglio entrò, trovando Alfonso sanguinante.
— So bene chi è stato. Datemi il suo nome e lo sbatto in galera. Vi libererete di lui.
Alfonso si alzò lentamente, lo sguardo di chi sapeva vivere in certi codici.
— Io non collaboro con gli sbirri. Mi sono graffiato da solo.
Scognamiglio strinse la mascella, sapendo di aver sbattuto contro il muro dell’omertà.

Porta Capuana, con il suo brulicare di voci, carretti carichi di botti e l’odore pungente del mosto, era uno dei punti nevralgici di Napoli. Vincenzo ci andava spesso, muovendosi tra produttori di vino e venditori del suo quartiere, assicurandosi che ognuno rispettasse gli accordi.
Quel giorno, tra il via vai di facchini e il rumore dei ferri dei cavalli sul selciato, scorse una figura familiare: Carmine. Un tempo compagno di strada, ora salito di grado nell’onorata società.
Si avvicinarono, e il saluto fu breve, ma carico di significato.
— Vincenzo, mi hanno riferito che hai sfregiato Alfonso, il proprietario del banco dei pegni a Santa Lucia. È vero?
— Sì, è vero. È un uomo senza onore.
— E potrei sapere il motivo?
— Voleva pagare una povera mamma affinché suo figlio facesse il servizio militare al posto suo. Lo sai che gli italiani possono tenerti sotto le armi fino a sedici anni? Chi approfitta della povera gente dovrà vedersela con me!
Carmine lo fissò a lungo, come se volesse penetrare quel muro di convinzioni che Vincenzo portava cucito addosso.
— Vincenzo… tu lo sai che on Alfonso è persona nostra? E con lui abbiamo rapporti commerciali ben definiti. Per questo ti invito a fare un passo indietro.
— Io farò il passo indietro solo se lui lascerà in pace quella famiglia.
Un silenzio breve, ma teso, calò tra loro. Carmine capì che quel guappo non era fatto per piegarsi a logiche di convenienza: il suo codice d’onore era personale, inciso a fuoco nella sua anima.
— È una faccenda che risolveremo noi. L’importante è che tu ne stia fuori.
Si strinsero la mano. Nonostante appartenessero a mondi diversi, la loro amicizia era un ponte solido, capace di reggere anche le tempeste.
Napoli intanto soffocava sotto il peso delle disuguaglianze. Nei vicoli, la fame si nascondeva dietro gli occhi dei bambini, e le strade puzzavano di rabbia e rassegnazione. Vincenzo cercava di essere il balsamo per le ferite del suo quartiere, ma a volte le richieste erano troppe anche per lui.
Quando la mente si faceva pesante, scriveva a suo suocero Francesco. Le lettere partivano regolari, piene di notizie e domande: se la masseria fosse in buono stato, se i raccolti avevano dato frutto, se tutti stessero bene.
Quel legame, nato tra due mondi diversi, resisteva al tempo e alla distanza. Ma Vincenzo sapeva che non avrebbe mai potuto abbandonare la sua vita da guappo: era ormai parte di lui, come il sangue nelle vene o l’aria nei polmoni.
La voce di Vincenzo correva veloce nei vicoli di Napoli come il vento che portava l’odore del mare.
La gente lo acclamava, e ogni volta che il suo passo risuonava sui basoli, si aprivano porte e finestre per salutarlo.
Era il riferimento, il porto sicuro a cui rivolgersi in caso di ingiustizie, malanni o disgrazie.
Non guardava mai il denaro quando c’era da aiutare qualcuno: sottraeva ai forti e ai furbi per dare ai deboli, e in questo modo colmava almeno in parte le voragini lasciate dall’indifferenza dello Stato, che non sapeva – o non voleva – occuparsi dei più poveri.
Quando una persona del quartiere cadeva malata, Vincenzo non mandava un garzone: ci andava lui, in persona, portando le medicine e una parola di conforto.
Aveva il dono della parola, e la sua dialettica riusciva a sedare risse e rancori tra vicini. Ma quando era necessario, non esitava a mostrare i denti: per lui, codice d’onore, morale e rispetto erano leggi sacre, scolpite come marmi in una chiesa.
Fu in una sera umida del 1899 che accadde qualcosa di diverso dal solito.
In un vicolo poco illuminato, le grida di un giovane lustrascarpe interruppero la quiete.
— On Vincenzo! Aiutatemi! — gridò Emilio, la voce tremante.
Davanti a lui, un giovanotto arrogante lo strattonava, rovesciandogli la cassetta di lucido e spazzole.
Vincenzo si avvicinò con passo lento, ma negli occhi aveva già la tempesta.
— E tu chi saresti, per fare il prepotente con un lavoratore onesto?
Il ragazzo esitò, poi gonfiò il petto:
— Io sono un picciotto, e godo della protezione dell’onorata società.
Quelle parole bloccarono Vincenzo per un attimo. Un guappo come lui non poteva ignorare un’affiliazione simile: c’erano equilibri, regole non scritte, rapporti di forza da rispettare.
Non potendo fargli giustizia lì sul momento, prese una decisione: avrebbe parlato con Carmine, per esporre il suo disagio e chiarire quella situazione.
Si voltò verso Emilio, rialzandogli la cassetta e porgendogliela.
— Non ti preoccupare, questa storia non resta così.
Poi, senza aggiungere altro, s’incamminò verso il luogo dove sapeva di poter trovare Carmine.
L’aria di Napoli, in quell’estate rovente, aveva un sapore doppio: quello del mare, che arrivava fino ai vicoli con il suo respiro salmastro, e quello acre del fumo che usciva dai caffè e dalle bocche dei passanti. Le carrozze sbuffavano, le voci si intrecciavano, e sotto il brusio della città scorreva un fiume invisibile di parole non dette e accordi sottobanco.
Vincenzo avanzava a passo lento, mani dietro la schiena, lo sguardo vigile. Ogni volto che incrociava era un mosaico di storie, di paure, di alleanze. Giunto al piccolo caffè vicino al porto, entrò senza fretta. Dentro, nell’angolo più appartato, sedeva Carmine, impeccabile nel suo completo chiaro, ma con lo sguardo di chi aveva già pesato ogni parola prima ancora di dirla.
«Vincenzo, amico mio… perché hai voluto vedermi?» domandò Carmine, inspirando profondamente il fumo della sua sigaretta.
«Amico mio, sai bene che mi fa sempre piacere vederti» rispose Vincenzo, sedendosi. «E anche se le nostre strade si sono divise, resterai per me un carissimo amico. E io sarò sempre tuo debitore.»
«Debitore?» Carmine accennò un sorriso amaro.
«Ti ho salvato la vita perché ci tenevo. Senza chiederti nulla in cambio.»
Carmine annuì piano, poi abbassò la voce. «C’è un giovanotto… Pasquale. Emilio, il lustrascarpe della Galleria Umberto, mi ha chiesto di intervenire. Sai che Emilio è uomo mio. Ma ho saputo che Pasquale… è persona vostra. Come la mettiamo?»
«Parlerò con gli uomini d’onore» disse Vincenzo, fissandolo negli occhi. «La cosa si sistemerà senza che ci scappi il morto.»
«Spero di sì» rispose Carmine, ma il suo sguardo diceva tutt’altro.
Si alzarono senza stringersi la mano. Quel silenzio tra loro pesava più di mille saluti.
Pochi giorni dopo, il sole batteva forte sulle pietre della Galleria Umberto. Emilio, piegato sul suo sgabello, passava la spazzola con gesti esperti. A pochi metri, appoggiato al muro come un’ombra, Vincenzo osservava.
All’improvviso comparve Pasquale. Teneva il cappello di traverso, la giacca slacciata, e negli occhi quel misto di arroganza e noia tipico di chi sa di avere protezioni.
Si fece lustrare le scarpe, e intanto lasciava cadere insulti su Emilio come gocce di veleno. Quando il lavoro fu finito, si alzò e se ne andò senza pagare.
Dopo pochi passi, davanti a lui si materializzò Vincenzo.
«Giovanotto, a te nessuno ha insegnato il rispetto?»
Pasquale lo squadrò con un ghigno. «Non vi permetto di rivolgervi così a me.»
«Io mi permetto eccome. Quell’uomo ha lavorato, e deve essere pagato.»
«Decido io chi pagare. Ha lavorato male.»
«Ti sbagli. Lavora bene… e tu lo paghi.»
«Io non lo pago!»
Il suono dello schiaffo risuonò come uno sparo. Pasquale indietreggiò, il volto arrossato, gli occhi colmi di rabbia trattenuta.
«Tu… me la pagherai» mormorò, andandosene senza voltarsi.
La voce viaggiò veloce nei vicoli e nei salotti. L’onorata società non gradì. Convocarono Carmine.
«Avverti per l’ultima volta Vincenzo. Niente più colpi di testa. Non deve attirare l’attenzione.»
Carmine chinò il capo. «Risolverò io.» Ma dentro sapeva che il problema non era lo schiaffo: era il nome di Vincenzo, che ormai correva di bocca in bocca, rischiarando zone d’ombra che dovevano restare tali. Troppi riflettori su un solo uomo. E quando succede, ci sono solo due strade: farlo piegare… o farlo sparire.
Il 29 luglio 1900, la notizia arrivò come una scossa: a Monza, il re Umberto I era stato assassinato.
La mattina dopo, Giuseppe, fedele seguace di Vincenzo, arrivò con il solito giornale.
«Hanno assassinato il re d’Italia!»
«Madonna mia… e chi è stato?»
«Un anarchico.»
Vincenzo aggrottò la fronte. «E che sarebbe, un anarchico?»
«Non lo so… ma lo scoprirò.»
Poche ore dopo, Vincenzo era davanti a Carmine.
«Bresci» disse quest’ultimo, «così si chiama l’uomo che ha ucciso il re. Dice che Umberto era responsabile delle vittime pallide e sanguinanti del sistema che rappresentava. Gli stati d’assedio, le repressioni… troppi morti per mano dello Stato.»
«Capisco… e ora?»
«Ora sale al trono suo figlio, Vittorio Emanuele III. Ma la musica non cambierà. Il malcontento c’è e ci sarà sempre. Qui ci siamo noi a tenere a bada la gente. Altrove… nessuno.»
Vincenzo restò in silenzio, lo sguardo perso fuori dalla finestra. Il vento del cambiamento soffiava, ma portava con sé l’odore acre del sangue.

L’aria di Napoli, quella sera, sapeva di pioggia e di fumo di legna. Le luci giallastre dei lampioni gettavano ombre lunghe sui vicoli umidi, e Vincenzo ascoltava in silenzio.
La voce del suo amico, bassa e grave, si infilava come un coltello nelle pieghe della sua coscienza.
«Vincenzo, ascolta… ti prego, abbassa la guardia. L’onorata società ti ha concesso un’ultima possibilità. Non andare in conflitto con loro.»
Lui strinse i pugni, lo sguardo fisso nel vuoto.
«Sai bene che io non riesco a ignorare le ingiustizie. È più forte di me!»
«Ma questa volta… devi essere più moderato. Da solo non puoi cambiare questa città. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Pagherai con la vita.»
Le parole rimasero sospese nell’aria, pesanti come pietre. Vincenzo provò una fitta di rabbia e di sgomento, un miscuglio amaro che gli serrò la gola.
A casa, anche Assunta lo attendeva con la stessa preoccupazione negli occhi.
«Spendi tutti i soldi che guadagniamo per la povera gente. Ti fa onore, sì… ma ricordati che ci siamo anche noi. Un giorno avremo dei figli, e dobbiamo pensare al loro futuro.»
«Lo so. Ma credimi… quegli sguardi stanchi e rassegnati… li porto impressi nella mente. Ti prometto che sarò più attento. Penserò anche a noi.»
Lei sospirò, piegando il capo.
«Amore mio, la gente è con te perché riceve qualcosa. Ma se un giorno non potrai più dare ciò a cui sono abituati… ti gireranno le spalle, uno a uno.»
«Lo so. Ma ricordati: un guappo deve dare senza chiedere nulla in cambio.»
«Sei un grande uomo, Vincenzo… ma non dimenticare: hai ricevuto l’ultimo avvertimento dall’onorata società. Tu sei solo. Loro sono un’organizzazione. Sappilo.»
Quelle parole, più ancora di quelle dell’amico, gli rimasero dentro. Per qualche giorno si impose di non cercare guai: meno tempo in strada, meno contatti con la gente, meno possibilità di finire in qualche situazione pericolosa.
Fu allora che decisero di partire per la masseria di Francesco, il suocero.
Il vecchio li accolse con un sorriso stanco, seduto sulla panca di pietra davanti alla casa.
«Ormai sono anziano. Il mio desiderio sarebbe lasciare che voi dirigeste la masseria. Qui vivreste in pace, lontani dal disordine.»
Vincenzo si irrigidì.
«Don Francesco, mi chiedete troppo. Napoli è la mia città. Quella è la mia gente. Se andassi via… che fine farebbero? Il mio sostituto sarebbe così scrupoloso? E poi… la cosa più grave: perderei il mio onore.»
Il suocero lo fissò con uno sguardo lungo.
«Potremmo inventare una malattia. Pensaci! A Napoli le cose stanno cambiando: il filo tra l’onorata società e i politici si sta spezzando. Quando si spezzerà del tutto… sarà la fine. E tu potresti essere coinvolto.»
«A me non interessa la politica né i loro affari. Io penso solo a chi ha bisogno.»
Non riuscirono a convincerlo. Così, Assunta tornò con lui a Napoli. Era sua moglie: avrebbe condiviso fino in fondo il suo destino.
Un pomeriggio, camminando per Spaccanapoli, incontrò Carmine, fresco di nomina a capintrito.
«Complimenti, Carmine!» disse Vincenzo stringendogli la mano. Poi, abbassando la voce: «La situazione dell’onorata società… è stabile?»
Carmine lo guardò di traverso, un mezzo sorriso incerto.
«Sì, certo. È tutto in ordine. Perché mi fai questa domanda?»
Le campane, in lontananza, suonavano l’Ave Maria. Ma Vincenzo sapeva che quelle note non annunciavano soltanto la sera: erano il rintocco lento di un presagio che non riusciva a scacciare dal cuore.
«Perché mi era giunto all’orecchio,» disse Vincenzo, con lo sguardo fisso negli occhi di Carmine, «che ci sono collegamenti con la politica.»
Carmine si irrigidì. Il suo sorriso si spense, lasciando il posto a un’ombra di fastidio.
«Vincenzo, sai bene che non posso darti informazioni del genere… e ti invito a non ficcare il naso.»
Vincenzo abbassò lo sguardo, fingendo leggerezza.
«Hai ragione. Scusami. Era una semplice curiosità. Sai… mio suocero mi ha chiesto di trasferirmi alla sua masseria. Ho rifiutato. Voglio stare tra la mia gente, nella mia città.»
Carmine gli diede una pacca sulla spalla, quasi paterna.
«Bravo, Vincenzo. Ti ammiro tantissimo. Sei un vero uomo d’onore.»
Il 6 giugno 1906 l’aria di Torre del Greco sapeva di mare e sangue.
Sulla spiaggia, tra i flutti pigri e l’odore acre delle alghe, fu trovato il corpo senza vita di Gennaro Cuocolo.
Il volto, ormai irriconoscibile, era piegato di lato come in un ultimo sguardo verso l’orizzonte. Il petto, invece, raccontava una storia di rabbia e vendetta: pugnalate, una dietro l’altra, inflitte con la precisione di chi sa bene dove colpire.
Cuocolo non era un uomo qualunque: basista dell’onorata società, esperto di furti, conosceva troppi segreti.
Nello stesso giorno, ai Quartieri Spagnoli, un altro ritrovamento: il corpo della moglie, Maria Cutinelli. La sua fine era stata meno cruenta, ma non meno spietata.
La questura si mosse per prima, con un’indagine rapida e confusa. Ci furono arresti, interrogatori, facce gonfie di paura o di menzogne… ma dopo pochi giorni, tutti gli arrestati furono rilasciati.
Le voci di incompetenza – o di complicità – iniziarono a correre nei vicoli.
Poi intervennero i carabinieri. La loro presenza in città era come un vento freddo: portava pulizia, sì, ma anche inquietudine. Accusarono la polizia di negligenza, qualcuno parlò persino di accordi sottobanco. Nacque una frattura insanabile: le due forze avrebbero agito separatamente, ciascuna convinta di poter risolvere il mistero.
Napoli, in quegli anni, viveva un sogno di rinascita. Il Risorgimento economico prometteva strade nuove, commerci fiorenti, una città che potesse rivaleggiare con le grandi capitali. Ma quel sogno, lo sapevano tutti, era macchiato dall’ombra dei criminali.
Ai carabinieri fu concessa carta bianca. Una decina di uomini in borghese, camuffati da avventori, musicisti, perfino giocatori d’azzardo, iniziarono a infilarsi nei locali malfamati. Con bicchieri di vino annacquato e sigarette sempre accese, ascoltavano conversazioni, coglievano sguardi, appuntavano nomi.
Le prove crescevano, fitte come reti da pesca. E quando la rete fu pronta, la notte tra il 2 e il 3 febbraio 1907 si chiuse su San Giovanni a Teduccio.
Venti arresti in un colpo solo. Il giorno dopo, Il Mattino titolava a caratteri neri: “Colpo all’onorata società – Il Regno si riprende Napoli”.
Il giudice istruttore e il procuratore del Re non persero tempo: ai carabinieri furono concessi pieni poteri. Nessun permesso, nessuna attesa: potevano agire dove e quando volevano.
Le indagini diventarono una tempesta. Grazie alle rivelazioni di un pentito – un certo Abbatemaggio, lingua biforcuta e sorriso di chi sa di essersi appena salvato la pelle – la rete si allargò fino a strangolare quasi quattrocento uomini, tutti accusati di affiliazione all’onorata società.
Vincenzo osservava la città in fermento. Ogni giorno, tra il frastuono dei carretti e il vociare dei mercanti, si vedevano pattuglie in borghese entrare nei bassi, interrogare uomini che conosceva da sempre, portare via volti noti senza una parola.
Qualcosa, nel ventre di Napoli, stava cambiando.
E lui sapeva che quando le fondamenta di un regno criminale tremano… anche chi non ha nulla da nascondere può finire sotto le macerie.

La notizia corse veloce come un tuono d’estate.
Vincenzo la apprese in una bettola, tra il tintinnio dei bicchieri e il brusio interrotto da sguardi sospettosi: decine di uomini d’onore arrestati, accusati di una lunga lista di reati, compreso l’omicidio Cuocolo.
Con il cuore in gola si diresse verso Carmine. Lo trovò seduto su una sedia di legno davanti alla porta di casa, il volto tirato.
«Carmine, hai visto cosa sta succedendo? Uomini d’onore messi alle sbarre…»
Carmine lo fissò, come se all’improvviso ricordasse qualcosa.
«Ora capisco perché mi facesti quella strana domanda. Tu sapevi qualcosa?!»
Vincenzo alzò le mani, come a respingere l’accusa.
«No, amico mio. Te lo giuro alla Madonna del Carmine… era solo curiosità.»
Gli occhi di Carmine si fecero cupi.
«Ti credo… ma verranno a prendere anche me, ne sono certo.»
«Scappa. Ti aiuterò io a rifugiarti.»
«Grazie, amico mio.»
Si abbracciarono come due fratelli che sanno di non rivedersi per molto tempo.
Quella sera stessa, Vincenzo spedì un telegramma a Francesco, il suocero, chiedendo se poteva offrire un riparo sicuro a Carmine nella masseria. Attese con ansia una risposta, ma i minuti diventarono ore e le ore giorni.
Era una sera d’estate, e il vicolo odorava di pesce fritto e umidità.
Vincenzo stava rientrando quando vide, nell’ombra, una figura che gli sbarrava la strada. Pasquale.
Negli occhi aveva la stessa luce cattiva di chi non perdona.
«Me la pagherai…» sibilò, mostrando un coltello che scintillava alla luce fioca di un lampione.
Si avvicinò lentamente, con un’aria da predatore.
«Tu sei un uomo finito! Io ti ucciderò e prenderò il tuo posto!»
Vincenzo si tolse la giacca con calma apparente, rivelando il manico del suo coltello.
«Allora vieni a prendertelo.»
Il metallo strappò il silenzio della notte.
Si affrontarono come due fiere intrappolate nella stessa gabbia, colpi secchi, passi rapidi, fiato corto.
Il sangue macchiava il selciato già prima che uno dei due cadesse.
Un affondo, preciso e disperato: il coltello di Vincenzo penetrò nel petto di Pasquale. L’uomo barcollò, cercò aria, poi crollò a terra, immobile.
Un minuto dopo, dal fondo del vicolo, apparvero due sagome. Erano poliziotti.
Vincenzo capì subito: lo stavano aspettando.
Un agente lo bloccò alle spalle, l’altro gli strappò il coltello dalle mani.
Dal buio sbucò il delegato Scognamiglio, con un ghigno di soddisfazione.
«Sapevo che prima o poi avresti messo un piede oltre il limite.»
Gli mise le manette ai polsi con un gesto secco.
«Ora non sei più un uomo d’onore… sei un uomo finito.»
Lo schiaffo arrivò improvviso, bruciante.
Assunta, attirata dalle urla e dal trambusto, uscì di casa. Vide suo marito circondato, le mani legate, il volto insanguinato.
«Vincenzo!» urlò, correndo verso di lui. Ma due agenti le sbarrarono la strada.
Non ci fu tempo per parole. Il rumore degli stivali sulla pietra accompagnò Vincenzo fino al furgone della polizia. Pochi minuti dopo, le porte di ferro si chiusero alle sue spalle.
Il destino lo portò direttamente al carcere di Nisida, dove il mare non era più libertà, ma solo una distesa d’acqua vista da dietro le sbarre.
Nella stanza umida e buia, le urla di Vincenzo si spegnevano nel silenzio dei muri spessi. Lo torturarono a lungo, cercando di strappargli i segreti più nascosti, i nomi, i traffici, le trame oscure dell’onorata società. Ma lui, come una roccia sotto le onde, resistette. Nessuna parola, nessun tradimento: solo il dolore negli occhi e il respiro affannato. Sapeva che parlare significava condannare a morte chi amava e distruggere ciò che restava della sua dignità. Rischiò di morire, e in fondo, forse, lo avrebbe preferito.
La notizia della sua cattura e delle sevizie subite corse veloce, fino a raggiungere la madre e Carmine, il suo amico di sempre. Entrambi ne furono trafitti al cuore. Assunta, con le mani tremanti ma la mente lucida, corse a ingaggiare l’avvocato Troncone, il più rinomato — e costoso — della città. L’unica nota di sollievo fu apprendere che Vincenzo non era coinvolto nell’inchiesta Cuocolo, quella che stava decimando l’organizzazione.
Carmine, invece, assisteva con un’angoscia muta allo sfacelo dell’onorata società. Lo Stato, con l’acciaio delle baionette e la determinazione dei carabinieri, stava conducendo una guerra senza tregua. Si nascose nella casa di un vecchio amico, un uomo pulito e insospettabile, aspettando che il vento cambiasse. La speranza, quella, non la lasciava mai.
Intanto, on Enrico, capo indiscusso della società, cercò scampo in America. Ma il destino gli tese un agguato: appena toccata la terra straniera e invocato l’aiuto dei camorristi napoletani d’oltreoceano, venne arrestato e rispedito in Italia come un pacco indesiderato.
In prigione, Vincenzo conobbe un’altra forma di tortura: il degrado. Celle sovraffollate, cibo scarso, odore di muffa e umiliazione. Lì dentro non era nessuno, un numero fra tanti, senza potere né voce. Nei momenti più bui, riaffioravano le parole del suocero, che tempo addietro gli aveva consigliato di lasciare tutto e tornare alla masseria, tra gli ulivi e il silenzio della campagna.
Il processo di massa venne trasferito a Viterbo, lontano da Napoli, lontano dalle radici. La stampa, orchestrata come uno strumento di propaganda, alimentava il malcontento della gente, preparando il terreno a una condanna pubblica. Assunta, disperata, inviò un telegramma a suo padre: Vincenzo era stato arrestato, servivano mille lire per le spese.
Francesco ricevette due messaggi quel giorno: uno dal genero e uno dalla figlia. Al primo rispose predisponendo un rifugio sicuro per Carmine; al secondo reagì subito, mandando a Napoli un uomo fidato con il denaro e generi alimentari.
L’onorata società era stata colpita duramente, ma respirava ancora. Carmine venne convocato da on Gaetano. Entrò nella stanza con rispetto, il capo chino.
— Carmine, tu sei un capintrito, e questo non lo devi dimenticare! Sei sparito senza dare notizie! — ruggì il capo. — Uomini d’onore sono caduti sotto i colpi di uno Stato che non conosce giustizia, ma un giorno questo calvario finirà, e noi risorgeremo!
— Ne sono certo, on Gaetano.
— Il tuo amico Vincenzo ha ucciso Pasquale — il nome venne sussurrato, come una lama che scivola nella carne. — Queste sono notizie che devi portare tu a noi, non il contrario!
— Mi scuso umilmente, sono servo vostro.
— Tu hai garantito per Vincenzo, e tu dovrai ucciderlo. Chi sbaglia paga. Questa è la nostra legge.
Carmine rimase di pietra.
— Ma… è in prigione.
— Lo aspetterai quando uscirà.
Il cuore di Carmine si ribellò.
— Vincenzo è amico mio. Gli voglio bene. Non gli torcerò nemmeno un capello.
Si voltò e uscì, senza salutare. Fu un gesto che valeva più di uno sparo. On Gaetano, in silenzio, prese il libro nero e vi scrisse il suo nome: l’elenco di chi, prima o poi, doveva morire.

Il processo Cuocolo era stato un terremoto. Napoli, nel 1912, tremò non solo per le condanne inflitte, ma per l’eco che quelle aule di tribunale lasciarono nelle strade, nei vicoli, nelle osterie. Era stato il più grande procedimento giudiziario mai intentato contro la camorra, eppure, dietro le quinte, si erano mossi fili invisibili: testimonianze comprate, prove manipolate, confessioni estorte con la violenza. La Bella Società Riformata non morì quel giorno, ma ne uscì ferita, come un animale braccato.
Vincenzo ascoltò la sentenza con lo sguardo fisso davanti a sé: ventiquattro anni per omicidio volontario. Lo aveva capito fin dall’inizio, quando il suo avvocato Troncone, con voce grave e misurata, gli aveva detto che le speranze erano poche, quasi nulle. Il ferro delle manette e l’odore di muffa del tribunale si confusero in un unico ricordo amaro.
L’anno seguente, nel 1913, un colpo più duro del verdetto lo raggiunse in cella: sua madre, la signora Amalia, era morta. La notizia gli arrivò in una busta sgualcita, con poche righe tracciate dalla mano di Assunta. Gli mancò il respiro. Nei giorni seguenti pensò seriamente di togliersi la vita: non per codardia, ma per porre fine a un dolore che lo stava divorando. Fu la voce ferma di Assunta, nelle sue lettere piene di fiducia e promesse, a tenerlo lontano da quel baratro.
Ma la vita, implacabile, gli riservava un altro colpo. Un mese dopo, un compagno di prigionia gli passò sottobanco la notizia: Carmine era morto, freddato da più colpi di pistola. L’onorata società aveva deciso. In prigione, Vincenzo apprese la verità: Carmine era stato ucciso perché si era rifiutato di eseguire la condanna su di lui. Un sacrificio silenzioso, un atto di amicizia assoluta, pagato con il sangue.
Dopo il processo Cuocolo, Napoli cambiò volto. I malviventi si muovevano nell’ombra, con passi più cauti. Il pizzo, che un tempo gravava come una tassa invisibile, non veniva più riscosso: lo Stato, per la prima volta, sembrava avere messo paura anche agli uomini d’onore. Le strade erano diverse, ma non per questo più giuste: la corruzione si era solo nascosta meglio, come un serpente in attesa.
Vincenzo, chiuso nella sua cella, capì che il mondo esterno non sarebbe più stato lo stesso. Ma dentro di sé maturava un pensiero nuovo, una fiamma sottile: un giorno, quando il ferro della sua pena si sarebbe consumato, sarebbe uscito. E allora, il debito con Carmine, con sua madre e con se stesso, sarebbe stato saldato.

Gli anni in carcere avevano piegato il corpo di molti uomini, ma non quello di Vincenzo. La sua figura si muoveva nei corridoi della prigione con la calma di chi sa di essere osservato e rispettato. La fama di uomo d’onore lo precedeva, e in un luogo dove la parola valeva più del denaro, questo era un capitale prezioso.
Non cercava guai, ma nemmeno li evitava se venivano a cercarlo. Condivideva il pane con chi ne aveva meno, ascoltava le storie degli altri detenuti senza giudicare, e a volte, in silenzio, offriva un consiglio che suonava come un verdetto. Fu così che, nel tempo, seppe conquistarsi la fiducia di guardie e compagni.
Un giorno, il direttore lo convocò nel suo ufficio. Sulla scrivania, un fascicolo sottile e un timbro ancora umido.
— Ferrante, la sua condotta è stata esemplare. Le concediamo una licenza di quarantotto ore. Non sprechi questa occasione.
Quelle parole, semplici e burocratiche, per Vincenzo suonavano come una carezza inaspettata. Non vedeva Assunta da anni, se non attraverso un vetro e con il peso della sorveglianza tra loro.
Quando uscì oltre il portone, la luce del sole lo colpì come un pugno. L’aria, libera e senza odore di ferro, lo fece quasi barcollare. Assunta lo aspettava, vestita con un abito semplice ma curato, e negli occhi portava la stessa forza di sempre. Si abbracciarono a lungo, come due naufraghi che si ritrovano dopo una tempesta.
In quelle quarantotto ore non parlarono molto del passato. Passeggiarono per le vie secondarie di Napoli, lontano dagli sguardi indiscreti. Mangiarono insieme in una piccola osteria, dove il vino era rustico e il pane caldo. Di notte, nella loro casa, il silenzio si riempì solo del respiro lento di chi sa che il tempo è contato.
Vincenzo, però, percepiva un’ombra. Sapeva che fuori, la Bella Società Riformata non era scomparsa, e che il suo nome era ancora inciso nella memoria di chi comandava. Quelle ore di libertà erano un dono, ma anche un assaggio crudele di ciò che non poteva ancora avere.
Allo scadere dei due giorni, tornò in carcere senza tentare la fuga. Non per paura, ma perché sapeva che il suo tempo, se fosse arrivato, non sarebbe stato rubato, ma conquistato.
CAPITOLO 3
La guerra
Nel luglio del 1914, l’Impero Austro-Ungarico dichiarò guerra al Regno di Serbia. Successivamente, l’esercito tedesco attaccò il Belgio e il nord della Francia. La guerra stava assumendo proporzioni sempre più vaste, e ciò preoccupava gli italiani per una possibile entrata in guerra del proprio paese.
All’alba del conflitto, mentre l’Europa bruciava sotto il peso delle ambizioni imperiali e dei trattati infranti, l’Italia si trincerava dietro una fragile neutralità. Ma nei palazzi del potere e nei quartieri generali, già si muovevano pedine, si contavano scorte, si addestravano uomini. La guerra, più che una possibilità, era una certezza travestita da attesa.
Fu in quei giorni sospesi che l’avvocato Troncone fece visita a Vincenzo, rinchiuso da tempo nel carcere di Nisida. Entrò nella cella con passo misurato, lo sguardo velato da un’urgenza non detta.
«Caro Vincenzo,» iniziò senza troppi preamboli, «l’Europa è in fiamme. E, a quanto pare, l’Italia non potrà restarne fuori ancora per molto. In mezzo a questo tumulto, si è aperta per te una via d’uscita.»
Vincenzo sollevò il capo, guardandolo con un misto di scetticismo e stanchezza. «Ho sentito parlare di questa guerra… Ma spero che l'Italia scelga la prudenza.»
Troncone accennò un sorriso, breve e disilluso. «Saresti l’unico, allora. Perché io ti dico che devi sperare l’opposto. Se l’Italia entrerà in guerra – e ti assicuro che lo farà – vi sarà bisogno di uomini. Tanti. Troppi per permettersi distinzioni. Potrebbero richiamare anche i detenuti.»
«Anche i detenuti?» ripeté Vincenzo, quasi incredulo. «Ho quasi quarant’anni… cosa credono di ottenere con uno come me?»
«Non è questione d’età, né di merito,» rispose l’avvocato abbassando il tono. «È questione di carne da mandare al fronte. La guerra che ci attende sarà lunga e sanguinosa. Me lo hanno confidato uomini che non parlano a vuoto. E tu, credimi, saresti più utile con un fucile in mano che rinchiuso tra queste mura. Meglio rischiare il fronte che marcire qui dentro senza redenzione.»
Vincenzo tacque a lungo. Le parole dell’avvocato lo avevano colpito nel profondo, ma non riuscivano a spegnere il rovello che gli bruciava dentro. Sognava la libertà, sì, ma non a quel prezzo. Servire una patria che mai aveva sentito sua, combattere sotto il vessillo di uno Stato che lo aveva abbandonato, gli pareva una beffa.
Eppure, tra le ombre della cella, la guerra sembrava meno estranea del carcere.
Meno ingiusta, forse.
O soltanto diversa.
Vincenzo si consultò con Assunta in merito alla possibile proposta di arruolarsi nel regio esercito, la moglie gli disse di accettare che sarebbe stato meglio lottare per la libertà anziché marcire in galera e poi c'era un motivo in più per farlo; gli disse che era incinta. Fu un vero miracolo per via della loro età avanzata, Vincenzo pianse dall'emozione, vide il mondo ormai grigio colorarsi e le disse <se sarà un maschietto dovrà chiamarsi Umberto!> <Umberto? Perché questo nome?> <Perché lo promisi a mio padre, fu un suo desiderio che se avessi avuto un figlio maschio chiamarlo come il nome del Re d'Italia> <ma re Umberto è morto quindici anni fa!> <Lo so che è morto ma la promessa e rimasta viva> <va bene marito mio sarà così se dovesse nascere maschio, perché il nome di un re?> <Perché io non ho mai riconosciuto l'Italia in quanto nazione unita e mio padre mi ha sempre invogliato ad accettarla e volerla bene> L'evento previsto arrivò il 25 maggio 1915 circa dieci mesi dopo dell'avvio del conflitto l'Italia entrò in guerra.
Quando l’Italia entrò nella Prima Guerra Mondiale il 24 maggio 1915, le Forze Armate italiane si trovarono a dover affrontare una guerra moderna e logorante senza essere pienamente preparate. Tuttavia, venne avviata una rapida riorganizzazione e mobilitazione.
Generale Luigi Cadorna fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Aveva poteri amplissimi: gestiva direttamente la strategia e la logistica.
Era convinto sostenitore dell’attacco frontale e della disciplina ferrea.
Le armate principali vennero schierate sul fronte alpino e sul fronte dell’Isonzo contro l’Austria-Ungheria.
L’entrata in guerra non fu accolta con entusiasmo generale.
Fu una decisione politica dall’alto, presa senza consultare il Parlamento né il popolo.
L’Italia entrò in guerra con un paese spaccato, un esercito impreparato e un’opinione pubblica confusa e spesso ostile.
Quando l’avvocato Troncone tornò in carcere, Vincenzo lo accolse con diffidenza. Non si aspettava più notizie buone: troppe volte, in quei corridoi umidi, ogni visita era preludio a cattive novelle. Ma quella volta Troncone portava con sé un documento diverso: una richiesta di arruolamento volontario nel Regio Esercito.
— Vincenzo, basta una firma — disse, posandogli davanti la carta. — È l’unica via per uscire di qui… almeno per ora.
Vincenzo non esitò. Il carcere gli aveva consumato i polmoni, le ossa, e soprattutto la mente. Firmò con mano decisa, come se quella penna fosse una chiave.
Dopo poche settimane fu trasferito al distretto militare competente. Gli diedero una divisa rigida e pesante, e lo sottoposero a tre settimane di addestramento. Lì imparò a maneggiare il fucile, a marciare con il passo degli altri, a obbedire a ordini urlati in un italiano che gli suonava quasi straniero.
Poi venne il momento di partire. Destinazione: Brigata Re, 2° Reggimento, Manzano-Dolegnano, in provincia di Udine.
Quando vi arrivò, gli parve di entrare in un altro mondo. Il coraggio non gli mancava, ma la paura era un’ombra costante. Non smetteva di pensare ad Assunta, e soprattutto a quel figlio che forse non avrebbe mai conosciuto. Nei primi giorni gli balenò in mente l’idea di scappare, ma bastò vedere tre corpi freddi, legati ai pali, fucilati il giorno prima per diserzione, per far svanire ogni velleità.
Il reparto era un mosaico di dialetti. C’erano pugliesi, toscani, molisani, lombardi, friulani: un’umanità così variegata che sembrava impossibile capirsi. “Garibaldi ha fatto l’Italia, ma non gli italiani”, pensò amaramente. La maggior parte dei compagni proveniva dalla campagna o dalle officine: mani callose, occhi stanchi, cuori abituati alla fatica.
Gli ufficiali parlavano un italiano rapido, infarcito di termini militari che spesso nessuno capiva. Vincenzo si aggrappava al senso più che alle parole, osservando i gesti, imparando in fretta che in guerra non è tanto importante capire, quanto obbedire.
Le trincee… quelle erano un inferno a cielo aperto. Fango fino alle caviglie, topi grossi come gatti che rosicchiavano il pane ammuffito, pidocchi che non davano tregua. L’odore acre di sudore, urina e morte era costante. In inverno il freddo entrava nelle ossa come un chiodo; d’estate, il caldo rendeva l’aria irrespirabile. Ogni tanto un colpo di cannone scuoteva il terreno, ricordando a tutti che la morte non era mai lontana.
La Brigata Re aveva un ruolo difensivo, e per ora non era in prima linea. Ma Vincenzo lo capì subito: quella guerra sarebbe durata a lungo, e presto avrebbe inghiottito tutto.
Una sera, alla luce tremolante di una candela, prese un foglio e scrisse ad Assunta:
"Lascia Napoli. Porta con te i miei fratelli e vai alla masseria di tuo padre. Lì avrai cibo e protezione. Lì nostro figlio potrà nascere al sicuro. Non discutere, fallo. La città non è un posto per voi adesso."
Piegò la lettera e la affidò a un compagno in licenza. Poi si sdraiò nella paglia umida, fissando il cielo nero sopra la trincea. E per la prima volta da tempo, si sentì lontano da Napoli… e più vicino alla guerra che alla vita.
Assunta non esitò. Dopo aver ricevuto la lettera di Vincenzo, prese il telegramma e scrisse poche righe a suo padre: “A breve vi raggiungerò. Preparateci un posto.”
Era una donna decisa, e in quei giorni di guerra le esitazioni si pagavano care.
Intanto, al fronte, la vita di Vincenzo aveva preso una piega inaspettata. La sua capacità di leggere, scrivere e parlare un italiano chiaro lo aveva reso un soldato diverso dalla massa di contadini e operai che popolavano la brigata. I superiori decisero di utilizzarlo come furiere: niente assalti alla baionetta, ma ordini, contabilità, sistemazione degli alloggiamenti e organizzazione logistica per le truppe. Un incarico che, sebbene meno letale, portava con sé la responsabilità di far funzionare una macchina sempre sull’orlo del collasso.
Fece il possibile per non commettere errori. Ogni giorno annotava con precisione i materiali in arrivo, distribuiva il cibo, controllava che i soldati avessero un posto asciutto — o almeno meno bagnato del solito — dove dormire. E tra quei giovani uomini spaventati, cercava anche di alleviare il dolore, ascoltando storie, scambiando battute, persino dividendo di nascosto qualche razione in più.
Fu così che, un pomeriggio, mentre sistemava delle coperte in un magazzino, sentì una voce alle sue spalle.
— Ma voi siete… on Vincenzo!?
Si voltò. Un ragazzo magro, con occhi scuri e vivi, lo fissava quasi incredulo. Stava per prendergli la mano e baciarla, ma Vincenzo lo fermò con un gesto deciso.
— No, fermati. Sono proprio io, Mario, ma qui non sono nessuno. Sono solo un soldato come te… che cerca di sopravvivere.
Mario era del quartiere di Vincenzo, e lo guardava con una devozione quasi infantile.
— Per me sarete sempre un uomo d’onore.
Vincenzo lo abbracciò forte, quasi a volerlo proteggere.
— Ti ringrazio… ma qui non posso fare nulla per nessuno. Gli ordini sono legge, e se li disobbedisci… ti fucilano.
Qualche giorno dopo, il comandante di compagnia, il tenente Rossi, lo convocò nella sua tenda.
— Soldato Ferrante — iniziò, fissandolo con occhi freddi — so che lei viene da una prigione. So che è di Napoli. E so che in passato era un malavitoso… giusto?
Vincenzo si irrigidì.
— Comandante, è tutto giusto… solo su una cosa vi sbagliate. Io non ero un malavitoso. Ero un guappo.
Rossi lo guardò con un mezzo sorriso di scherno.
— E cosa significa… “guappo”?
— Il guappo è colui che aiuta la povera gente e fa giustizia.
— Si sostituiva allo Stato, quindi?
— A Napoli lo Stato siamo noi. L’Italia… non è mai esistita.
Il tenente inclinò la testa, studiandolo.
— E quante persone ha ucciso? E perché?
— Ho ucciso chi lo meritava. Gente che avrebbe solo portato male e dolore. In un mondo sporco… io ho tolto la sporcizia.
Rossi si appoggiò alla sedia.
— Capisco. Adesso, però, lei è un soldato italiano. Le sue regole da strada se le tenga per sé. Qui obbedisce e basta. Dimentichi il passato.
Vincenzo lo fissò senza abbassare lo sguardo.
— Farò il mio dovere. Ma non rinnegherò mai chi sono stato.
Il silenzio che seguì era teso come la corda di un arco. Rossi e Ferrante si guardarono come due avversari che sanno già di non potersi fidare l’uno dell’altro. C’era un odio reciproco, istintivo: il tenente disprezzava i meridionali, e Vincenzo non aveva mai sopportato chi si credeva superiore solo per una divisa o per l’accento che portava.
Il monte Podgora si ergeva come una muraglia di pietra e sangue. Chi lo conosceva lo temeva: era uno dei pilastri più feroci della testa di ponte di Gorizia, un groviglio di trincee, reticolati e nidi di mitragliatrici che l’esercito austriaco difendeva con tenacia. Lì, ogni metro conquistato costava vite intere.
Il 5 giugno, mentre il vento del fronte portava con sé l’odore acre della polvere da sparo, Vincenzo ricevette una busta sgualcita. La aprì con mani tremanti: la grafia di Assunta lo accolse come un abbraccio lontano.
"Vincenzo, il nostro bambino è nato. È un maschietto. Come volevi, l’ho chiamato Umberto. È forte, sano… e ha i tuoi occhi."
Quelle righe gli colpirono il cuore come un colpo improvviso, ma non di fucile: un colpo di vita. Per un attimo il monte, la guerra, il fango… tutto svanì. Strinse la lettera al petto e, senza pensare alle regole militari, gridò di gioia, esultando come un uomo a cui era stata data una seconda possibilità di vivere. Alcuni commilitoni si avvicinarono sorridendo, altri lo guardarono con curiosità, ma a lui non importava.
Quel giorno, Vincenzo camminava più leggero. Un’energia nuova lo percorreva, come se la nascita di suo figlio avesse riacceso in lui un fuoco sopito. S’inchinò davanti alla tenda del comandante e chiese licenza.
— Mio comandante… è nato mio figlio. Desidero vederlo.
Il tenente Rossi lo ascoltò con un’espressione neutra, quasi annoiata.
— La licenza le è negata, Ferrante. Non siamo qui per fare visite di cortesia.
— Ma… è mio figlio. — La voce di Vincenzo si incrinò, per un attimo.
— Ferrante, la brigata si trova in territorio nemico. Ogni uomo è necessario. Non siamo al mercato del pesce di Napoli: qui c’è la guerra.
Quelle parole furono come acqua gelida. Vincenzo uscì dalla tenda con un peso allo stomaco. Non voleva ammetterlo nemmeno a se stesso, ma aveva paura. Paura che una pallottola, una granata, o semplicemente il destino lo privassero per sempre della possibilità di guardare Umberto negli occhi.
Intanto, la Brigata Re si era spinta troppo avanti. Le colline attorno al Podgora erano terreno nemico, e i movimenti delle pattuglie austriache erano sempre più frequenti. La sensazione che uno scontro fosse imminente serpeggiava tra i soldati come un brivido invisibile.
Nelle notti silenziose, Vincenzo pensava al volto di suo figlio che non aveva mai visto, cercando di immaginarlo attraverso le parole di Assunta. Ma il rombo lontano dell’artiglieria gli ricordava che la guerra, a differenza della vita, non conosce pietà per i padri.
Dal giugno al dicembre del 1915, la Brigata Re fu inghiottita dal vortice di fuoco delle prime quattro battaglie dell’Isonzo. Non c’era tregua, solo un alternarsi di avanzate e ritirate, come onde che si infrangono e si ritirano senza mai fermarsi.
Il 1° reggimento si spaccò le ossa al Grafemberg e a quota 157, mentre il 2°, quello di Vincenzo, conobbe l’inferno il 19 luglio sul Podgora. Il monte, duro e ostile, li accolse con il fragore delle mitragliatrici e il sibilo dei proiettili. Poi vennero i mesi d’autunno, e i nomi dei luoghi — Fortino del Podgora, Grafemberg, Peuma — si scolpirono nella memoria dei superstiti insieme al numero dei caduti: mille seicento ventisei uomini, cinquantotto ufficiali, tutti inghiottiti tra il 18 ottobre e il 5 dicembre.
Il 20 novembre, sulle alture di Oslavia, il III battaglione del 2° fanteria, insieme alla Brigata Pavia, respinse con furia un poderoso attacco nemico. Tra quei soldati c’era anche Vincenzo.
Quel giorno l’aria sapeva di piombo e di morte. La terra tremava sotto il peso dell’artiglieria, e il cielo era un groviglio di fumo nero. Vincenzo sparava, ricaricava, sparava ancora. Ogni volta che il grilletto cedeva sotto il suo dito, sapeva di togliere la vita a un altro uomo. La guerra, pensava, era una bestia che ti trasformava in un assassino, anche se non lo volevi.
Non c’era spazio per i dubbi: o ammazzavi, o ti ammazzavano. E lui non voleva morire. Non per sé soltanto, ma per Assunta, per il figlio che non aveva mai stretto tra le braccia.
Fu allora che la sua scaltrezza di guappo napoletano gli venne in aiuto. Non si esponeva mai più del necessario. Si muoveva tra le trincee con attenzione, sfruttando ogni cunetta, ogni muro di terra, ogni ombra per ridurre al minimo il rischio. Osservava i movimenti nemici come un predatore, cercando il momento giusto per colpire, e quando lo faceva era rapido, preciso, letale.
Non era codardia, ma istinto di sopravvivenza. Gli altri, più giovani e impetuosi, cadevano nella foga dell’assalto. Lui no: conosceva il valore della vita e il prezzo della morte. E se il destino avesse voluto prenderlo, avrebbe dovuto faticare molto.
La notte, quando il fragore cessava e restava solo il gemito dei feriti, Vincenzo restava seduto in silenzio, il fucile sulle ginocchia, lo sguardo perso nel buio. Ripensava alle parole del tenente Rossi, alla sua licenza negata, e si riprometteva che, se fosse uscito vivo da quell’inferno, nessun uomo avrebbe più deciso al posto suo.

Il fango della trincea si appiccicava alle mani, al viso, all’anima. Vincenzo, fissava il vuoto con lo sguardo perduto. Era notte, ma la guerra non dormiva mai. Le esplosioni in lontananza erano diventate una ninna nanna distorta. A pochi passi da lui, seduto contro il legno marcio della trincea, c’era Mario, un altro napoletano come lui, sporco di terra e paura.
<On Vincenzo perché non parlate?>
Vincenzo scosse il capo lentamente, poi si passò una mano sul viso, cercando invano di cancellare l’immagine che gli bruciava dietro gli occhi.
<L'ho visto, Mario... Per la prima volta. Corpo a corpo. Con le mani e con le baionette, ho visto persone scannarsi tra di loro, gli occhi di quel tedesco... Ancora mi guardano>
Un tremito gli percorse le spalle. Mario abbassò lo sguardo, senza sapere cosa dire. Attorno a loro, il silenzio era solo una maschera: ogni tanto, un colpo di fucile, il grido lontano di un ferito, e l'odore. Quell'odore maledetto.
<E poi... I morti, Mario... Sopra i reticolati. Stanno là da settimane. Secchi, non si tolgono. C'è una puzza che si infiltra in testa.>
Pianse. Non dirotto, non urlando, ma con lacrime lente e pesanti, come gocce d’acqua che colano da una pietra spaccata. Mario si limitò a stringergli un braccio. Non servivano parole.
In mezzo a quell’inferno, Vincenzo faceva il possibile per aiutare gli altri napoletani della brigata. Molti non capivano gli ordini in italiano – troppi provenivano da paesi dove si parlava solo dialetto.
<Dobbiamo fare attenzione. Il tenente dà gli ordini e noi non possiamo farci ammazzare perché non comprendiamo ciò che dice. Ve lo dico io, Ve lo traduco. L'importante è restare uniti>
Era diventato, senza volerlo, un ponte tra due mondi: quello dei comandi secchi e incomprensibili dell’alto ufficiale piemontese, e quello dei suoi fratelli napoletani, spaventati, affamati e lontani da casa.
Vincenzo non era un eroe, ma in quelle giornate in trincea, sotto il cielo piombo dell’Altopiano, era l’unica cosa che somigliava a un conforto. Un volto familiare in mezzo al fango.

Mentre al fronte il fragore dei cannoni non lasciava tregua, lontano da tutto quel rumore, il piccolo Umberto cresceva in un’oasi di pace. La masseria del nonno Francesco, immersa tra filari d’ulivi e campi dorati di grano, era un rifugio sicuro, dove il vento portava solo profumo di terra e di pane caldo, non di polvere da sparo.
Francesco, ormai segnato dagli anni e dalle fatiche, trovava in quel nipotino la sua più grande consolazione. Ogni sorriso, ogni balbettio di Umberto era per lui una carezza all’anima. Passava ore a raccontargli storie antiche, credendo che, chissà, un giorno il bambino le avrebbe ricordate. Nei suoi occhi stanchi c’era un bagliore nuovo: sapeva che il tempo gli era nemico, ma voleva goderne ogni singolo minuto.
Le redini della masseria erano passate ad Assunta. Con passo sicuro e carattere fermo, portava avanti l’azienda come un generale guida il proprio esercito. Decisa, attenta, capace di contrattare con i mercanti e di vigilare sul raccolto, non lasciava che nulla andasse sprecato. Di giorno dirigeva gli uomini nei campi, di sera stringeva tra le braccia suo figlio, promettendogli in silenzio che sarebbe cresciuto senza conoscere la fame né la paura.
I fratelli di Vincenzo, uomini forti e fedeli, si dedicavano con devozione alla masseria e alla famiglia. Ma la guerra li raggiunse anche lì, sotto forma di un ordine di richiamo alle armi. La lettera portava il timbro del Regio Esercito, ma per loro aveva il sapore amaro di un’imposizione straniera.
Discuterono a lungo, ma alla fine la decisione fu unanime: non avrebbero combattuto. Non per quella guerra, non sotto quella bandiera.
— Meglio disertori che complici — disse il maggiore, stringendo i pugni. — Noi non riconosciamo questa guerra. Non per il nostro popolo. Non per il Sud.
Si nascosero tra le colline, ospiti di amici fidati, protetti da chi sapeva cosa significasse ribellarsi in silenzio. Erano uomini del loro tempo, cresciuti tra onore e diffidenza verso uno Stato che aveva sempre guardato a Napoli e alle terre meridionali come a province da domare, non da ascoltare.
E così, mentre il piccolo Umberto cresceva circondato da mani amorevoli e da una campagna generosa, l’ombra della guerra restava lontana… almeno per ora.
Nel Regno d’Italia, la diserzione fu un problema serio. Alcuni dati indicano che:
Circa 470.000 soldati italiani furono dichiarati disertori durante il conflitto.
Molti erano contadini richiamati dal Sud e dal Nord Italia, spesso poco motivati, impreparati e spaventati dalla guerra.
Alcuni non si presentarono alla chiamata alle armi (diserzione in tempo di pace), altri abbandonarono il fronte (diserzione in tempo di guerra).
La risposta dello Stato fu molto dura:
I disertori venivano processati da tribunali militari.
Migliaia furono condannati a morte o a pene durissime.
Alcune fucilazioni vennero eseguite sul campo, anche per dare un esempio agli altri soldati.
Nell’autunno del 1916, tra le montagne del Friuli dilaniate dalle cannonate, un ragazzo di vent’anni camminava con il fucile in spalla e il cuore spezzato. Si chiamava Pietro, figlio di contadini, nato in una piccola frazione della Toscana dove il tempo sembrava essersi fermato.
Quando arrivò la cartolina precetto, sua madre pianse in silenzio. “Vai e torna presto”, gli disse, anche se entrambi sapevano che quel ritorno era una speranza più che una promessa.
Sul fronte, Pietro vide l’inferno. I corpi dei compagni seppelliti nel fango, gli ordini urlati tra le urla dei feriti, il freddo che entrava nelle ossa come una lama. Nessuno parlava più di patria. Si parlava solo di sopravvivere un altro giorno, un’altra notte.
Una sera, dopo l’ennesimo assalto fallito, quando il tenente fu dilaniato da una granata e i pochi rimasti furono rimandati in trincea senza pane né rinforzi, Pietro fece qualcosa che non aveva mai nemmeno osato pensare: scappò.
Strisciò fuori nella nebbia, con il cuore in gola e le mani tremanti. Camminò per giorni tra i boschi, evitando i paesi, dormendo sotto gli alberi. Sognava il volto di sua madre, il profumo del pane caldo, il suono del grano nei campi.
Ma il suo sogno durò poco. Lo catturarono vicino a una stazione ferroviaria, sporco e affamato, mentre cercava di tornare a casa. Lo trattarono da traditore, come se non fosse più un uomo ma un problema da eliminare.
Fu condannato per diserzione e fucilato all’alba insieme ad manipolo di soldati di provenienza siciliana che non eseguirono l'ordine di assalto perché non avevano compreso ciò che aveva annunciato il comandante, senza processo regolare, sotto un cielo di piombo. Nessuno pianse. Nessuno protestò. Solo il cappellano militare fece un cenno di croce prima che il silenzio tornasse a regnare.
L’alba del 24 ottobre 1917 si levò grigia e silenziosa, ma non durò. Poco dopo, il cielo di Caporetto fu squarciato da un boato che sembrava provenire dall’inferno stesso. L’artiglieria austro-tedesca si scatenò con una violenza mai vista: colpi precisi, devastanti, piovevano sulle trincee italiane, sbriciolando sacchetti di sabbia, travolgendo uomini e speranze.
Vincenzo, riparato dietro un muretto di pietra, sentiva la terra tremargli sotto i piedi. L’aria era densa di fumo e polvere, il respiro un dolore bruciante nei polmoni. Ordini urlati si perdevano tra le esplosioni, e i compagni cadevano accanto a lui come marionette a cui avevano tagliato i fili.
— Indietro! Ritirata! — gridò un sergente, ma la voce si spezzava tra le detonazioni.
Non era una ritirata ordinata: era una fuga disperata.
La Brigata Re si mosse a ondate disordinate, cercando di aprirsi un varco tra i corridoi fangosi e i sentieri stretti che scendevano verso il Natisone. Vincenzo correva, il fucile stretto al petto, mentre attorno a lui uomini gettavano a terra le armi per correre più veloce. Alcuni cadevano nei fossati, altri sparivano tra i boschi.
Lungo la via, incontrarono file di prigionieri italiani, mani alzate, circondati da soldati nemici. Vincenzo strinse i denti e tirò dritto: fermarsi significava essere catturato o morto. Il pensiero andò ad Assunta e a Umberto. Non qui, non oggi, si ripeteva come un mantra.
Dopo giorni di marcia forzata, fame e paura, raggiunsero il Piave. Il fiume, gonfio e impetuoso, diventava ora l’ultima linea di difesa. Alle loro spalle, Caporetto era ormai perduta. Davanti a loro, c’era solo l’incertezza di una guerra che non dava tregua.
La disfatta pesava come un macigno nell’animo di tutti. Molti ufficiali accusavano i soldati di codardia, ma Vincenzo sapeva la verità: erano stati mandati allo sbaraglio, senza ordini chiari, senza rinforzi, contro un nemico più preparato e meglio armato.
Quella notte, seduto vicino a un fuoco improvvisato, con le mani tremanti e la divisa inzaccherata di fango, Vincenzo scrisse una breve lettera a casa:
Assunta, sono vivo. Ma ho visto cose che non dimenticherò mai. Proteggi Umberto, non fidarti di nessuno. Qui la guerra è persa negli uomini, prima ancora che nelle battaglie.
Il Piave ora era il loro confine… ma per quanto ancora avrebbe retto?
Vincenzo avanzava lentamente lungo il bordo fradicio della trincea, con le mani tremanti e lo sguardo perso oltre l’orizzonte di fango e filo spinato. Il fucile a tracolla era ormai solo un peso morto, una protuberanza d’acciaio che portava come una croce. Ogni passo affondava nel suolo viscido, ogni respiro era un colpo secco al petto, carico del puzzo acre della polvere da sparo e della carne bruciata.
La guerra gli era entrata nelle ossa.
Aveva combattuto con il ferro e con il fuoco, ma anche con la furia cieca di chi lotta per non impazzire. In certi scontri ravvicinati, quando il nemico emergeva improvviso dal fumo come una bestia, Vincenzo aveva dovuto abbandonare il grilletto per la baionetta, e poi persino quella per il coltello, le mani, i denti. Lì non c’era onore, solo sopravvivenza. Ricordava ancora gli occhi di certi uomini, spalancati e colmi di paura, prima che il silenzio eterno li ghermisse.
Intorno a lui, il terreno era un mosaico di dolore. Crateri di mortaio, membra straziate, brandelli di divise strappate dal vento. Le urla si erano spente col tempo, ma ogni tanto, nella notte, tornavano a fargli visita, sussurrate dal buio come fantasmi. Tanti dei suoi compagni non c’erano più. Se li era portati via un colpo ben piazzato, una mina sepolta o una carica disperata. E lui restava, sempre, con la colpa muta di chi sopravvive.
La guerra, che all’inizio sembrava un’ombra lontana, aveva ormai inghiottito il mondo. Ogni frontiera era diventata un campo di battaglia, ogni alba un nuovo incubo. Sembrava non finire mai. Un giorno dopo l’altro, si trascinava in un’agonia collettiva fatta di fango, sangue e pioggia.
Eppure, in quel cuore stanco e indurito, qualcosa resisteva. Forse un pensiero. Forse un volto. Forse il ricordo di una vita prima del rombo dei cannoni.
Ma la guerra non aveva pietà per i sogni.
Solo per i sopravvissuti.
Ogni giorno, all’alba, il silenzio della terra smossa e fradicia veniva spezzato dal suono secco di uno sparo.
Non era il nemico. Non ancora.
Erano fucilazioni. Fredde, burocratiche, ordinate.
Ragazzi — perché erano poco più che ragazzi — venivano trascinati davanti a un plotone d’esecuzione per crimini invisibili: un ordine mancato, un'esitazione, uno sguardo di troppo. Vite interrotte da ufficiali che avevano fatto della disciplina una religione cieca, una fede senza cuore.
Le lettere mai spedite restavano nei loro zaini infangati, e i campi che avevano lasciato alle spalle, quei filari e quei solchi in cui un tempo lavoravano con i padri, aspettavano invano il ritorno delle loro braccia forti. Invece, venivano falciati come grano, uno dopo l’altro, in quella grande macchina disumana chiamata guerra.
C’erano metodi per scoprire se il nemico fosse ancora lì, oltre il filo spinato, dentro la nebbia di fumo e paura.
Gli ufficiali prendevano un soldato a caso. Non uno scelto con criterio, ma uno qualsiasi, come si estrae un numero da un sacchetto.
"Cammina."
Dove?
"In piedi. Sopra la trincea."
Il ragazzo obbediva. Perché disobbedire era già scritto come morte. Saliva con le gambe tremanti, esponendosi al cielo grigio e al fuoco nemico.
Il suo corpo diveniva bersaglio.
Se partiva uno sparo, era la conferma: il nemico era lì. Pronto.
E lui cadeva. Di testa. Di petto. Di spalle.
Morto. Ma utile, per loro.
Nessuna medaglia. Nessuna tomba degna. Solo una nota a margine nei registri di un comando troppo distante, troppo sicuro, troppo arrogante per vedere cosa aveva fatto.
Così passavano i giorni.
Con i vivi che scavavano e obbedivano, e i morti che guardavano il cielo senza più dover temere un ordine.
Armando Diaz sostití Luigi Cadorna
capo di stato maggiore dell'esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto, cambiò strategia nell'intento di alzare il morale delle truppe, i metodi ferrei di Cadorna non diedero buono risultati.
Il fiume scorreva lento, denso come il silenzio che avvolgeva le trincee. Era la fine dell'autunno del 1917, e l’Italia sanguinava ancora dalla disfatta di Caporetto. La ritirata si era fermata sul Piave, dove l'acqua tagliava la pianura come una ferita aperta. Qui, tra i canneti bagnati dalla nebbia, ricominciava la guerra. Ma stavolta, con un volto diverso.
Il generale Armando Diaz, succeduto da poco a Cadorna, sapeva che il cuore dei soldati era spezzato quanto le linee del fronte. Le montagne avevano inghiottito fratelli e speranze, e l’eco degli ordini perentori e dei fucili di decimazione ancora rimbombava nelle menti di chi era sopravvissuto.
Fu in quei giorni che nacque, silenzioso e necessario, il Servizio P.
Tra i primi a varcare le linee con un diverso tipo di arma — parole, non fucili — fu Tenente Carlo Neri, ex professore di filosofia richiamato al fronte. Non portava medaglie, ma libri sotto la giubba logora. Gli avevano assegnato un compito strano, quasi astratto: ridare senso alla guerra, spiegare ai soldati perché combattere, quando tutto sembrava già perduto.
Ogni sera, sotto un telo mimetico teso tra due alberi nudi, Carlo parlava. Non predicava la vittoria, né raccontava favole patriottiche. Leggeva lettere dal fronte, riportava le parole dei contadini arruolati, parlava di giustizia, di libertà, di una terra che non doveva essere solo confine, ma casa.
Un giorno, un caporale veneto, Marco Zanin, lo interruppe. «Ma davvero vale la pena? Per chi? Per quei signori in giacca e cravatta a Roma?»
Il tenente non rispose subito. Prese una lettera dalla tasca, sgualcita, e cominciò a leggere. Era di un alpino morto sul Monte Nero, che scriveva alla madre: "Se non tornerò, ricordati che io c’ero, per chi non poteva esserci. Perché questa guerra la devono finire gli uomini, non i padroni."
Il silenzio calò sul piccolo gruppo di soldati. Marco annuì piano. Non era una risposta, forse. Ma era qualcosa in cui credere.
Nei giorni che seguirono, i soldati cominciarono a scrivere diari, a leggere i bollettini con occhi diversi. Qualcuno disegnava, altri componevano canzoni, e persino i mormorii del disfattismo si fecero più rari. Il Servizio P, tra mille contraddizioni e fatica, riusciva a toccare ciò che i cannoni non potevano: l’anima.
E così, quando giunse la primavera, e con essa l’eco della battaglia finale, i soldati non erano solo carne da cannone. Erano uomini che avevano ritrovato un perché. Non tutti, certo. Ma abbastanza per resistere.
Sul Piave, il giorno prima della riscossa, mentre la luna scivolava sulle acque, il tenente Carlo scrisse nel suo taccuino:
“Questa guerra finirà. Ma se domani moriremo, che almeno sia con la schiena dritta e il cuore pieno di parole.”
Il cielo era basso e pesante su Fagaré, le nuvole parevano strisciare sopra le trincee come spettri grigi, e la pioggia cadeva sottile, gelida, persistente. Era il novembre del '17, e l'Italia era una nazione ferita. Caporetto aveva lasciato una scia di disfatta, una fuga amara che aveva costretto l’esercito a ripiegare oltre il Piave. Ma qualcosa, nel fango di quella ritirata, si era acceso. Non era rassegnazione: era fuoco.
In un tratto apparentemente secondario del fronte, nei pressi di Fagaré della Battaglia, era stato assegnato un reparto misto. C’erano reduci consumati dall’orrore delle undici battaglie dell’Isonzo: occhi incavati, barbe incolte, silenzi lunghi e duri. Ma accanto a loro, vestiti di divise ancora troppo larghe, c’erano i Ragazzi del '99 – diciottenni al primo impatto col fronte, con ancora addosso l’odore delle case materne, ma già con il peso dell’Italia sulle spalle.
Il comandante del reparto era il tenente Carlo Fioravanti, un maestro elementare di Udine prima della guerra. Aveva visto i ponti saltare e i villaggi bruciare durante la ritirata, aveva visto soldati piangere per la vergogna più che per la paura. Ma ora, a Fagaré, qualcosa era cambiato. I piedi erano piantati. La fuga era finita.
All’alba del 16 novembre, il rombo delle artiglierie austriache ruppe il silenzio umido della pianura. L’attacco era massiccio: gli austro-germanici volevano forzare il passaggio sul Piave e sfondare la linea per sempre. Le ondate nemiche avanzavano nel fumo, urlando, certi di trovare soldati stremati e disorganizzati.
Ma a Fagaré, trovarono il muro.
I vecchi del fronte isontino rimasero impassibili mentre i colpi piovevano. Avevano già visto l’inferno. E i Ragazzi del ’99? Stringevano i fucili come se fossero la loro ultima difesa, sparavano con la furia di chi ha appena iniziato a vivere e non intende cedere un solo metro.
Per ore si combatté casa per casa, ansa per ansa lungo l’argine del Piave. Il fiume mormorava, carico d’acqua e di morte. Ma i nostri non cedevano.
Fu allora che Fioravanti, vedendo un punto debole nello schieramento nemico, ordinò una manovra folle: una sortita all’alba, sotto la nebbia, per aggirare un gruppo avanzato austro-germanico. I soldati partirono in silenzio, pugnali tra i denti, il fango fino alle ginocchia. Non più di quaranta uomini.
Li colsero nel sonno, nella nebbia e nella sorpresa.
Quando il sole si levò, ancora coperto da nubi, 500 soldati austro-germanici erano stati presi prigionieri. Non c’erano canti, né bandiere. Solo occhi lucidi, stanchi, e un silenzioso orgoglio.
Non era una vittoria decisiva. Ma era la prima dopo Caporetto. E per l’Italia, in quel momento, significava che si poteva resistere. Che si poteva vincere.
Fagaré divenne un nome sussurrato nelle trincee come una speranza. E quei ragazzi, vecchi e giovani insieme, rimasero per sempre scolpiti nella memoria come i custodi della svolta.
Il fiume mormorava, lento ma costante, come il respiro della patria ferita. Era l’alba di un nuovo giorno, eppure l’aria sapeva ancora di polvere da sparo, sudore e sangue. Il Piave, testimone silenzioso, accarezzava la riva mentre Vincenzo stringeva il fucile con mani tremanti, ma non di paura: era la stanchezza a farsi sentire, quella di mesi passati nel fango, sotto le bombe, tra urla e preghiere.
Aveva visto morire troppi compagni, troppi fratelli. Lì, tra le trincee, non c’erano nord né sud, dialetti diversi né campanilismi: c’erano uomini, italiani, uniti dal desiderio di libertà, di riscatto, di onore.
Quel giorno, quando l’assalto austriaco sembrava inarrestabile, Vincenzo alzò lo sguardo al cielo plumbeo e si disse che non poteva finire così. L’Italia non era solo una parola. Era un’idea. Era la somma delle storie, delle lingue, dei sacrifici. Era il tricolore che sventolava tra fumo e grida, portato in alto da ragazzi che non sarebbero mai tornati a casa.
“Non si passa!” gridò, gettandosi avanti con le ultime forze. E dietro di lui altri lo seguirono, come un’onda che si solleva prima di abbattersi. Il Piave, testardo, divenne confine e baluardo. Lì, tra l’acqua e la terra, nacque davvero la nazione.
Quando la polvere si posò e il silenzio tornò a regnare, Vincenzo si accasciò, il volto graffiato e le mani insanguinate. Ma sorrise. Aveva visto il nemico ritirarsi. Aveva sentito l’Italia nascere per davvero.
Trieste tornava italiana, come Trento. E in ogni paese, dal più piccolo borgo alpino fino alle marine assolate del sud, le campane suonavano a festa. Ma Vincenzo lo sapeva: la vittoria non era solo militare. Era una promessa.
Bisognava essere uniti, sotto una sola bandiera. Bisognava imparare a conoscersi, a parlarsi, a capirsi, pur custodendo ogni accento, ogni canto, ogni tradizione. L’italiano diventava la lingua comune, ma il cuore di ciascuno batteva al ritmo del proprio villaggio, della propria storia. Nessuna identità doveva perdersi, ma tutte dovevano unirsi.
Il Piave aveva vinto, e con esso l’Italia. Ma era solo l’inizio.
Vincenzo tornò a casa, portando con sé la memoria di chi non ce l’aveva fatta, deciso a costruire un’Italia più giusta, più forte, più unita. E ogni volta che raccontava quella battaglia, chiudeva gli occhi e sentiva ancora il fiume mormorare:
“Il Piave mormorò: non passa lo straniero.”

Il 18 novembre 1918 l'aria era densa di pioggia e di silenzio. Le armi avevano taciuto da giorni, ma il fragore della guerra ancora rimbombava nei cuori. L’Italia, sì, era vittoriosa. Ma era una vittoria segnata dal sangue e dal vuoto: più di 650.000 uomini non sarebbero mai tornati. E tra i tanti che avevano varcato le frontiere del dolore e della paura, c’era anche Vincenzo.
Vincenzo non era partito con la chiamata obbligata della leva. No. Lui si era offerto, volontario, spinto da un ideale e da un debito da saldare. Non un debito scritto su carta, ma uno inciso nella carne e nell’anima: un errore giovanile, una colpa passata che lo Stato aveva deciso di condonare in cambio di servizio alla patria. E lui, con la grazia in tasca e un cuore pesante, aveva detto sì.
Aveva combattuto nelle trincee fangose del Carso, tra i monti dell’Isonzo e nei silenzi agghiaccianti del Piave. Aveva visto morire amici e nemici, aveva perso il conto dei giorni, aveva imparato a dormire accanto ai cadaveri e a temere più il silenzio di una mitraglia che l’urlo di un cannone. Ma non aveva mai perso la speranza di tornare. Di tornare a casa. Di tornare uomo libero.
Quel mattino di novembre, con la divisa sgualcita e le mani ruvide, Vincenzo scese dal treno tra i fischi del vapore e i pianti sommessi delle madri. Non c’erano fanfare ad accoglierli, solo occhi increduli e abbracci trattenuti. Camminò lungo la strada sterrata che portava al paese, riconoscendo gli alberi e le curve come si riconosce il volto di un vecchio amico.
E quando vide il profilo della casa, il cuore iniziò a battergli più forte. Sul portone, sotto la pioggia leggera, lo aspettava Assunta. Non era più la ragazza che aveva lasciato, ma era la stessa donna che gli aveva giurato amore eterno. Gli corse incontro senza una parola, e lo strinse forte. Dietro di lei, i fratelli, il suocero con gli occhi lucidi e le mani tremanti.
E infine, tra le braccia della madre, c’era lui: Umberto.
Vincenzo lo guardò per un lungo istante, come si guarda un miracolo. Non lo aveva mai visto prima. Il bambino aveva lo sguardo vispo e limpido, e un sorriso timido che sembrava racchiudere tutta l’innocenza del mondo. Quando si avvicinò, Umberto allungò la mano e la posò sulla giacca del padre.
«Papà?» chiese piano, come se quella parola potesse ancora spezzarsi nel vento.
Vincenzo si inginocchiò, lo prese tra le braccia e pianse. Pianse senza vergogna, senza paura. Era tornato. Era un uomo libero. Senza macchia, con onore. Aveva combattuto non solo per la patria, ma per quel bambino, per tutti i bambini del Regno d’Italia. Perché potessero crescere in un domani migliore.
E in quell'abbraccio, tra le lacrime e il calore di casa, Vincenzo capì che la guerra era finita davvero.
Quando il sole cominciò a spuntare oltre le colline dorate della campagna, Vincenzo si fermò un istante sulla soglia della masseria. L’aria profumava di terra bagnata e di ulivi, e in quel silenzio carico di promesse si sentì, per la prima volta dopo anni di tumulto, finalmente in pace.
Era il 1920. La guerra era finita, il sangue si era asciugato sulle pietre e le urla si erano perse nei vicoli della memoria. Vincenzo, un tempo guappo rispettato nei quartieri spagnoli di Napoli e poi soldato tra le trincee, aveva scelto la vita. Aveva scelto la sua famiglia.
Suo suocero, un uomo fiero e burbero, ormai vecchio e piegato dall’età, gli aveva lasciato le chiavi della masseria, come a dire: “Adesso tocca a te.” E lui, con onore e sudore, accettò.
Ma non era solo. L’amnistia del 1919 – un dono inatteso di pace – aveva graziato anche i suoi fratelli. Uomini segnati da un passato difficile, ora tornati liberi. Insieme cominciarono a ricostruire. Piantarono viti, curarono ulivi, allevarono bestiame. La masseria, un tempo luogo dimenticato e spoglio, rifiorì come una pianta salvata dalla siccità.
Vincenzo era un uomo d’onore, sì, ma anche un uomo giusto. Aveva sepolto il coltello del guappo sotto la terra rossa della campagna, e con le stesse mani che un tempo avevano combattuto, ora accarezzava il volto del figlio e seminava speranza nei campi.
Eppure, Napoli lo chiamava. Ogni mese, come un rito sacro, caricava un carro con generi alimentari: farina, olio, pane, legumi. Lo faceva in silenzio, senza clamore. Attraversava le campagne e tornava nei vicoli dove un tempo comandava, ma stavolta non per imporsi, bensì per donare. I bambini lo aspettavano, le madri lo benedicevano, e i vecchi lo chiamavano per nome.
— È tornato on Vincenzo! — gridavano.
— Che Dio te ne renda il doppio, figlio mio — sussurravano le vecchie col fazzoletto nero.
Non volle più nulla da quella città, se non il sorriso dei poveri. Era la sua penitenza e il suo premio. La sua redenzione.
Morì vecchio, nel suo letto, con la fronte accarezzata dal sole che entrava dalla finestra della masseria. Sotto il cuscino, una foto sbiadita dei fratelli, e nel cuore l’eco lontana delle voci di Napoli.
Ma nel quartiere nessuno lo dimenticò mai.
Sui muri, accanto a San Gennaro, una scritta apparve in vernice rossa, semplice e incancellabile:
“On Vincenzo per sempre.”
Storia ispirata a fatti realmente accaduti
Nomi, personaggi, e luoghi sono il frutto della fantasia dell 'autore.
Prefazione
Ho voluto raccontare la Napoli post-unitaria, una città dimenticata dalla politica e caduta nelle mani di una spietata "Onorata Società" che si sostituì allo Stato. È la storia di una Napoli malfamata e tormentata da epidemie e briganti, dove i sentimenti anti-unitari erano alimentati da un'organizzazione criminale che controllava ogni cosa all'ombra della sua bandiera.
Questo racconto si immerge nel profondo animo del guappo, svelando i suoi rapporti con la gente, il suo modo di pensare e le regole sociali di fine '800 che governavano la vita quotidiana.
È anche la storia amara di una guerra sanguinosa, combattuta da soldati per lo più poveri che, oltre a subire il terrore del fronte, dovevano fare i conti con l'incomprensione di una lingua italiana a loro sconosciuta.
Alla fine di questo percorso, si comprende che l'unità sotto un'unica bandiera può essere la via migliore, a patto di preservare e onorare le tradizioni locali. Perché l'Italia, in fondo, non è che l'insieme di tanti piccoli staterelli, ognuno con un'anima unica, che si uniscono per formare un'identità più grande.
Il romanzo è stato originariamente pubblicato e registrato su Wattpad.com
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