
Storia tratta da avvenimenti realmente accaduti
- Massimo
Brandi -
Gli ultimi
scugnizzi
Napoli, anni '80. Una città che fatica a rialzarsi, dove la polvere del terremoto ha lasciato il posto a un dolore più profondo. È qui che il destino di Giovanni si lega a quello degli scugnizzi del suo quartiere. I suoi genitori, convinti che quella sia l'unica via per un futuro, lo spingono verso un mondo fatto di stenti e difficoltà, lontano dai loro sogni.
Ben presto, l'apparente libertà si scontra con una realtà brutale. A guidarlo c'è Franco, il più grande e saggio; a fargli compagnia c'è Ciccillo, senza una guida familiare, e la povera Ninetta. Insieme affrontano gli anni più difficili, fino a quando una tragedia inaspettata segna per sempre il loro cammino. Giovanni sarà costretto a cambiare, a voltare pagina, e a cercare Ninetta in una periferia difficile, per dimostrare che anche tra le macerie può nascere una nuova vita.
Capitolo I - La vita a Napoli
C’è un detto che dice “vedi Napoli e poi muori” un
detto estremo per ribadire che Napoli è unica e affascinante, già per la
sua posizione sul magnifico golfo. Napoli è bella ma piena di
contraddizioni con il suo ritmo di vita si differenzia enormemente dalle
città del nord. Rappresenta il mezzogiorno d’Italia, qui prevale un modo di
vivere del tutto diverso, amata dai suoi cittadini più di ogni altra cosa,
ha aspetti bizzarri e duri, grotteschi e gentili. I Napoletani sono un
popolo allegro, riescono a essere ironici anche nei momenti più critici. Ci
sono 2500 anni di storia che la città di Napoli può raccontare. Una
Caratteristica del Napoletano medio è che è molto amichevole e aperto a
socializzare con chiunque senza badare a nulla. La lingua Napoletana
parlata in città è diversa da quella parlata nelle cittadine periferiche,
ogni cittadina si distingue dall’altra che a sua volta si distinguono dalla
città di Napoli, la base linguistica è simile ma la cadenza e alcune parole
sono diverse. I Napoletani non prendono mai sul serio nulla, anche la cosa
più drammatica viene presa con leggerezza e ironia, non si sa se è un
pregio o un difetto. Non manca l’arte di improvvisare e improvvisarsi con
molta creatività e istinto i Napoletani riescono in tante cose, l’istinto
della sopravvivenza li porta a essere molto creativi e ingegnosi, si fanno
furbi in tutto. Nel contesto Popolare Napoletano la famiglia è il valore
assoluto della propria esistenza, è un amore smisurato che va oltre ogni
cosa, i genitori non negano nulla ai figli, la negazione viene percepito
come un gesto di non affetto e per questo gli si permette tutto crescendo i
figli in modo errato.
Le figure più emblematica sono Pulcinella, Partenope e gli scugnizzi questi
ultimi hanno rappresentato l’anima della città. Lo scugnizzo è un monello
di strada; il termine risale al 1895, proviene dal latino
"execuneare" (rompere con forza). Nella cultura popolare
napoletana, nonostante sia spesso impertinente e ineducata, viene ricevuta
come simpatica e positiva. Oggi lo scugnizzo non esiste più, è solo inteso
come inno alla napoletanità, all'arte di arrangiarsi e soprattutto di
riuscire a divertirsi sempre e comunque. La Napoli che vi raccontiamo è
quella dal post terremoto (1980) in poi con usanze e stile di vita del
popolo Napoletano e degli scugnizzi. In quegli anni, tra gli adulti c'era
un alto livello di analfabetismo e c'erano ragazzi che non andavano a
scuola e di conseguenza non sapevano né leggere né scrivere. Gli unici
organi che cercavano di spingere i giovani allo studio erano i parroci. Con
le loro parrocchie organizzavano giochi ricreativi e doposcuola gratuiti. Oltre
a loro vi erano anche associazioni culturali che facevano cose analoghe
senza alcuno scopo di lucro, indirizzando i ragazzi verso iniziative
sportive e sociali. Cercavano di ricreare regole sociali basate sul
rispetto reciproco e sull'onestà. L'attaccamento alla vita da scugnizzo era
alto; più si andava avanti e più in loro cresceva un vero e proprio odio
per lo studio e per la scuola. Era un odio dettato dal fatto che rappresentava
un qualcosa che avrebbe potuto toglierli dalla strada e portarli in una
dimensione ignota o inadeguata. I ragazzi che andavano a scuola a studiare
venivano presi in giro e bullizzati perché giudicati inferiori e incapaci
di affrontare la "strada". Erano terrorizzati, appena
incontravano gli scugnizzi scappavano, cercavano di mettersi in salvo,
venivano inseguiti da un branco finché non venivano raggiunti e picchiati.
Quando un genitore di un povero ragazzo preso a botte andava a lamentarsi
dai genitori degli scugnizzi, gli veniva risposto con la solita frase:
<<Invece di lamentarti insegna tuo figlio a difendersi, questo è un
mondo crudele.>> Queste parole rafforzavano il loro credo, anche il
povero genitore era costretto ad andarsene senza nemmeno replicare. È un
po' come la legge della giungla: il debole soccombe al cospetto del più
forte. Da piccoli già fumavano la sigaretta, era un modo per crescere più
del tempo e mostrare la loro maturità. Non si chiamavano tra di loro per
nome, ad ognuno era dato un soprannome con un criterio di carattere
estetico e non solo. Il soprannome era un marchio che veniva impresso a
ciascuna persona che lo accompagnava fino all'ultimo
giorno della propria esistenza, addirittura anche sui manifesti del
defunto veniva inserito seguito dal nome e cognome.
Per questo bisognava essere svegli e prepotenti per poter ricevere un
soprannome che rappresentasse forza e coraggio, mentre per gli altri meno
svegli i soprannomi erano spesso ridicoli. A volte il soprannome veniva
anche dato come eredità, ad esempio, se un genitore avesse avuto un
soprannome a volte sarebbe stato ceduto al proprio figlio. Oppure veniva
dato in base ad un episodio capitato, o alla somiglianza con un personaggio
famoso, o per mestiere, addirittura anche la somiglianza ad un animale.
Quelli più noti erano: 'o nasone (dal naso pronunciato), 'o russ (dai
capelli rossi), 'o cines (dagli occhi a mandorla), 'o luong (dall'altezza)
oppure 'o curt (dalla scarsa altezza). Bisognava in ogni modo evitare il
soprannome ridicolo per non essere derisi da tutti per tutto il resto della
vita. Per questo gli scugnizzi si davano da fare per compiere azioni dove
potessero ostentare la propria cazzimma e prepotenza, sì la prepotenza era
quello che serviva per garantirsi il rispetto quando ci si rivolgeva a
qualcuno, il tono della voce doveva essere alto e deciso e mai gentile. Non
tutti riuscivano a fare ciò, quelli meno capace finivano per vivere
un'esistenza sottomessa nei confronti degli altri scugnizzi. C’erano alcuni
che per puro caso non gli venivano dati i soprannomi ma venivano usati i
vezzeggiativi tipo (Enzo Enzuccio, Franco Francuccio, Pino Pinuccio ecc.)
Per questo solo quelli più svegli potevano recarsi agli incroci delle
grosse arterie stradali per pulire i vetri delle auto ferme ai semafori.
Quello che oggi vediamo fare spesso da extra-comunitari o mendicanti, prima
veniva fatto dagli scugnizzi. Ci si organizzava con secchi e tergi vetri.
Era abbastanza redditizio; le persone in auto erano più propense a dare una
moneta da 100 o 200 lire a quel ragazzino tutto sporco e spettinato che
magari potesse essere un proprio figlio o nipote. Sapevano bene che quel
denaro serviva alle famiglie per mangiare, quindi l'offerta era più
spontanea. Il Natale per i Napoletani era un periodo magico, era l'attesa
della nascita di Cristo che veniva celebrata con molto interesse dalle
proprie famiglie. Per gli scugnizzi era finalmente il momento di ricevere
abiti nuovi e i tanti attesi giocattoli dalla Befana, insieme alle calze
colme di dolciumi. In quel periodo a tavola c'era abbondanza di cibo, si
potevano mangiare gli struffoli, i mustaccioli, i roccocò, le cassatine e
tante altre cose. Il tutto veniva consegnato da un signore che già un anno
prima faceva il giro per le abitazioni che per loro volontà aderivano a
questa iniziativa. Raccoglieva 1000 lire al giorno e accumulava 365 000
lire. Questo denaro veniva speso da questa persona per acquistare generi
alimentari per Natale e Pasqua come salame, prosciutto, panettone e spesso
aggiungeva a questi un regalo come una tovaglia natalizia o una coperta.
Questa persona si dotava di tanta pazienza e ogni sera faceva il giro di
tutte le abitazioni. Purtroppo, c'erano famiglie che non avevano la
disponibilità economica per fornire le 1000 lire, per cui nonostante non si
arrivasse alle 365000 lire, ricevevano ugualmente i generi alimentari,
ovviamente in proporzione minore. In ogni quartiere popolare della città
questa figura non mancava, ovviamente quest'ultima ci guadagnava perché
riusciva a comprare grosse quantità e otteneva sconti. I prodotti non erano
tutti industriali: il prosciutto, le uova, le salsicce, la carne e tante
altre cose venivano acquistate da agricoltori, masserie e caseifici della
provincia. Erano piccole attività spesso a conduzione familiare che
producevano nelle loro aziende questi prodotti con passione e
professionalità. Anche il vino, non era quello industriale, era vino messo
in una bottiglia vuota, magari di acqua minerale riciclata, e chiusa con un
tappo di plastica con nessuna etichetta. Non c'era bisogno di scrivere
nulla, bastava un sorso per capire che era vero vino. Di solito questo
signore veniva a consegnare per Pasqua, in un giorno casuale, mentre a Natale
con precisione il 23 dicembre sera. Ogni famiglia si faceva trovare al
completo: era un evento emozionante e tanto atteso. Insomma, era l'unico
momento dove una famiglia popolare napoletana poteva nutrirsi in modo
adeguato. Si dava importanza al presepe, l'albero di Natale non era molto
di usanza, o meglio: veniva fatto ma messo in secondo piano. Spesso
accadeva che le lucine dell'albero di Natale non funzionassero
correttamente, e contrariamente a quanto fatto oggi, non venivano
immediatamente buttate e sostituite, ma anzi venivano controllate una ad
una e si individua la luce difettosa: veniva acquistata e sostituita.
Ciò che aveva priorità assoluta era il presepe. Ogni anno con grande
passione e dedizione si aggiungevano pastori nuovi oppure qualche casetta
o, meglio, veniva allargato aggiungendo un altro pezzo. Si metteva il
muschio, il sughero e i pastori.

Anche questi non erano industriali, ma artigianali. Si andava a San
Gregorio Armeno e si sceglieva quello che serviva. Avevano costi abbastanza
elevati, ma erano di buona fattura e duravano tantissimi anni. Ogni
scugnizzo aiutava i propri genitori o nonni a preparare il presepe e
l'albero. Era bello farlo, si sentiva un'atmosfera natalizia, una vera e
propria magia che
incantava tutti sembrava di vivere in un sogno fatato, quel clima che mai
dimenticheranno lo sentivano profondamente nello spirito e nell’anima. Una
volta completato il presepe si poneva sul mobile in bella mostra, senza il
bambin Gesù, che poi veniva aggiunto la sera della vigilia. Tutta la
famiglia aspettava quel momento per commemorare la nascita di Cristo. Nel
giorno dell'epifania venivano aggiunti i Re Magi. Di Babbo Natale si
parlava poco, non c'era l'usanza del regalo sotto l’albero o, meglio, non
tutti la praticavano: il Natale era un evento religioso dove la famiglia si
riuniva e festeggiava. Per i doni ci pensava la befana: la notte del 5
gennaio uno dei due genitori si copriva con coperte e fingeva di essere la
befana per deporre i doni accanto al letto dei propri figli con le calze.
Spesso i genitori chiedevano ai propri figli un po' di tempo prima quale
giocattolo preferissero. Se la spesa fosse stata sostenibile si sarebbe
potuto esaudire la richiesta, altrimenti si passava a dei giochini che oggi
sembrerebbero ridicoli. Ma quel poco era tanto, come una bambolina, un
orsacchiotto, un peluche o un set di scopa e paletta in misura ridotta. Le
famiglie si recavano al mercato, lì c'erano negozianti che avevano dei
prezzi migliori rispetto ai negozianti di zona. Solo chi poteva
permetterselo acquistava dai negozianti di zona. A Natale non potevano
mancare gli zampognari, erano pastori che risalivano fin dalle epoche
antiche, si recavano a piedi in città dal proprio paese di montagna e con
addosso una giacca di montone, un mantello nero, un cappello di velluto
decorato con nastri e le zaricchie ai piedi. Andavano in giro per le strade
durante il periodo della novena dell'Immacolata (29 novembre al 7 dicembre)
e della novena di Natale (16 al 24 dicembre) intonando melodie con la
propria zampogna in cambio di offerte di denaro.
Oppure stipulavano accordi con famiglie che allestivano i presepi per
suonare ogni sera davanti alla rappresentazione della natività. A volte si
vedevano suonare vicino alle cappelle, ovvero piccoli altarini situati nei
vicoli popolari di Napoli. All'interno
di esse ci sono figure sante come il volto santo di Cristo o quello della
madonna. Spesso, attorno a queste figure venivano aggiunte immagini dei
defunti del quartiere. La cappella viene gestita dagli abitanti e
commercianti del quartiere che tramite una raccolta di fondi pagano le
spese di manutenzione e utenze.
Le cappelle sono sacre, hanno un alto valore spirituale per i napoletani. Agli
scugnizzi era proibito avvicinarsi: guai se uno di loro avesse rubato
qualche candela o altro, avrebbe ricevuto una dura punizione dai propri
genitori. Il fascino degli zampognari li lasciava incantati e stavano lì ad
ascoltare i loro suoni e a seguirli in tutte le loro tappe. Oggi gli
zampognari sono quasi estinti, qualcuno se vede ancora, ma non suscitano
più l'interesse delle persone di un tempo.

Un altro momento tanto atteso erano i botti
di Capodanno, un momento bellissimo perché sparare i botti piaceva a tutti
e questa passione veniva trasmessa anche ai propri figli. Oltre ai botti
legali come i "bengala", le candele elettriche e i razzi c'erano
anche quelli illegali come i "tricchi tracchi", le cipolle, i
rendini, le botte a muro e le batterie napoletane. Tutti questi articoli
venivano prodotti in laboratori abusivi e a volte anche in casa.
Agli scugnizzi ignari di tutto non veniva raccontato che erano botti
illegali e cioè pericolosi, ma anzi venivano esaltati, sembrava quasi che
chi li utilizzasse avesse un qualcosa in più e per questo allo scoccare
della mezzanotte del 31 dicembre tutte le famiglie sparavano, anche quelle
più bisognose, a costo di chiedere soldi in prestito. Bisognava mettersi in
competizione con altre famiglie del quartiere, bisognava sparare più fuochi
di tutti, forse per dimostrare di essere i migliori, forse per coprire una
condizione economica disastrosa, chissà. Ma alla fine erano sempre i più
facoltosi che finivano per ultimi di sparare i botti, di solito, fino
all'una di notte. C'erano famiglie che spendevano anche milioni di lire per
quest'evento. I botti venivano comprati alle tante bancarelle abusive
realizzate in legno con tettoia disseminate in tutta la città, in quel
periodo i napoletani si organizzavano a rivendere botti. Si sentivano
rumori assordanti nei vicoli stretti, venivano sparati veri e propri ordigni.
E già dopo 15 minuti si iniziavano vedere ambulanze o automobili che
trasportavano i propri cari all'ospedale. Purtroppo, le persone perdevano
le dita, alcuni la mano intera o altri addirittura un occhio: una vera e
propria strage, ma nel nome della tradizione bisognava sparare tanto e a
lungo. Agli scugnizzi veniva insegnato a sparare la "cipolla",
che è pari ad un ordigno. L'adrenalina era tanta. C'erano famiglie che si
disfavano di cose vecchie in quest'occasione: lanciavano dalle finestre
mobili, tavoli, sedie e addirittura sanitari, direttamente su strada. La
mattina successiva i vicoli sembravano campi di battaglia, c'era di tutto a
terra. I piedi affondavano nei botti e qui iniziava un'altra pratica molto
pericolosa: quella di recuperare botti inesplosi per poi riutilizzarli.
Spesso erano botti che non erano esplosi perché difettosi, e nel tentativo
di recuperarli venivano feriti. Gli scugnizzi pensavano di giocare ma non
si rendevano conto che era una cosa pericolosa. Nessun adulto proibiva
questa pratica, anzi, spesso incitavano i propri figli a cercare quanti più
botti possibile. A Napoli non è raro vedere uomini di una certa età con
articolazioni mancanti, questi sono testimonianza degli scugnizzi di un
tempo. Sì, perché uno scugnizzo si porta con sé le conseguenze della
propria vita, di tante pratiche errate compiute da ragazzino.
Un'altra pratica pericolosa era lo scippo: a Napoli erano molto frequenti,
c'erano famiglie che per mancanza di lavoro e anche per una concezione
distorta della vita, imponevano ai propri figli scugnizzi di compiere
furti, borseggi o scippi. Bisognava portare qualche soldo a casa. Così si
passava all'azione: cioè, tra gli scugnizzi c'erano quelli più estremisti e
quelli più tranquilli. I più estremisti rubavano, mentre i più tranquilli
si limitavano a rubare una bottiglia di gassosa al vinaio sotto casa. Si
organizzavano e si organizzano tutt’oggi le “tombolate” di solito in una
abitazione oppure in un locale, si raggruppavano un certo numero di persone
principalmente anziane giocavano a tombola, per creare i tasselli da
puntare i numeri usciti dal Panariello si rompevano vecchi piatti in
ceramica in tanti pezzettini, ogni cartella aveva un costo e chi faceva
tombola vinceva un premio in denaro, chi organizzava la tombolata riusciva
a guadagnare qualche soldo trattenendo una piccola somma sulla vincita,
vendevano sigarette di contrabbando e la tazza di caffè a prezzo modico.
Era un micro-commercio che faceva comodo a chi organizzava e anche a chi
giocava perché con piccole somme avevano un posto dove trascorrere ore
liete e in inverno un posto caldo. Il giorno di San Giuseppe (19 Marzo) nel
piazzale ai piedi del castello “Maschio Angioino” si organizzava la
fiera degli animali, i venditori mettevano in mostra i loro animali, cani,
gatti, pulcini, papere, uccelli ecc. i Napoletani si recavano lì per
comprare il proprio animale di compagnia a buon prezzo, oggi questo mercato
non avviene più perché molti animali venivano trattati male, alcune
pratiche erano quelle di accecare gli uccelli per farli cantare di più e
quello di verniciare con bombolette di pittura i pulcini per renderli più
piacevoli agli occhi degli acquirenti.
Ai tempi come oggi si usava che il nipotino nato doveva avere il nome del
nonno paterno, era un usanza tramandata in generazione era un segno di
rispetto nei riguardi del nonno, la mancata assegnazione del nome
significava un affronto gravissimo che difficilmente si risanava, rimaneva
un marchio indelebile. Anche se il nonno avesse un nome poco piacevole il
figlio e la nuora o la figlia e il genero dovevano per forza rispettare
questa tradizione.
Anche la musica ha la sua importanza a Napoli, come ben sappiamo le canzoni
Napoletane sono famose in tutto il mondo, canti d’amore e melodie favolose,
poi c’erano i giovani cantanti dell’epoca quelli emergenti e più famosi
erano Nino D’Angelo, Carmelo Zappulla, Gigi Finizio, e Patrizio,
quest’ultimo mori per droga nel 1984, le canzoni di questi cantanti erano
d’amore e spesso strazianti, il pubblico piaceva commuoversi e aveva
bisogno di parole di speranza, il terremoto del 1980 trascinò il popolo
napoletano nel baratro per cui c’era voglia di ascoltare musica del genere
per cui i cantanti si adattarono subito ai gusti del momento. Il
corteggiamento era di gran voga ai tempi, la donna piaceva essere
corteggiata con lettere d’amore, con sguardi e con gesti dimostrativi,
l’attesa era lunga per poter organizzare una prima uscita era come un test per
vedere se l’uomo era veramente innamorato, più c’era attesa e più la
dimostrazione d’amore era palese. La prima uscita avveniva in luogo
pubblico e spesso la ragazza veniva accompagnata da un fratellino o
sorellina piccolo che controllavano i loro atteggiamenti che dovevano
essere sobri e composti. Il primo bacio avveniva dopo un altro lungo
periodo d’attesa e il primo rapporto sessuale spesso avveniva dopo le
nozze. Nella cultura popolare Napoletana c’è un rapporto molto distante al “lavoro”,
infatti, per questo il termine “a fatic” che vuol dire il lavoro tradotto
in napoletano. La fatica è già da sé la vera espressione di come i
napoletani considerano il lavoro e proprio per questo si va alla ricerca
dei lavori abusivi e non, dove bisogna stare seduti a non far nulla, alcuni
lavori del genere sono: parcheggiatori, garagisti, portinaio, custode ecc.
sono i lavori più ambiti dai Napoletani, il
fatto di guadagnare soldi seduti a una sedia è il loro obiettivo primario.
Anche il linguaggio è cambiato, molti termini dialettali sono andati persi
nel tempo. Sono termini che quotidianamente si pronunciavano in famiglia,
per strada, nei bar o a scuola. Essere uno scugnizzo è una condizione
imposta dal ceto sociale al quale si appartiene. Diventa come una divisa.
Sì, una divisa della quale si era orgogliosi, non se ne poteva fare a meno.
La strada insegnava anche a difenderti e a non fidarti di nessuno, ad agire
d'istinto solo allo scopo di garantirti la sopravvivenza. Gli scugnizzi
erano organizzati in bande, di solito c'era l'appartenenza ad un vicolo o
ad un raggruppamento di vicoli che si definiva zona. Ogni banda era rivale
ad altre bande e spesso non era possibile entrare nella loro zona
altrimenti si rischiava di essere picchiato o inseguito fino al proprio
territorio. Ogni banda aveva il proprio “Capobanda” era quello più sveglio
o quello più grande di età, comandava e disponeva di ordini verso i suoi
scugnizzi, aveva sempre due o tre seguaci stretti, stavano sempre insieme e
prendevano decisioni importanti insieme. Gli scugnizzi furono protagonisti nel
1943 contribuirono a scacciare i tedeschi da Napoli nelle famose 4 giornate
mostrarono tutto il loro coraggio si batterono con mezzi di fortuna e armi
per questo nella città di Napoli c’è un monumento in loro onore.

Lo scugnizzo degli anni 80 non era molto
differente da quello di fine 800, anch'egli aveva abiti lacerati, le scarpe
in cattive condizioni e non avevano le coppole sul capo.

Le famiglie erano numerose, si arrivava fino
ad un numero di tredici o quattordici persone; tante bocche da sfamare per
il capo famiglia che solitamente non riusciva a portare abbastanza soldi
poiché spesso costretto a fare lavori saltuari o sottopagati. Non era consentito
chiederei propri diritti perché nella cultura napoletana il padrone che
offriva un lavoro, anche se misero, era considerato un benefattore e il
lavoratore doveva ringraziarlo ogni giorno, a volte anche costretto a
baciargli le mani tutti i giorni, quasi come un Dio. Molti commercianti e artigiani
avevano atteggiamenti camorristici nei riguardi dei propri dipendenti, i
quali subivano inconsapevoli di essere sfruttati e malpagati. L’omertà è
sempre regnata sovrana nel contesto popolare Napoletano, tutt’oggi è ancora
in parte praticata. Per questo molti scugnizzi lasciavano la scuola
per vivere per strada, alcuni sceglievano di andare a lavorare laddove
serviva manodopera da sfruttare ma rischiavano di essere espulsi dalla
banda perché era proibito lavorare. Avevano come primo comandamento la
libertà, sì quella libertà vissuta per strada senza dover avere un padrone
o un’istituzione che potesse limitarla. C’erano famiglie che vivevano in
piccoli bassi, sono piccole abitazioni a pian terreno, parliamo dai venti
ai quaranta metri quadrati e in qualche caso ci vivevano fino a quindici
persone in piena promiscuità. Le condizioni igienico-sanitarie erano
precarie, la carta igienica veniva usata solo per chi poteva permetterselo,
gli altri usavano quotidiani oppure pezzi di stoffa, qualcuno non
aveva l'energia elettrica e a tanti mancava l'acqua calda e il riscaldamento:
si lavavano in acqua scaldata in cucina e utilizzavano il sapone solido e
in inverno per riscaldarsi utilizzavano i loro stessi corpi oppure il
"rasiero" ovvero un attrezzo in lamina di ferro al quale interno
si lasciavano bruciare dei pezzetti di legno per poter diffondere il calore
necessario. Le famiglie che abitavano nei “bassi” nel periodo estivo erano
costrette a tenere la porta aperta tutta la giornata perché unica apertura,
ed erano costretti a mettere una tavoletta di legno a terra per impedire
che qualche topo potesse intrufolarsi in casa.

C’erano persone che riuscivano a pettinarsi
con le mani perché non avevano un pettine, con la loro abilità riuscivano a
sistemare la loro capigliatura, In estate il caldo era insopportabile,
esistevano i ventilatori, ma solo per chi se li poteva permettere. C'era
gente che dormiva distesa su sedie a sdraio fuori dalla propria abitazione,
cioè per strada. Lì c'era quel poco di venticello che dava la possibilità
di dormire e di respirare. C'erano anche persone poste di fronte alla loro
abitazione su sedie che guardavano il televisore messo sull'uscio della
porta direttamente dalla strada. La mattina non si faceva la colazione o,
meglio, si beveva una tazza di caffè e per chi era più fortunato, mangiava
pezzi di pane avanzati del giorno prima inzuppati nel latte o addirittura
nell'acqua. Di solito si pranzava verso le ore 13. Si mangiava un piatto di
pasta con il pane. Il pane era importante perché permetteva di saziarsi
totalmente, a sostituto del secondo e della frutta. Alcuni venivano sfamati
dal proprio datore di lavoro, detto "'o mast". Per cena di solito
si mangiava la "marenna"; ovvero un panino farcito con un
contorno. Si beveva acqua dal rubinetto e non esistevano prodotti monouso
come oggi. I tovaglioli monouso non esistevano, c'era un solo strofinaccio
che veniva condiviso con tutti i familiari. Spesso le posate non erano
sufficienti per tutti i membri della famiglia. La bruschetta, quella che
oggi si magia per piacere, allora era un modo per non buttare il pane
stantivo del giorno prima ormai indurito, veniva tagliato a fette messo nel
forno per renderlo croccante con pomodorini e uno spicchio d’aglio veniva
una vera e propria squisitezza. Il frigorifero era presente in quasi tutte
le case, ma solitamente era quello piccolo che non era dotato di congelatore.
I negozianti per far fronte alle condizioni economiche della gente
vendevano i prodotti sfusi, era l’unico modo che permetteva di vendere i
propri prodotti, i prodotti sfusi più venduti erano, sigarette, legumi,
dolciumi, olio ecc. La domenica si rispettava la tradizione napoletana: i
più fortunati potevano fare un pasto decente, tutta la famiglia si sedeva a
tavola dalle ore 14 in poi e spesso fino alle ore 21. Parliamo di circa 7
ore dove tutti si raccoglievano attorno alla tavola: si faceva un
abbondante antipasto, primo piatto (solitamente ragù), frutta, dolce, caffè
e noccioline e si ascoltavano le partite di calcio dalla radio. Le pietanze
di cui i Napoletani amano sono la zuppa di cozze, la zuppa di carnacotta.
Nella credenza popolare Napoletana si evince il fatto che bisogna mangiare
tutto e tanto ed essere in carne, cioè in “salute” erroneamente i
Napoletani credono che chi è grasso stia bene in salute e che è magro non
stia bene mentre in realtà e il contrario, chi è grasso rischia la vita
tutti i giorni. Gli adulti giocavano le schedine e anche le "bollette",
chiamate così, erano giocate clandestine che permettevano di scommettere
anche su poche squadre. Grazie ad una quota si sceglievano le proprie
squadre in base a delle percentuali di probabilità. Per poter effettuare
queste scommesse non esistevano punti di riferimento, si andava nei bassi o
negli androni dei palazzi. Si andava da una persona che aveva un blocchetto
e una penna, gli si dicevano le squadre e quest'ultimo le scriveva. Il
blocchetto era in carta autocopiante in triplice copia: una copia andava al
giocatore, una rimaneva all'addetto e l'altro andava all'organizzazione che
gestiva il gioco. Il tutto era gestito dalla camorra e spesso quando il
banco andava sotto con troppe vincite, non veniva saldato alcun pagamento
facendo valere la loro forza. La trovata geniale per evitare il sequestro
dei blocchetti dalla parte delle forze dell'ordine era quella di stampare
pane e vino. Pane significava pareggio e vino significava vittoria. C'erano
anche i "bancolotti": numeri al lotto che uscivano il sabato. Il
cosiddetto "popolino" ci giocava molto in quanto molto
superstizioso, e paradossalmente l'addetto alla compilazione delle schede
(chiamate anche "bollette" o "viglietti") era spesso
una persona analfabeta. A volte lo scommettitore era costretto a
scrivere personalmente la scheda, in quanto l'addetto era incapace. Il
fatto che la camorra si servisse di queste Persone Analfabete era dato dal
fatto che queste ultime erano ignoranti e bisognose per cui erano più
semplici da sfruttare e sottopagare. La gente preferiva non sottoporsi a
visite mediche preventive, si affidavano alle preghiere ai santi (Madonna,
Gesù, San Gennaro, San Giuseppe Moscato, Madre Flora) chiedendo protezione
o grazia ma spesse volte quando si sentivano male e andavano in ospedale
ormai era troppo tardi. C’era una forte devozione per San Giuseppe Moscato,
il medico che aiutò il popolo Napoletano vendendo tutti i suoi beni. C’era
e c’è tutt’oggi la cultura di appropriarsi degli spazi e delle cose comuni
quasi come se fosse una cosa normale; infatti, nei vicoli si possono vedere
paletti in ferro che vengono fissati a terra in strada pubblica e bloccati
con un lucchetto per occupare il proprio posto auto, ovviamente in modo
abusivo. Gli scugnizzi usavano abiti in cattive condizioni. I vestiti spesso
venivano condivisi e tramandati tra fratelli e sorelle oppure a parenti,
nulla veniva buttato. C'era la cultura della riparazione: il pantalone
bucato veniva rattoppato, la scarpa rotta veniva aggiustata grazie ai
ciabattini che con la loro arte riportavano a nuovo le scarpe. Si faceva
attenzione a non rompere e non sporcare nulla. Il rapporto con i genitori
era diverso da quello di oggi: il genitore era una figura autoritaria, e
guai contraddirli. C'era ancora qualcuno che dava del "voi", come
si usava anni prima. Agli uomini, al raggiungimento dei 50 anni, veniva
posto davanti al loro nome l'appellativo di "On". Ad esempio:
"Onn’Antonio". Invece alle donne veniva posto "Onna",
ad esempio: "Onna Carmela". Il saluto è importante e segno di
“rispetto” il più giovane d’età deve per prima salutare quello più grande e
come il caffè, nelle case Napoletane viene sempre offerto a chiunque e mai
“rifiutare” viene percepito come gesto di mancato rispetto. Non era di
certo un titolo nobiliare, era semplicemente un segno di rispetto nei
confronti della persona adulta. Guai a non chiamarli in questo modo, il
giovane veniva rimproverato per il fatto che non avesse mostrato rispetto.
Prendeva la cosiddetta "cazziata" (rimprovero) o addirittura uno
schiaffo. Questo affronto veniva comunicato ai genitori del giovane che a
loro volta provvedevano a richiamare il ragazzo. L'uomo adulto era quello
che insegnava la vita agli scugnizzi; insegnava tecniche di combattimento
corpo a corpo, cosa molto importante. L'adulto spiegava in modo molto
chiaro come e con quale tecnica affrontare l'avversario nel caso di una
rissa e tutte le tecniche di sopravvivenza. Durante un combattimento era
vietato tirare i capelli, definito un atto da femmine. Chi lo faceva, anche
se avesse avuto la meglio, sarebbe stato punito anche dagli stessi amici. Quando
due scugnizzi si affrontavano, nessuno doveva intervenire: si guardava, si
incitava ma guai ad intromettersi. C'era un vero e proprio codice di vita
che bisognava rispettare, altrimenti si veniva esclusi. La strada imponeva
delle regole e bisognava osservarle con scrupolosità. Queste regole avevano
in sé omertà, violenza e sopraffazione. Quando arrivava il carnevale c'era
una vera e propria guerriglia tra i vicoli. C'era l'usanza di rompere le
uova in testa all'avversario. Chi non aveva la possibilità di comprare le
uova, che costavano 100 lire cadauno, era costretto a restare chiuso in
casa per almeno un paio di giorni per non rischiare. Agli scugnizzi non
mancava la voglia di vivere nonostante i tanti disagi. Ogni giorno era
un'avventura, come la "guainella". Consisteva in lanci di pietre
tra due bande di scugnizzi, ovviamente per strada o in luoghi isolati.
Le due bande si trinceravano indietro a qualsiasi cosa. Lanciavano pietre
verso i propri avversari. Quelli che venivano colpiti andavano in ospedale
o a casa loro per farsi medicare. Gli scugnizzi più piccoli lavoravano in
seconda linea, tipo guerra. Fornivano le pietre a quelli della prima linea.
Alla fine, vinceva la banda più numerosa. I pochi perdenti scappavano.
Purtroppo a volte venivano colpiti malcapitati che si trovavano a
transitare nella zona della guerriglia ignari di tutto ciò. Spesso queste
guerriglie si svolgevano per imporre la propria forza, per dire "siamo
più forti noi", oppure per contendersi un vicolo o un pezzo di strada.
Il 17 gennaio avveniva, e ancora oggi in scala molto ridotta, il
"Cippo di Sant'Antonio". Era un vero e proprio rito di origine
borbonica fatto per onorare il santo protettore degli animali e per
purificare l'anima degli spiriti maligni. Tra fede e storia e culto sacro,
ogni anno a Napoli e provincia si accende la fiamma della tradizione. Si
utilizzavano tutti gli alberi di Natale naturali della quale le persone si
disfavano dopo le feste natalizie. In quest'occasione gli scugnizzi
andavano a ritirare già dal 6 gennaio gli alberi presso le abitazioni. Ogni
banda si organizzava come meglio poteva nella propria zona per raccogliere
il maggior numero di alberi possibile perché bisognava a tutti costi
accendere "il cippo" più grande di tutti per affermare la propria
forza sul territorio. Spesso gli alberi venivano accantonati in case
abbandonate o luoghi incustoditi e durante la notte a volte avveniva il
furto e venivano sottratti tutti gli alberi conservati con grande dedizione
e sacrificio. Anche se il luogo era segreto c'era sempre la spia che
comunicava alla banda avversaria dove si trovavano. A volte venivano
spostati in fretta e furia un altro luogo considerato più sicuro perché
avvenivano notizie di un'avvenuta "spiata". In qualche caso si
ricorreva a mettere dei piantoni, cioè due scugnizzi a trascorrere tutta la
notte a garantire la custodia degli alberi. Lo spostamento avveniva a
piedi, tirando l'albero per la punta facendolo toccare terra, oppure sul
motorino: la persona davanti guidava e quella seduta dietro trascinava
l'albero lasciando le foglioline a terra quasi a formare una scia che
permetteva alle bande avversarie di capire dove si trovava il posto
segreto. Il 17 gennaio tutti gli alberi venivano portati nello spiazzato
più largo della propria zona. Con grande soddisfazione e orgoglio gli
scugnizzi li trasportavano dopo averli difesi con qualsiasi mezzo e dopo
gli attacchi di guainella. Gli alberi venivano messi uno sopra l'altro e
poi si dava inizio alla fiamma. Gli scugnizzi meno abili delle altre bande,
che non avevano la forza nè di difendere i propri alberi né di impadronirsi
degli altri, si arrangiavano a bruciare mobili vecchi, producendo
ovviamente una fiamma piccola, simbolo della loro forza sul territorio. Una
volta accesi tutti i cippi, ogni banda mandava un emissario a spiare i
cippi delle altre zone. Il cippo veniva guardato non solo dagli scugnizzi,
ma anche da tante persone nelle vicinanze. Insomma, tutti guardavano questa
enorme fiamma che, oltre a dare spettacolo dava anche un po' di caldo che
mancava nelle proprie abitazioni. Esistevano abitazioni adibite a botteghe,
dei "bassi", dove veniva venduto di tutto: dalle sigarette alle
merendine, passando per i giocattoli fino ad arrivare al vino. Si vendevano
addirittura le caramelle sfuse. C'era anche la possibilità di comprare una
singola sigaretta al modico prezzo di 200 lire. quando si entrava in questi
bassi, si immaginava di essere in un mondo magico. C'erano tantissime cose buone
poste con estremo ordine. Ogni piccolo spazio veniva sfruttato al meglio,
considerando che le abitazioni non superavano i 40 metri quadrati. Spesso i
proprietari erano donne, vedove o zitelle, che non avevano altre fonti di
sostentamento. Indossavano sempre quei grembiuli e non gli mancava mai il
filo di barba sul volto e qualche dente mancante, accompagnato dai capelli
grigi.
Vendevano anche i celebri "numeri dalla cartella", ovvero un
cartellone con sopra stampati i novanta numeri della smorfia napoletana e
c'era una linea accanto ad ogni numero c'era uno spazio con il nome
dell'acquirente. Una volta raggiunta la vendita dei novanta numeri si
aspettava l'estrazione del lotto che avveniva il sabato. Il primo numero
estratto sulla ruota di Napoli era quello del vincitore. Ovviamente, il
premio era in denaro, ma a volte "arriffavano" oggetti utili per
la casa come coperte e set di pentole. I numeri spesso venivano scelti dai
clienti secondo la logica scaramantica. Come tutti sappiamo, i napoletani
sono molto scaramantici: associano ogni evento ad un numero tramite la
smorfia. La smorfia napoletana è una sorta di dizionario nel quale a
ciascun vocabolo corrisponde un numero da giocare. C’erano anche persone
che nel proprio “Basso” lavoravano e vendevano pizze fritte era una vera e
propria bottega. Il giuramento era sacro chi giurava su qualcuno o su
defunti doveva dire la verità, non poteva mentire, il giuramento era una
cosa che veniva osservato con molta serietà e per nessuna cosa al mondo si
giurava il falso, se si fosse stato scoperto si sarebbe rischiato di essere
emarginato. Alcuni scugnizzi venivano reclutati dalla camorra, solo quelli
più svegli, coraggiosi e interessati potevano bussare alle porte di quel
mondo apparentemente bello, lussuoso, ma in realtà con delle regole spietate.
Quelli interessati non erano altro che la versione infantile di un
camorrista, adoravano imitarli e assumere i loro stessi atteggiamenti da
"guappi" e anche il loro modo di gesticolare. Perfino il
linguaggio era simile. La camorra interveniva su qualsiasi atto ritenuto
ingiusto da parte di chiunque, ad esempio se un uomo abusava di una donna
o, meglio, la "sverginava" e successivamente rifiutava di
sposarla, erano sempre loro che lo obbligavano a sposarsi. In qualche caso pagavano
anche le spese di matrimonio, fornendogli un posto di lavoro. In ogni
quartiere della città anche il vento soffiava con il loro permesso. Avevano
il pieno controllo di tutto e godevano del massimo rispetto della gente e
degli scugnizzi. Quando li incontravano gli facevano le reverenze, dovevano
essere sempre i primi a salutare e spesso il saluto non veniva corrisposto,
solo per mantenere quella distanza e per mostrare la loro autorità. E se un
camorrista rivolgeva la parola ad uno scugnizzo, la parola doveva sempre
essere pronta ed esaustiva. Non era difficile riconoscerli, giravano sempre
a bordo di belle moto ed auto, sempre ben vestiti con capi firmati. Mentre
gli scugnizzi, al contrario, erano trasandati, sporchi e spettinati.
Avevano la convinzione che questi uomini fossero la perfezione ed esempi di
vita.
Alcuni scugnizzi, tra i più svegli, venivano utilizzati dalla camorra per
piccoli lavoretti, come trasportare un'arma o droga da un posto all'altro.
Essendo di giovanissima età non erano imputabili, quindi faceva comodo
averli al loro servizio. A volte venivano anche usati come sentinelle. Ai
tempi, era quasi normale vedere persone girare armate. Agli scugnizzi
facevano paura i poliziotti e i carabinieri perché venivano raccontati come
cattivi: quelli che ammazzavano i padri di famiglia colti a rubare. Per una
donna popolana era impossibile innamorarsi di un uomo in divisa: se lo
avesse fatto sarebbe stata esclusa dalla propria famiglia. C'era un totale
distacco verso le istituzioni. Gli scugnizzi quando vedevano auto della
polizia o dei carabinieri ferme in un vicolo, scappavano e qualcuno andava
ad avvertire i camorristi della loro presenza. Questo gesto veniva
ricompensato con un premio che spesso si trattava dell'utilizzo di un'arma
da fuoco. Per mancanza di giocattoli, si utilizzava molto la fantasia per
divertirsi. Alcuni bambini raccoglievano tavole di legno gettate
nell'immondizia, non difficili da reperire in quanto in quel periodo non
era presente la raccolta differenziata e neanche i raccoglitori
dell'immondizia: veniva accumulata in sacchetti su marciapiedi e angoli di
strada, tutto mischiato. Persino scarti di cibo che in estate emanavano un
cattivissimo odore. Queste tavole venivano poste a terra su una strada
ripida in discesa, e vi ci scivolavano a tutta velocità fino alla fine
della discesa per poi risalire in cima e fare un nuovo giro.
Gli scugnizzi di quegli anni amavano tantissimo giocare a calcio per
strada. Spesso venivano interrotte dagli abitanti dei bassi che infastiditi
costringevano gli scugnizzi a spostarsi in un altro vicolo per giocare. A
volte qualche abitante prendeva la cosiddetta "cannola", ovvero
una spartana pompa d'acqua, per bagnare la strada e costringere gli
scugnizzi ad andare via. Per rimediare qualche soldo, a volte, si faceva il
giro delle abitazioni del quartiere per raccogliere le bottiglie vuote di
birra e Coca-Cola. Ai tempi esisteva il cosiddetto vuoto a rendere: per
ogni bottiglia di vetro restituita al commerciante veniva data indietro la
cauzione pagata in precedenza che si aggirava tra le 100 e le 150 lire.
Quelle numerose bottiglie davano la possibilità di racimolare circa mille
lire che gli permettevano di acquistare un gelato, delle patatine o un
pallone per giocare a calcio. Inoltre, si girava tra i salumieri a
raccogliere le ossa di prosciutto ormai spolpate che avevano però ancora
dei pezzetti residui che venivano mangiati. L'osso alla fine veniva dato ai
cani randagi, come i gatti erano molto presenti tra i vicoli di Napoli che
addirittura bloccavano il transito di alcune strade, impedendo il passaggio
ai non residenti, quasi come se fosse un sistema di sicurezza proveniente
dall'istinto del cane stesso. Si faceva anche il giro delle pizzerie in
tarda serata per raccogliere gli avanzi delle pizze invendute che venivano
regalate agli scugnizzi, ai figli di Napoli, figli di una città sofferente
e piena di problemi di natura sociale ed economici. Alcuni genitori
trascorrevano le loro giornate all'interno delle cantine, cantina non
intesa come locale di conservazione di vino, ma come locale commerciale
dedito alla consumazione di vino sfuso. Il cliente vi si recava e poteva
ordinare un bicchiere di vino o un quarto di vino sfuso. Il vino veniva
raccolto direttamente dalle botti tramite un tubo, veniva aspirato
dall'esercente chiamato "cantiniere". L'igiene di questi locali
era molto precaria. Molti uomini adulti passavano in questi luoghi le
giornate intere per ubriacarsi, forse per dimenticare o per sfuggire dai
tanti problemi quotidiani. Nei loro occhi c'era un'aria di rassegnazione,
erano persone che vivevano in sofferenza con la loro esistenza e non era
raro vedere le mogli di questi ultimi che venivano a recuperarli per
riportarli a casa ormai ubriachi fradici. Poco propensi a lavorare. Alcuni
venivano inghiottiti invece dal vortice della droga. All'epoca la cocaina
veniva utilizzata solo da persone facoltose perché troppo costosa, i
napoletani usavano l'eroina in siringa, costava molto meno ma aveva effetti
devastanti. Per procurarsi i soldi per comprarla commettevano furti, rapine
e borseggi. A volte rubavano a persone anch'esse bisognose. Questi venivano
chiamati "'e drogat". Era facile riconoscerli: avevano sempre un
colorito pallido e appena gli scugnizzi rilevavano la loro presenza scappavano
via. Veniva raccontato dai propri genitori che i drogati potevano
anch'essi drogare inserendo le loro pericolose siringhe in ogni parte del
corpo, trasformandoli in persone come loro. Questo fantasioso pensiero
creava molta paura. Nei pressi di alcuni luoghi dove era possibile giocare
tranquillamente a calcio per strada, vi erano veri e propri ritrovi di
consumatori di droga che si riunivano e lasciavano in giro diverse
siringhe. Qualche volta purtroppo gli scugnizzi assistevano a scene
inquietanti come vedere una persona morta a terra con ancora la siringa
conficcata nel braccio. L'ambulanza arrivava e gli scugnizzi restavano
impietriti a guardare la raccapricciante scena. C'era un senso di pietà per
quegli uomini che magari avrebbero potuto avere una vita diversa se
qualcuno non gli avesse offerto quel veleno. La droga era un nuovo business
per la camorra e più drogati c'erano, più i loro affari andavano bene. Per
guadagnare più clienti, la prima dose veniva regalata, e poco dopo si
presentavano le crisi di astinenza che portavano la preda a ritornare ad
acquistare la sostanza. Le prede più ambite erano proprio le persone con
disagi di diverso tipo. Tra le tante sfaccettature della città di Napoli
emergeva una figura detta "l'omm ‘e miez’ ‘a via"(l’uomo di strada)
inteso come uomo autonomo non essendo alle dipendenze di nessuno. Queste
persone, molto carismatiche, erano totalmente autonome e non facevano parte
di nessun gruppo camorristico, ma avevano ugualmente un ruolo subalterno
nei loro confronti. Vivevano di furti e rapine, ma gli veniva proibito di
compierle nel proprio quartiere. Di solito saccheggiavano appartamenti o
negozi. A volte si spostavano in altre città dove la camorra non
aveva controllo e quindi non poteva sapere quanti soldi venissero realmente
ricavati. Avevano ancora un look degli anni 70, capelli lunghi, jeans a
zampa d'elefante, camicia con colli lunghi e tre bottoni sbottonati che
davano vista su una grossa collana d'oro con annesso crocifisso. Si
spostavano su moto di grossa cilindrata e passavano la maggior parte del
loro tempo nei "biliardi". Ovvero sale dove era possibile giocare
a carte o a carambola. Questi personaggi erano molto amati
all'interno del quartiere in quanto spesso aiutavano le persone bisognose
senza chiedere nulla in cambio. Avevano la piena consapevolezza di aver
scelto una vita sbagliata e per questo incitavano i giovani ragazzi a non
prendere il loro esempio. Spesso questi richiami venivano fatti di nascosto
perché contro la dottrina camorristica, che al contrario di loro incitavano
i giovani a stare per strada e delinquere per poi selezionare i nuovi
affiliati. Avevano un fascino irresistibile e tutte le donne al suono delle
loro moto che sfrecciavano nei vicoli, si affacciavano per poterli
guardare. Non erano prepotenti, ma molto svegli. Sapevano bene come vivere
per strada. La maggior parte di loro possedeva una pistola che utilizzavano
solo per rapine o per difendersi. Nelle loro abitazioni quando si sedevano
a tavola spesso si mettevano di fronte alla porta di entrata mai alle
spalle, un gesto che apparentemente sembra innocuo; invece, loro facevano
ciò perché dicevano se qualcuno entra in casa mia per ammazzarmi lo devo
guardare in faccia per conoscere chi fosse il suo omicida. Avevano sul loro
corpo diversi tatuaggi. L'unica cosa in comune che avevano
"l'omm ‘e miez’ ‘a via" e i camorristi erano i tatuaggi. Il
tatuaggio, ai tempi, era segno indelebile di chi aveva trascorso del tempo
in carcere: più tatuaggi erano presenti, più c'era testimonianza di anni di
galera vissuti. Spesso i tatuaggi erano nomi di mogli, figli e genitori.
Quello più comune era il nome della madre. Venivano fatti stesso in
carcere, mentre a chi non era stato in carcere non era consentito tatuarsi.
Non era una legge scritta, ma una legge morale. Quella legge che nei vicoli
di Napoli si osservava più del Vangelo. Il camorrista pretendeva
l'esclusiva anche in questo: li tenevano d'occhio perché temevano che il
loro carisma potesse attirare consensi a loro discapito. Il consenso delle
persone del quartiere era molto importante, era la loro linfa vitale che
gli permetteva di beneficiare di favori, omertà e sottomissione. Era tutto
sotto controllo, anche il traffico di sigarette di contrabbando, più
vendute perché avevano un costo inferiore rispetto a quelle ufficiali,
sotto il monopolio dello stato. Tantissimi napoletani vivevano di sigarette
di contrabbando, c'erano i "contrabbandieri", erano uomini che
con gli scafi raggiungevano le navi fornitrici di sigarette provenienti dai
paesi dell'est. Le navi erano ferme fuori dalle acque territoriali, una
volta avvicinati caricavano le casse a bordo e le riportavano a
terra. Gli scafi avevano motori potentissimi per poter sfuggire nel
caso venissero intercettate dalla guardia di finanza. Spesso durante lo
scontro nasceva un conflitto a fuoco, a volte sfuggivano, ma a volte
qualcuno ci rimetteva e purtroppo qualche famiglia napoletana piangeva il
proprio caro. Spesso il mare faceva la sua parte, le grosse onde
strappavano la vita di molti uomini che si avventuravano in acque per una
mansione molto rischiosa. Quando le sigarette venivano portate a terra,
venivano velocemente smistate e distribuite alle tantissime bancarelle
presenti in tutta la Campania. La maggior parte dei contrabbandieri proveniva
dal borgo Santa Lucia. Era un vero e proprio mestiere e per poterlo fare
bisognava essere svegli e conoscere bene il mare insieme all'uso delle
armi. Questo "lavoro" veniva tramandato di padre in figlio. Tante
persone ambivano a diventare contrabbandieri, perché c'era un ingente
guadagno ma i rischi erano elevati. Purtroppo, la mancanza di lavoro
spingeva sempre più persone a cercare questo tipo di attività. Quando si
definiva una persona malvagia, c'era la credenza popolare che il nostro
signore avesse punito le persone malvagie con difetti fisici, punendoli per
la loro cattiveria. Queste venivano definite "persone segnalate".
Nel contesto popolare napoletano il pettegolezzo regna sovrano in ogni
luogo: casa, botteghe, negozi. A Napoli il pettegolezzo si chiama
"inciucio". Si tende ad esagerare per rendere il racconto più
interessante o per screditare una persona o addirittura si inventano
racconti grazie all'aiuto dell'interpretazione distorta delle parole. Il
racconto man mano che si estende da persona a persona muta. Tutti sanno, ma
nessuno deve sapere. Un tempo c'erano le "capere", donne che
sistemavano i capelli alle loro clienti e raccoglievano gli sfoghi e i
pettegolezzi per poi distribuirli alle altre clienti. Quelle che erano
immuni ai pettegolezzi erano le prostitute. Negli anni 80 queste donne
svolgevano la propria attività nelle proprie abitazioni a pian terreno
(bassi) nei Quartieri Spagnoli, a ridosso di via Toledo. Ce n'erano
tantissime e per farsi riconoscere dipingevano la lampadina esterna alla
propria abitazione di colore rosso. Era il segno tangibile che in quel
punto ci fosse una prostituta. Se la luce era spenta, significava che fosse
occupata, quindi bisognava aspettare e non disturbare. Se la luce era
accesa, era libera per accogliere i propri clienti. La prostituta
napoletana era una donna molto sveglia, abile nei combattimenti,
autoritaria ed imponente. Per questo si evitava di fare pettegolezzi nei
loro confronti. La loro clientela era prevalentemente locale, ma c'erano
anche militari che facevano servizio all'ospedale militare dei Quartieri
Spagnoli che usufruivano dei loro servizi. Ma non solo, anche i soldati
Americani che arrivavano dal porto, spesso accompagnati dagli scugnizzi
facevano visita a queste ultime. Si lavorava col passaparola, e ovviamente,
trattandosi di un'attività illecita, le condizioni igienico-sanitarie non
erano delle migliori. Le prostitute, per esigenze erano costrette a
compiere questo lavoro. Solitamente perché avevano perso i mariti, o per
accumulare tanti soldi in poco tempo per poi sistemarsi per tutta la vita.
Con una decina di anni di prostituzione, molte donne avevano investito nel
settore immobiliare per poi vivere di rendita.
La prostituta che esercitava il proprio lavoro dopo la morte del marito,
veniva giustificata perché secondo l'opinione pubblica, era l'unico modo
che gli rimanesse per vivere una vita normale economicamente. La bellezza
era un punto di forza, più erano belle e giovani e più lavoravano,
chiedendo tariffe maggiori. Gli scugnizzi a volte curiosavano e sbirciavano
all'interno dei bassi in cui venivano esercitati questi lavori. Le
prostitute avevano contatti con la malavita, ma non lavoravano per loro.
Erano delle vere e proprie imprenditrici che vendevano il loro corpo dalle
20 alle 50 mila lire per un'ora d'amore. Non potevano fare a meno dell'uomo
protettore, detto "'o ricuttar"(ricottaro) Il termine descrive un
uomo che vive sulle spalle di un'altra persona. Era una figura
indispensabile, in pratica veniva pagata per garantire assistenza morale e
sicurezza per la prostituta. Come una sorta di body-guard. Il ricottaro era
una persona che risolveva in poco tempo qualsiasi tipo di questione. Questa
figura era solitamente una figura sveglia, di misura imponente. Non aveva
un lavoro vero, veniva pagato in percentuale dalla prostituta. Qualche
volta capitava che una prostituta si innamorasse del proprio cliente, e
decideva quindi di lasciare il proprio lavoro per la vita di coppia. Una
vita di coppia spesso travagliata perché ricca di pregiudizi della gente,
per cui spesso capitava che queste lasciassero il quartiere per spostarsi
in un altro o addirittura lasciassero la città. C'erano donne che
rimanevano vedove molto giovani e preferivano chiudersi nel loro lutto; era
una vera e propria regola sociale che imponeva alla donna di vestirsi di
nero per circa due anni dalla scomparsa del proprio marito. Erano inoltre
obbligate a praticare la chiesa tutti i giorni e ad andare al cimitero
almeno una volta a settimana, senza aver alcun rapporto confidenziale con
alcun uomo. Bisognava camminare con lo sguardo rivolto verso il basso e
rispettare tutte queste regole per mostrare di essere una buona donna. Allo
scadere dei due anni, la donna tornava libera di vestirsi come volesse ed
era autorizzata a frequentare un altro uomo per rifarsi la propria vita, ma
sempre con la dovuta calma. C'erano donne che rimanevano legate a vita al
proprio lutto fino alla loro morte. Erano quelle donne di età avanzata,
nate nei primi del 900, con valori ben diversi dalle giovani donne nate
negli anni 60. Il Rapporto con i defunti al cimitero per i napoletani è
molto sentito, non mancano mai a fare visita propri cari e a riservargli un
posto speciale nei loculi migliori. Negli anni 80 le donne avevano grossi
limiti sociali: non potevano lavorare, né truccarsi, se non in presenza dei
loro mariti. Non potevano dare confidenza ad altri uomini, dovevano uscire
solo per necessità e stare sempre in casa a badare ai figli. Potevano
votare, ma solo su indicazione del marito. Dovevano vestirsi ben coperte, senza
mostrare nulla. Erano sottomesse e spesso erano costrette a perdonare il
tradimento dei propri mariti. Non potevano in nessun modo gestire il
denaro, le donne sposate ricevevano dai propri mariti il denaro che serviva
per fare la spesa giornaliera e spesso non era sufficiente, dovevano fare i
miracoli per far quadrare i conti. Tutto ciò era dovuto dal fatto che la
mentalità maschilista imponeva alle donne la totale sottomissione, anche in
rapporti amichevoli c’era l’usanza che gli uomini anche in giovane età
offrivano le donne un caffè, un gelato ecc. non era solo un atto di
galanteria ma anche un inizio di sottomissione. Infatti, nella
cultura popolare napoletana, l'uomo che tradiva veniva guardato come un
"predatore", un "playboy". Mentre la donna veniva
punita severamente, e a volte presa a botte perché ritenuta una “poco di
buono”, una sgualdrina. C'era una forte mentalità maschilista che
sopprimeva le giovani donne napoletane popolari. I genitori alla loro
figlia femmina fin da piccola d’età iniziavano a farle il “corredo da
sposa” le possibilità economiche erano molto limitate così periodicamente
compravano cose per il futuro matrimonio della figlia (coperte, pentole,
piatti, bicchieri ecc.) in 10/15 anni a pezzettino alla volta con tanti
sacrifici compravano il necessario per la propria figlia che da sposa
doveva avere tutto il necessario. Era l’unico modo per arrivare a ciò. La
verginità per la donna era una cosa sacra, era doveroso salire sull’altare
in chiesa per sposarsi ed essere vergine cioè mai avuto rapporti sessuali
con nessuno, infatti alla prima notte di nozze il mattino successivo
venivano in camera a preparare il letto dove avevano consumato la loro
prima notte gli sposi, la prova tangibile della perdita della verginità era
la presenza di macchie di sangue sulle lenzuola, la mamma della sposa
mostrava alla mamma dello sposo che la figlia era realmente vergine e pura.
Negli ambienti criminali la donna che aveva il marito o fidanzato in
prigione era costretta ad aspettare che usciva da galera. Non poteva essere
corteggiata e non poteva rifarsi una vita in alcun modo, ovviamente gli
uomini stavano alla larga dalle donne con mariti in carcere per non avere
problemi. Tante donne hanno vissuto la loro esistenza al fianco dei loro
mariti con atroce dolore: non potevano andare via anche perché i loro
familiari le avrebbero respinte e ritenute svergognate. Non potevano
nemmeno andare a vivere per conto loro per mancanza di risorse economiche,
in questo ambito erano totalmente dipendenti dai mariti. Non gli era
permesso guidare né automobili né motorini, cosa che veniva però permessa
agli scugnizzi. Loro imparavano già da ragazzini a guidare, come se fosse
una condizione obbligata. Bisognava andare in motorino o in vespa per
adempiere a varie mansioni di carattere familiare. La maggior parte degli
scugnizzi era di corporatura esile per cui non trovavano quasi mai
difficoltà a guidare motorini, facendo addirittura slalom tra le persone
che passeggiavano.
Giravano senza casco, anche perché ai tempi non esisteva l'obbligo di
quest'ultimo, inserito nel 1986. Inoltre, non era necessaria né la patente
di guida né la targa per guidare il cosiddetto cinquantino. Era diffuso
"truccare" i motori dei motorini per renderli più potenti. C'era
una distinzione tra chi lo faceva per passione e chi per compiere atti
illegali, come gli scippi. Le vittime di scippi difficilmente andavano a
fare denuncia alla polizia perché ritenuto inutile. Anche perché
rischiavano di essere isolati dal contesto. Lo scippatore era un vero e
proprio mestiere e ci volevano vari mesi di addestramento per poter
colpire. La camorra dava licenza di scippare agli scugnizzi ovunque,
l'importante è che non dovessero agire sulla cosiddetta "povera
gente", cioè persone del popolino.
Quelle persone che andavano avanti a stento e che credevano nella camorra
come unica istituzione. Per uno scippo si usciva in due persone, e il
bottino veniva quindi diviso in due.
Il denaro veniva spartito immediatamente, mentre gli oggetti di valore
venivano venduti a ricettatori compiacenti che non si facevano alcuno
scrupolo a pagare al di sotto del proprio valore l'oggetto proposto.
Ovviamente era un "mestiere" pericoloso: c'era chi nello scappare
ha battuto la testa e non è più ritornato a casa, chi veniva ammazzato da
colpi di arma da fuoco da un poliziotto presente sul luogo e chi veniva
acciuffato, arrestato e mandato nel carcere minorile (Il carcere
Filangieri). C'era una regola ben precisa che doveva essere rispettata a
qualunque costo: se uno dei due scugnizzi fosse stato arrestato e l'altro
fosse riuscito a farla franca, per nessuna cosa al mondo avrebbe dovuto
rivelare alla polizia chi fosse stato il suo complice, anche a costo di
essere torturato. La sua fedeltà veniva ricambiata già dal giorno dopo: il
suo amico dava la sua parte dei proventi ai suoi familiari. Era un patto di
amicizia ed equivaleva ad un patto di sangue.
Bisognava aiutarsi, per sempre. Erano solidali tra loro. C'erano famiglie
che aspettavano i propri figli scippatori che portassero qualche soldo a
casa per poter cucinare. Capitava che lo scugnizzo inconsapevolmente
compiesse reati e cattive azioni credendo di star facendo qualcosa di
giusto. Era una vera e propria dottrina che gli veniva insegnata fin da
piccoli. C'erano quelli più moderati, che erano anche più propensi ad
innamorarsi. Non erano di questo avviso però, altri ragazzi con valori
diversi, anche grazie alle loro condizioni economiche più agiate. Si
pensava molto al futuro per un avvenire migliore, erano considerati
"bravi ragazzi". Questi, raramente si trovavano per strada a
giocare, spesso in estate. Facevano solo giochi innocui. Il loro linguaggio
era più orientato all'italiano, con un ridotto numero di parolacce. Avevano
un vestiario molto più curato, capigliature più in ordine e in tanti
godevano di due o più mesi di villeggiatura in estate perché la regola in
famiglia era: o studi o impari il mestiere.
Una parte continuava gli studi fino all'ambito diploma, mentre c'era
un'altra parte che decideva di imparare il mestiere, inteso come l'arte di
fare. Negli anni 80, di mestieri ce n'erano tanti, molti dei quali oggi
sono scomparsi. Si iniziava a soli 14 anni come garzone di una bottega. A
volte erano i genitori che pagavano i titolari per permettere i propri
figli di imparare il mestiere. Era un vero e proprio investimento per il
futuro. C'era chi proseguiva l'arte del proprio genitore, ovviamente
parliamo di mestieri onesti. Veniva scartata sul nascere ogni proposta di
lavoro disonesta, ritenuti come lavori rischiosi, non stabili e non duraturi.
Alcune zone della città avevano come caratteristica l'insieme di molte
attività che svolgevano lo stesso mestiere, ad esempio: il Borgo Orefici
caratterizzato da tutte le attività dell'arte orafa. C'erano molte botteghe
di autocarrozzeria in Via Carrozzieri a Monteoliveto. Nella zona del Rione
Sanità e a Materdei c'erano le fabbriche di guanti in pelle, una vera e
propria arte della fabbricazione di alta qualità. Al centro storico c'erano
le tipografie dove si vedevano uomini vestiti eleganti con il camice lungo
come i linotipisti, i compositori i macchinisti, mentre a Capodimonte le
ceramiche. Ai Quartieri Spagnoli, invece, fabbriche di scarpe e borse
realizzate con maestria artigianalmente. Sul lungomare c'erano i pescatori
che rifornivano i pescivendoli napoletani. C'erano i calzolai, ovvero i
ciabattini, i macellai, i salumieri, i meccanici, gommisti, pasticcieri,
tappezzieri, elettrauto, carburatoristi, radiatoristi, sarti, restauratori
di mobili, idraulici, muratori, imbianchini, letteristi, vetrai, tornitori,
cromatori, lustrascarpe detti "sciusià", incisori, chianchieri
ovvero i macellai, i falegnami, parrucchieri. C'era l'imbarazzo della
scelta nello scegliere il proprio mestiere. Il mestiere permetteva di
condurre una vita dignitosa e mettere su famiglia. Era un investimento su sé
stessi per garantirsi un futuro. Molti antichi mestieri che ormai erano
scomparsi uno di questi era “o Pazziariello” O pazzariello era un’artista
di strada, figura molto diffusa e caratteristica della Napoli di fine
Settecento, Ottocento e prima metà del ’900, una specie di giullare di
piazza che attirava i passanti con i suoi strampalati spettacolini. Di
solito lo si poteva trovare per le strade, vestito in modo molto vistoso,
mentre impugnava del vino o altri prodotti (solitamente pane e pasta) che
gli venivano affidati da una vicina cantina o bottega per farsi pubblicità.
Infatti, con balli, danze e filastrocche, era solito annunciare l’apertura
di nuovi negozi accompagnato anche da una piccola orchestrina composta da
tamburino, eputipù, scetavajasseetriccheballacche. Inoltre, non era raro
trovarlo a qualche festa paesana o sagra in cui tentava di attirare un
numero più alto possibile di avventori per vendere all’asta qualche oggetto
ricevuto dagli organizzatori per aumentare il ricavato dell’evento.
Nell’arte di arrangiarsi a Napoli c’erano anche persone che venivano pagate
per piangere ai funerali per far credere alle persone del quartiere che il
defunto era stato molto amato da tutti in vita, ovviamente cosa non vera. I
ragazzi che intraprendevano questa via erano molto umili, la gavetta era
dura, bisogna avere passione, dedizione e tanta pazienza per imparare il
mestiere. C'era chi non riusciva ad impararlo per sua in incapacità, ma
c'era anche chi diventava più bravo del titolare. Il titolare non era un
maestro di scuola, non spiegava nulla. Stava al ragazzo avere
l'intelligenza e la scaltrezza di "rubare" il mestiere. I
familiari con i loro risparmi avviavano un'attività al proprio figlio.
Questi ragazzi frequentavano spesso le parrocchie del quartiere e si
adoperavano come chierichetti. Nel pomeriggio stavano in aree ricreative a
giocare a carte, a dama o a biliardino. Si mantenevano lontani dalla
strada, ritenuta pericolosa. Nei vicoli di Napoli, dove non arrivava la
voce, arrivavano i gesti. A Napoli per determinate circostanze, la gente
comunica con i gesti delle mani: una testualità delle mani di tipo
simbolico. Sono tutte espressioni di stati d'animo che solo a parole non
avrebbero lo stesso peso. Attraverso il movimento delle braccia o delle
mani, spesso è anche possibile capire il tema di discussione senza
conoscerne le parole. Ogni napoletano gesticola quando parla: il
"gesto" è un modo di esprimersi, un contributo al discorso che si
sta portando avanti. I gesti venivano insegnati fin da piccoli a tutti gli
scugnizzi, e tutti riuscivano ad impararli in modo rapido. Bisognava essere
rapidi nella comunicazione, in qualche situazione, un solo gesto ha salvato
la vita ad un altro scugnizzo. Lo scugnizzo non doveva piangere per alcun
motivo, in quanto indicava un segno di debolezza. Bisognava sempre
mostrarsi forte e indifferente davanti a qualsiasi dolore emotivo. Se uno
scugnizzo si commuoveva o piangeva veniva deriso e considerato un perdente,
uno che non sa affrontare la vita. Lo scugnizzo è forte e riesce ad
affrontare la strada, non si piega davanti a nulla. bisognava imparare la
cazzimma. È un neologismo dialettale: significa essere furbi, sfruttare
ogni evento a proprio favore, raccontare bugie all'occorrenza.
Questa veniva insegnata per strada, dovuta al crescente istinto di
sopravvivenza. Il popolo napoletano pone da parte la cazzimma, davanti agli
oracoli e santi, ha sempre affidato le proprie preghiere a San Gennaro,
santo patrono di Napoli. Nel proprio animo, il napoletano sente una voce
che dice: "sei sfortunato, non ce la farai mai a porti un
obbiettivo". Per cui non resta che pregare e sperare che qualcuno dal
cielo potesse compiere un miracolo o una grazia. Va bene anche poco,
l'importante è che arrivi nell'immediato.
Napoli è una città che per secoli ha dovuto lottare sempre con le unghie e
con i denti per tirare avanti. La mancanza di sviluppo ha creato mancanza
di lavoro, tanta gente stenta ad andare avanti e si ritrova costretti a
chiedere dei prestiti. I prestiti a Napoli non si facevano in banca, poiché
spesso chi li richiede non ha garanzie da offrire. Ci si rivolge all’antistato:
ai "rammari" o mercanti che offrono denaro in prestito sulla
parola, senza chiedere alcuna forma di garanzia o documento. I tassi di
interesse sono molto alti. La camorra ha sempre preferito finanziare le
attività: c'è più remunerazione e più garanzia. In mancanza di pagamento,
l'attività veniva "requisita". I mercanti invece, sono persone
che possiedono del denaro che gli permette di concedere piccoli prestiti a
persone, mentre il "rammaro" è una figura che acquista la merce
per il cliente e richiede che il pagamento sia saldato a rate, ovviamente
con un enorme tasso di interesse.
Negli anni 80 vi era facile accesso al credito: la stretta di mano valeva
più di un documento firmato. Ad esempio, veniva chiesto un milione di lire
per rifare il bagno o per acquistare un’automobile usata. i scontava il
debito a rate di centomila lire al mese per tredici mesi. Appena finito vi
era nuovamente la possibilità di chiedere un prestito. Tutti pagavano e
tutti onoravano la parola data nel restituire il denaro ricevuto. Se
qualcuno aveva avuto problemi nel restituire il denaro, si trovava un
accordo per abbassare la rata mensile. C'erano i mercanti più onesti e
quelli meni onesti che senza scrupolo aggiungevano altro interesse, oltre a
quello già richiesto. Intere famiglie venivano schiacciate da questo
fenomeno, ma questi prestiti facevano girare molto l'economia ma nello
stesso tempo impoverivano le famiglie. Gli scugnizzi venivano utilizzati
per andare a raccogliere il denaro a casa dei clienti per conto dei mercanti
in cambio di una modestissima mancia. Bisognava essere veloci nel riportare
il denaro, se qualcosa andava storto però, il denaro doveva restituito
dalla famiglia dello scugnizzo. Era una mansione che richiedeva molta
responsabilità, per cui bisognava stare attenti e soprattutto non dire a
nessuno di quest'ultima, perché il tradimento era dietro l'angolo. La
camorra riusciva a trasmettere agli scugnizzi un messaggio diverso da
quello reale: chi moriva per mano loro era un traditore, un uomo cattivo,
uno che non meritava di vivere: bisognava eliminarlo, altrimenti avrebbe
fatto del male a tutti. Insomma, era raccontata come un'azione di
giustizia. Ovviamente era un messaggio distorto, riuscivano a farsi credere
grazie al loro potere di seduzione. C'erano notizie che venivano nascoste
agli scugnizzi per evitare che qualcuno potesse farsi delle domande, come
ad esempio la morte del giornalista Giancarlo Siani per mano della camorra,
nel 1985. Ucciso solo perché raccontava la verità così come accadeva, tramite
il giornale di cui era impiegato.
Capitolo
II - La vita degli scugnizzi
Giovanni era un ragazzo nato nel 1974, esile e con i capelli castani e
lisci, aveva sempre un viso pallido. Era unico figlio di umile famiglia:
suo padre lavorava come operaio in una fabbrica di scarpe mentre sua madre
era una casalinga. abitava ai Quartieri Spagnoli, vicoli stretti panni
stesi botteghe, negozietti e bassi popolavano in modo armonioso il proprio
quartiere. Sua Madre era Nativa dei quartieri spagnoli mentre il padre era
di Capodimonte. I genitori di Giovanni decisero di iscriverlo ad una buona
scuola, l'Istituto Rossi. Era un istituto privato che solo i ragazzi di
ceti sociali più abbienti potevano frequentare. L'iscrizione e la retta
mensile erano fuori dalla portata, ma il papà di Giovanni pignorò la sua
fede nuziale e riuscì a ricavare i soldi necessari per coprire le spese. La
scelta particolare di questo istituto fu guidata dai genitori di Giovanni,
speravano che un istituto privato potesse fornire un ambiente migliore per
la crescita del loro figlio. on Antonio il papà di Giovanni era stato
anch’egli uno scugnizzo, nato nel dopo guerra aveva patito la fame più
assoluta e dopo essersi sposato era entrato nel mondo del lavoro, stava e
anche se non guadagnava tanto aveva acquistato la giusta serenità per lui e
i suoi cari. Il responsabile dell'istituto, prima di iscrivere
Giovanni, volle conoscerlo. Si presentò accompagnato dalla madre. Fu fatto
entrare in una stanza dove erano presenti tre persone adulte sedute dietro
ad una grossa scrivania. Lo fissavano e gli chiesero di avvicinarsi. Gli posero
delle semplici domande del tipo: come ti chiami, come si chiamano i tuoi
genitori, quanti anni hai. Insomma, lo fecero parlare. Giovanni con
decisione e rapidità rispose. Non aveva la consapevolezza di cosa fosse
quell'istituto, voleva solo rendere felice i suoi genitori.
Ad un
certo punto vide che quelle persone lo guardavano in modo strano, come se
fosse una persona sgradevole. Giovanni non riusciva a capire perché
avessero cambiato atteggiamento all'improvviso nei suoi riguardi. Solo
successivamente seppe dai propri genitori il perché proibirono la sua
iscrizione: le domande venivano poste in lingua italiana mentre Giovanni
rispondeva in lingua napoletana. Gli chiesero se sapesse parlare in
italiano e Giovanni rispose che sapeva dire solo qualche parola. Questa fu
la motivazione della sua esclusione. Veniva dal basso e doveva rimanere lì,
nel basso, senza nessuna possibilità di poter imparare l'italiano. Questa
notizia creò molta amarezza tra i genitori. Quel piccolo spiraglio di
speranza si era chiuso. Sua madre onn’Anna era più orientata a inserire
Giovanni in strada tra gli scugnizzi, si era già scontrata con suo marito
nella scelta e il rifiuto dell’istituto Rossi le diede ragione, onn’Antonio
dovette accettare la scelta di sua moglie senza replicare. Aveva la convinzione
che fosse la strada giusta o, meglio, l’unica strada percorribile. Nel luglio
del 1979 Giovanni anche se piccolo d'età, iniziò a sentire l'esigenza di
stare per strada insieme agli altri bambini della sua età. Un giorno, sua
madre gli disse: <<Giovà, da domani ti faccio scendere per strada,
però devi sapere che ci sono delle regole che devi rispettare. Ti faccio
uscire con tuo cugino Luigi che ti inserirà tra gli scugnizzi.>>
Giovanni la osservò e rispose: <<Mammà, ma che cos'è uno
scugnizzo?>> La mamma, con un sorriso replicò: <<Lo scugnizzo è
l'emblema di Napoli. Sono persone speciali ed è venuto il momento che tu ne
faccia parte.>> <<Io?>> rispose Giovanni incredulo.
<<Sì, a Napoli è importante esserlo, sennò rischi di
abbuscare>> replicò la mamma. Giovanni era entusiasta della
situazione, non vedeva l'ora: pensava fosse un gioco e nient'altro. Ormai
si era scocciato di passare le intere giornate a guardare i cartoni animati
giapponesi come Mazinga e Goldrake. Arrivò quel giorno che aprì un nuovo
mondo a Giovanni: un mondo a lui sconosciuto di cui non aveva idea del
funzionamento e non ne conosceva le regole. Insieme a Luigi si recarono in un’abitazione
a pian terreno (Basso), bussando alla porta in una maniera criptica. Alla
porta aprì una simpatica signora che accolse i due. Entrarono e in una
stanza vi erano cinque ragazzi dagli otto ai quindici anni, tutti intorno
ad un tavolo rotondo. Luigi si avvicinò al capobanda degli scugnizzi,
Mario, chiamato "Mariolino" e disse: <<Mariolì, ecco mio
cugino di cui ti avevo parlato. Lui vuole essere uno scugnizzo e oggi vuole
la tua benedizione per farlo stare insieme a noi. Come ti avevo avvisato è
sveglio, tenace e combattente anche se è piccolo, ma vuole imparare ad
essere uno scugnizzo.>> A quel punto, Giovanni si fermò e gli
sussurro all'orecchio: <<Ma io non ho mai chiesto di essere uno
scugnizzo, voglio prima capire che significa.>> Luigi lo prese con il
braccio e lo invitò ad avvicinarsi al tavolo e gli rispose a bassa voce:
<<Mo' è tardi, non si torna indietro. Oggi sarai battezzato
scugnizzo. Accetta tutto quello che ti diranno e non opporti, è per il tuo
bene>>. Giovanni fu quasi portato con forza a quel tavolo: al c'entro
c'era Mariolino, alla sua destra Franco, alla sua sinistra Enzo, ai lati
Salvatore e Rosario. Pronunciarono alcune parole "rituali" che
spiegavano che essere uno scugnizzo era un onore e gli dissero che restando
tra loro avrebbero imparato tante regole. Si giocava, ma bisognava anche
fare le cose serie per il bene comune. Mariolino e l'intera banda era
composta da circa una quarantina di ragazzi. Erano pochi rispetto alle
bande rivali, e bisognava reclutare nuovi ragazzini per aumentare il numero
di persone per non permettere a nessuna banda avversaria di impadronirsi
del loro territorio. Cantarono alcune canzoni ad alta voce e un inno che
suscitarono in Giovanni tanto entusiasmo. Quei dubbi iniziali passarono in
un attimo, quel nuovo mondo lo stava affascinando. Ora faceva parte di
quella piccola organizzazione, e da quel momento ne fu parte: era diventato
uno scugnizzo. Appena uscirono dall’abitazione di Mariolino, Giovanni e
Luigi si incamminarono verso casa, Giovanni era silenzioso e stava già
pensando alle prossime giornate. Una volta giunti al portone di casa Luigi
lo guardò e disse <Giovà sentimi bene sei ancora piccolo d’età non hai
esperienza, sta sempre vicino a me e non prendere mai iniziative. Quando
ricevi ordini, consulta me prima di eseguirli.> Luigi aveva creato un
nuovo scugnizzo. Giovanni non aveva ancora capito cosa fosse essere uno
scugnizzo, e per questo temeva che si potesse cacciare in qualche guaio.
Luigi voleva proteggerlo, era troppo piccolo. Poi aggiunse < Giovà
ricordati con chiunque ti troverai a parlare in modo ravvicinato non
abbassare mai lo sguardo, fissalo dritto negli occhi sia quando ti parla
lui e sia quando parlerai tu, mi sono spiegato?!> Giovanni < Va bene
certo lo farò anche se non ho capito il perché> Luigi < Lo capirai
col tempo vedrai> Il giorno successivo tutti gli scugnizzi si radunarono
nel piazzale di fronte all'abitazione di Mariolino, era solito raggrupparsi
lì. Mariolino presentò a tutti il nuovo arrivato e ordinò di procurare
mazze e pietre perché di lì a poco sarebbe iniziata una guainella contro
una banda avversaria e bisognava attrezzarsi e prepararsi a combattere.
Giovanni chiese a Luigi cosa fosse la guainella, ed egli gli spiegò che era
una guerra caratterizzata dal lancio di pietre. Giovanni esclamò:
<<Wow! Ci divertiremo.>> Luigi gli diede uno schiaffetto e gli
disse: <<Questo non è un gioco, noi giochiamo solo quando non c'è
niente da fare.>> Si divisero in vari gruppi alla ricerca di pietre.
Giovanni stette con Luigi. Ammassarono le pietre in un sacco posto
all'angolo di un piazzale. Intanto Mariolino, Franco ed Enzo andarono dal
capobanda avversario per definire il giorno e l'ora dello scontro. Si
accordarono per il giorno dopo alle ore 16. Il giorno successivo, Giovanni
insieme a suo cugino si recò sul luogo dove sarebbe avvenuta la guainella:
era un vicolo con due file di auto parcheggiate, una fila lungo il margine
destro e l'altra lungo il margine sinistro della strada. Ai loro lati
c'erano i marciapiedi lunghi circa un metro. Giovanni, non appena girò
l'angolo, vide una scena mai vista: la sua banda era già schierata lungo le
macchine poste sul margine sinistro e la banda avversaria dietro le
macchine parcheggiate del margine destro.
Proprio in quel momento, i residenti di quel vicolo chiusero porte e
finestre delle loro abitazioni e nessun’altra persona transitò lì: come se
già sapessero cosa stesse per accadere. C'erano i due schieramenti che si
contrapponevano: trincerati dietro le macchine parcheggiate, armati di
pietre e sbarre come una vera e propria guerriglia. Luigi disse a Giovanni:
<<Giovà, tu e gli altri piccolini starete dietro l'angolo al riparo.
Andate a prendere altre pietre e rifornitele a noi. Lasciatele a terra, ce
le veniamo a prendere noi.>> Giovanni tremava, in sè c'era un senso
di paura. Luigi gli ricordò di non girare l'angolo della strada per non
rischiare di essere colpito: dovevano agire nelle retrovie senza esporsi. La
loro mancanza di esperienza li avrebbe messi in pericolo. Ad un certo punto
si aprirono le ostilità: gli avversari più numerosi iniziarono con un
massiccio lancio di pietre anche di grosse dimensioni. Mariolino diede
ordine di rispondere con un lancio di poche pietre, lanciandole a
"pallonetto", ma restando al riparo il più possibile. Le pietre
si scagliarono sulle auto parcheggiate, rompendo i vetri dei finestrini. Giovanni
riuscì a procurare molte altre pietre, ma di piccole dimensioni, e le
ripose a terra. Non resistette però alla curiosità: si affacciò per
guardare lo svolgimento della guainella. Rimase stupefatto, sembrava un
gioco di soldatini, ma non lo era. Corse e si rifugiò dietro ad una delle
auto, rannicchiato come gli altri, accanto a Luigi, il quale gli disse:
<<Ma tu cosa fai qua? Ti avevo detto di restare al riparo.>>
Giovanni rispose: <<Voglio combattere pure io.>> Raccolse un
paio di pietre e le lanciò verso gli avversari senza alcun esito positivo.
Gli avversari sembravano avessero un numero considerevole di pietre:
sembravano non finire mai. Mariolino proseguì nel contrattacco: tutti gli
scugnizzi si alzarono ed iniziarono a lanciare tante pietre. Giovanni non
si risparmiò, ma essendo piccolo lanciò le pietre con poca energia, e
quindi con pochi risultati. Due dei suoi amici furono colpiti alla testa e
cominciarono a perdere sangue. Furono portati immediatamente all'ospedale.
Anche tra gli avversari vi furono feriti: cinque.
La lotta fu feroce, arrivavano pietre da tutte le direzioni, sembravano
proiettili. Giovanni fu sfiorato diverse volte alla testa. Ormai le pietre
stavano per esaurirsi sia per gli uni che per gli altri. A quel punto
Mariolino gridò: <<Addosso!>>. I suoi scugnizzi uscirono allo
scoperto, correndo verso gli avversari. Fu un combattimento corpo a corpo,
con mazze e spranghe. Intanto volavano ancora pietre. Giovanni rimase
abbassato dietro una Fiat 128 e assistette ad una vera e propria guerra:
c'erano ragazzi a terra e altri che combattevano. Gli avversari, nonostante
fossero in superiorità numerica, furono costretti a scappare. Lo scenario
era surreale: auto rotte, vetri sfondati, ragazzi a terra feriti. Una
violenza che Giovanni aveva visto solamente nei film. Luigi, Rosario,
Franco, Enzo e Mariolino rimasero illesi, erano quelli più esperti, ma
dieci scugnizzi furono feriti dai colpi delle pietre e dalle spranghe. Si
ritirarono al piazzale per fare il conto della situazione. Gli avversari,
oltre a scappare avevano avuto dodici feriti. Mariolino entusiasta disse:
<<Bravi guagliù, eravamo di meno ma abbiamo vinto, grazie alla nostra
forza e alla cazzimma.>>. Tutti esultarono, grati di aver portato al
compimento quella vittoria tanto desiderata. Luigi si avvicinò a Giovanni,
dandogli uno schiaffo e dicendo: <<Devi fare quello che dico io. Non
fare più di testa tua, mi sono spiegato?>> Mariolino si avvicinò e
disse: <<Il piccolo Giovanni oggi si è dimostrato coraggioso, è
grazie anche a lui che abbiamo vinto. Come un vero e proprio scugnizzo non
ha paura di nulla.>> Iniziarono di nuovo tutti insieme a cantare
quegli inni che glorificavano le loro azioni. Giovanni cantava a
squarciagola, orgoglioso di essere uno di loro e quel giorno ebbe la piena
consapevolezza di cosa significasse essere uno scugnizzo. Franco si
avvicinò a Luigi e disse: <<Ho visto il tuo cuginetto.
Mi sembra una persona valida, vorrei prenderlo sotto la mia ala per
insegnargli tante cose. Che ne dici?>> Luigi che conosceva bene
Franco, un ragazzo nato nel 1970, i suoi genitori vendevano le sigarette di
contrabbando per strada per sfamare otto figli. Era un tipo molto sveglio,
deciso e orientato ai furti, meno interessato ai giochi. Accettò la sua
proposta, dandogli in custodia il piccolo Giovanni. I due passeggiarono per
diverse ore. Franco raccontò diversi aneddoti suscitando in Giovanni molto
entusiasmo. Giovanni incuriosito gli chiese lo scopo delle guainelle, ed
egli rispose: <<È un duello tra due bande per imporre la propria
forza. Oggi abbiamo vinto noi, da domani gli avversari ci porteranno
rispetto. Potremmo transitare nel loro territorio mentre loro non potranno
farlo nel nostro, dovranno chiedere il permesso e ci sarà la possibilità
che qualcuno di loro lascerà la sua banda per unirsi a noi.>> I
genitori di Giovanni non erano di questo avviso, la signora Anna conosceva
bene Franco e sapeva di che pasta era fatto. Lei desiderava che il figlio
diventasse uno scugnizzo, ma moderato, vivace, ma non un ladro o un aggressore.
Nei mesi successivi Giovanni prese parte a diverse guainelle, ebbero tante
vittorie grazie all'audacia del proprio capo indiscusso, Mariolino. Vi era
un numero sempre crescente di scugnizzi che si univa alla banda. Giovanni
pose una domanda a Franco: <<Perché i miei familiari volevano che
diventassi uno scugnizzo?>> Franco si girò e guardandolo con un
sorriso smagliante rispose: <<Giovà, sei ancora piccolo e non sai
come funziona il mondo, il figlio dell'avvocato farà l'avvocato, il figlio
del farmacista farà il farmacista, il figlio del panettiere farà il
panettiere e il figlio dello scugnizzo farà lo scugnizzo.>> Giovanni
rispose: <<Lo scugnizzo è un mestiere?>> Franco replicò:
<<No, è una condizione di vita che ti permette di guadagnare soldi in
piena libertà senza dover stare alle dipendenze del padrone.>>
Giovanni aggiunse: <<E se io mi rifiutassi?>> Franco
insistette: <<Ormai sei uno scugnizzo, indietro non si può più
tornare.>> A Giovanni piaceva essere uno scugnizzo, l'unica cosa che
gli creava disagio era il fatto che gli altri avessero già deciso per lui,
senza permettergli di riflettere, come se non ci fossero alternative e la
sua vita fosse già decisa. Franco con una risata disse: <<Ti
insegnerò io ad essere un vero scugnizzo, da domani sarai sempre con
me.>> Giovanni tornò a casa e raccontò com'era andata ai suoi
genitori che si mostrarono orgogliosi di lui, ma allo stesso tempo gli
raccomandarono tanta prudenza e gli intimarono di restare sempre vicino a
Franco e Luigi. Nei giorni successivi, Giovanni allacciò una forte amicizia
con Pietro, Gigino e Marco: erano anch'essi ragazzini come lui, senza
alcuna esperienza di strada. Crearono un rapporto di solidarietà tra loro.
Erano ragazzi molto disagiati, Pietro era l’ultimo di una famiglia di 12
figli, aveva i genitori anziani e con problemi di salute, Gigino aveva
anch’egli problemi di salute e necessitava di controlli periodici che non
avvenivano sempre, Marco aveva i genitori separati, suo padre se n’era
scappato con la migliore amica della mamma lasciandola con 3 figli, c’era
una forte necessità di guadagnare soldi da dare a sua madre che con il suo
misero lavoro non riusciva a sostentare tutti. Nelle ore meno impegnative,
giocavano fino allo sfinimento. Furono giornate intense in cui Giovanni
imparò nuovi giochi praticati in strada, pericolosi ma al contempo
affascinanti. Facevano una colletta per racimolare 2000 lire per comprare
il pallone super Santos, organizzavano partire a calcio nel piazzale
d’innanzi all’abitazione di Mariolino, erano giorni lieti, Giovanni si
sentiva a suo agio con alcuni dei suoi amici ma ben presto si scontrò
contro la prepotenza di altri scugnizzi della stessa banda che imponevano
la loro prepotenza nei riguardi dei più piccoli, Vincenzo era uno di loro,
quelli più prepotenti giocavano in attacco e quelli più piccoli e indifesi
venivano posti per forza in difesa, quel giorno prima di iniziare la
partita si rivolse a Giovanni < tu vai in difesa!> Giovanni gli
rispose < non ci penso nemmeno, io gioco dove mi pare> Vincenzo lo
prese per il collo della maglietta e lo scaraventò a terra e disse < tu
fai quello che dico io altrimenti non giochi> Giovanni si rialzò
malconcio e se ne andò, non poteva affrontare Vincenzo era più grande di
lui e poi era uno dei seguaci di Mariolino, preferì andare via e lasciare
la partita. Non accettò l’imposizione che gli era stato impartito, questo
fu il secondo gesto di imposizione che aveva subito e in sé stava iniziando
ad accrescere un senso di ribellione. In serata, quando faceva ritorno a
casa, era tutto sporco e con le ginocchia sbucciate. La mamma lo sgridava e
gli ordinava di lavarsi. Una sera Giovanni disse a sua mamma < Mà mi
sento fortunato che papà lavora e ogni giorno riusciamo a mangiare, ci sono
altri scugnizzi della banda che sono veramente poveri, hanno fame!, gli
manca tutto anche le cose più necessarie, Hanno i pidocchi, Mammà perché
hanno sempre fame?> Giovanni si commosse, sua madre lo strinse a sé
disse < Giovà questo è un mondo crudele, ce ne dobbiamo fare una ragione>
Prese un pettine stretto e lo passò tra i capelli di Giovanni, anche lui
aveva i pidocchi, gli erano stati trasmessi da altri scugnizzi. Giovanni fu
stretto tra le braccia della madre piangendo. Giovanni fu attratto in modo
profondo dalla vita da scugnizzo, il senso di libertà e le giornate
avventuriere lo rendevano felice e desideroso di far parte della propria
banda non aveva la più pallida idea di cosa fosse “la strada” e i suoi
rischi, ben presto si trovò ad avere a che fare con la dura realtà.

Era
l’estate del 1980 la vita a Napoli scorreva come sempre i vicoli erano
frequentati dai tanti venditori ambulanti che proponevano merce di varia
natura, le vecchiette sedute fuori dai bassi sulle sedie trovavano sempre
un posticino all’ombra per poter fare pettegolezzi con le vicine, le
botteghe artigiane erano aperte e si lavorava a pieno ritmo nonostante il
caldo, le giovani mamme andavano a fare la spesa nelle botteghe o al
mercato e gli scugnizzi stavano lì per strada a organizzare in modo
autonomo la loro vita, i genitori di Giovanni che iniziarono ad avere delle
preoccupazioni nei riguardi del loro piccoletto, non lo vedevano abbastanza
adeguato alla vita da scugnizzo, da un lato speravano che col tempo si
sarebbe adattato e da un lato volevano che frequentasse un ambiente
diverso, la loro indecisione li indusse ad iscrivere Giovanni ad un altro
istituto privato, ma di calibro molto più basso che permetteva l'accesso
anche ai ceti meno abbienti. Era un istituto cattolico con delle regole
molto ferree e gli scugnizzi non erano visti di buon occhio. L'approccio fu
difficile, le regole non facevano parte del DNA degli scugnizzi. Infatti,
alcuni degli amici di Giovanni furono subito espulsi. I restanti
inizialmente vennero sempre puniti, ma pian piano iniziarono a adeguarsi
almeno in parte alle regole scolastiche. La voglia di non apprendere
rendeva sempre più precaria la loro permanenza in quella scuola: veniva
tutto raccontato attraverso la parola di Dio, ma i fatti erano molto
differenti. Le punizioni erano dure e all'ordine del giorno: subivano
bacchettate sulle mani, venivano fatti mettere negli angoli con le braccia
alzate rivolte verso il muro per ore e ore e se qualcuno non avesse fatto i
compiti, la maestra gli avrebbe costruito un grosso orecchio di asino di
carta che grazie ad una fenditura veniva applicato all'orecchio dell'alunno
punito, veniva messo in un angolo e tutta la classe era obbligata a
puntargli il dito contro al grido di <<Vergogna, vergogna,
vergogna!>>. In tanti scoppiavano a piangere, era una scena umiliante
che spesso subiva anche Giovanni. Lui era taciturno perché non voleva che
si sapessero le sue lacune linguistiche: fu praticamente traumatizzato
dalla questione dell'Istituto Rossi.
Ciò perduro fino a quando la maestra, sospetta di questo comportamento, lo
richiamò. Giovanni si avvicinò alla cattedra e guardò gli occhi della
maestra: aveva uno sguardo penetrante e pieno di malvagità. Giovanni si
sentì spaventato. La maestra gli disse: <<Giovanni, parlami un po' di
te visto che non conosco ancora la tua voce...>> Giovanni, con un
filo di voce, pronunciò alcune parole in napoletano e poi si fermò, non
volle più continuare, aveva timore di essere cacciato anche da qui. La
maestra si infuriò e disse: <<Non sai nemmeno parlare?
Vergognati.>> Gli applicò l'orecchio di carta e gli fu inferta
un'umiliazione. Successivamente, Giovanni notò che la maestra nei giorni
successivi lo puniva anche per motivi futili. Addirittura, gli proibì di
uscire di casa nel pomeriggio con gli amici, in pratica non doveva farsi
vedere per strada. La maestra chiese la collaborazione di due alunne che
abitavano nello stesso quartiere che facevano da sentinelle, dovevano
riferire nel caso lo avessero incontrato per strada. Da quel momento iniziò
un vero e proprio incubo per Giovanni, riusciva ad accettare tutto, anche
le più umili punizioni, ma non il fatto di dover restare chiuso in casa. La
maestra detestava gli scugnizzi, non gli dava vita facile e in nessun modo
si adoperava per recuperarli. Pensava solo a reprimerli, li guardava come
appestati. Il suo metodo però era inefficace, il suo comportarsi
negativamente nei confronti degli scugnizzi li rendeva solamente più
ribelli. Giovanni seguì il suo istinto da scugnizzo, non diede ascolto alla
maestra. Infatti, un pomeriggio stava passeggiando per strada e ad un certo
punto incontrò la maestra. Lei lo guardò con un'aria sorpresa perché
credeva Giovanni avesse obbedito ai suoi ordini. Giovanni avvertì nel suo
sguardo un'aria oscura; si fermò per un attimo, la guardò e scappò via. Preferì
non dire nulla a sua madre perché era convinto che il problema fosse lui.
Giovanni raccontava solo gli avvenimenti più lievi a sua madre, preferì
nascondere quelli più gravi. Sua madre decise infatti di non fare nulla,
forse perché non credette totalmente nelle parole di Giovanni. Il giorno
successivo Giovanni si recò a scuola. La maestra disse che quel giorno
sarebbe stata attuata un’ispezione degli alunni per verificare lo stato di
pulizia personale. Fecero mettere tutti i bambini in fila indiana fino ad
arrivare alla bidella che fungeva da esaminatrice improvvisata. Questa
guardava tra i capelli per verificare che ci fossero pidocchi e nelle
orecchie. Accanto alla bidella c'era proprio lei, la maestra, che non
vedeva l'ora che la bidella controllasse Giovanni. A Giovanni venne voglia
di scappare e non tornare più in quell'inferno. Quando arrivò il suo turno,
la bidella gli guardò tra i capelli e riferì che non c'erano pidocchi,
disse però che erano sporchi e bisognava lavarli. Guardando nelle orecchie,
richiamò l'attenzione della maestra per mostrare che erano sporche di
cerume. Al che Giovanni fu spinto e tutti gridarono: <<Tu sei
sporco!>>. Tutti gli alunni fissavano Giovanni, si sentì umiliato e
fu costretto a stare in un angolo con le braccia alzate per diverso tempo.
Quella punizione scaturì in lui un odio profondo verso le istituzioni. Ebbe
la forza di non piangere e più soffriva e più cresceva in lui l'odio. Senza
dire nulla, quando finirono le lezioni, raccolse tutte le sue cose e andò
via. Ad un certo punto si girò, guardò la maestra con un'aria da sfida,
quasi a trasmettergli un silenzioso <<Tu la pagherai>>. Quando
arrivò a casa, scoppiò a piangere e finalmente trovò la forza di raccontare
tutto a sua madre, che questa volta non esitò a credergli. Lo fece sedere e
lo tranquillizzò, gli disse che l'incubo sarebbe finito e che la maestra
avrebbe dovuto fare i conti con lei. Il giorno successivo, Giovanni fu
accompagnato dalla mamma a scuola. All'entrata la bidella proibì l'ingresso
a sua madre in quanto non aveva fissato alcun appuntamento. La madre però
le se avvicinò e con una voce sottile le disse: <<Fatti da parte,
altrimenti ti prendo a calci in culo>>. La bidella rimase lì ferma e
li lasciò entrare. Ogni passo che faceva sua madre sembrava rimbombare
nella testa di Giovanni. Percorsero un corridoio e in fondo c'era la porta
dell'aula. Man mano che si avvicinavano, il cuore di Giovanni batteva
sempre più forte, aveva sete di vendetta e desiderava più di ogni altra
cosa che la maestra pagasse per le cattive azioni inflitte a lui e a tutti
gli scugnizzi appartenenti a quella classe. La madre non bussò, aprì la
porta e si scagliò contro la maestra come un ariete. Era infuriata; le mise
le mani addosso e gli disse numerose parolacce. La maestra subiva inerme
gli attacchi d'ira. Il tutto accadeva davanti ai bambini che rimasero lì ad
osservare. Le urla forti attirarono la direttrice che si recò velocemente
in classe per placare gli animi. Dopo pochi minuti, la madre di Giovanni fu
calmata e la direttrice, pur di non perdere un alunno (cliente), promise di
fargli cambiare sezione, così da non avere più rapporti con quella maestra.
Il trasferimento avvenne immediatamente. La mamma si girò guardando la
maestra e gli disse: <<Mio figlio è uno scugnizzo non un animale.
Solo se proverai a guardarlo, io verrò qui e ti butterò giù dalla
finestra>>. La maestra annuì. La direttrice accompagnò Giovanni nella
nuova sezione. I compagni lo guardavano con aria meravigliata. La
direttrice bisbigliò all'orecchio della nuova maestra e Giovanni fu fatto
sedere in un banco infondo alla classe, del tutto isolato. Da quel giorno a
Giovanni non fu mosso neanche un capello, ma fu emarginato. Giovanni si
abituò a questi atteggiamenti. Andava a scuola a testa alta e orgoglioso di
essere scugnizzo e inalterando i suoi sentimenti di disprezzo verso gli
organi istituzionali. L'unico luogo dove si sentiva a suo agio era la
strada. Giovanni si recava spesso da onna Carmela: una donna zitella,
aspettava sempre il suo fidanzato americano che ai tempi di guerra le
promise che sarebbe ritornato per sposarla, ma ciò non avvenne mai. Abitava
in un basso adibito a bottega. Un giorno Giovanni stava entrando nel basso
e incontrò una ragazzina, intenta ad acquistare mezzo chilo di pasta e una
scatoletta di salsa. Era molto esile, dai capelli neri e corti e due
occhioni. Sembrava essere molto sveglia. Giovanni vi si avvicinò e disse:
<<Ciao io mi chiamo Giovanni. Sono uno scugnizzo del
quartiere.>>. Lei fece un grosso sorriso e disse: <<Ciao io
sono Ninetta, abito anche io nel quartiere ma non sono una
scugnizza>>. Rideva, sapeva bene che ad una ragazza non era permesso
essere una scugnizza. Poteva anche avere atteggiamenti simili, ma non
sarebbe mai potuta entrare nella banda. La forza apparteneva solo agli
uomini, la donna era considerata inferiore e doveva limitarsi a "fare
la donna". A Giovanni piacque fin da subito e le chiese di giocare
insieme. Ninetta rispose: <<Sai bene che non possiamo giocare
insieme, tu sei un maschio e io sono una femmina. Ma non si sa mai.
Ciao>>. Con un sorriso lo salutò, prese le sue cose e scappò via.
Giovanni rimase incantato dalla vivacità di Ninetta. onna Carmela si mise a
ridere e disse: <<Guagliò, ti piace la piccolina Ninetta vero? Sappi
che è una fanciulla che ha molti problemi. Suo padre lavora saltuariamente
in una fabbrica di scarpe e sua madre ha problemi psichici. Insomma, non se
la passano bene, che dio li aiuti.>> Giovanni prese le sue cose e si
incamminò verso casa. Pensò molto a Ninetta, voleva fare qualcosa per lei,
così pensò di inserirla nella banda. Ne parlò con Franco che fu contrario
all'iniziativa. Successivamente si recò da Mariolino: sapeva bene che il
capo era saggio e che avrebbe preso la giusta decisione. Spiegò che Ninetta
era una ragazzina, ma i suoi capelli e i suoi atteggiamenti erano
considerati da maschio. Chiese se potesse unirsi alla banda, ma lui
rispose: <<Giovà, ma lei sa di questo?> Giovanni < No, ma sono
certo che lo vorrebbe. È una ragazza fantastica, ma ha gli occhi tristi, la
voglio aiutare.>> Mariolino replicò: <<Ascolta, sai bene che
una femmina non può stare con noi, dobbiamo anche dar conto alla nostra
reputazione. Pensa cosa penserebbero le altre bande... hanno messo una
femmina perché sono deboli.>> Nonostante ciò, volle ugualmente
conoscerla: <<Portala qui, la voglio vedere.>> Giovanni si
appostò per diversi giorni nei pressi del basso di onna Carmela, era
l'unico luogo in cui avrebbe potuto incontrarla. Finalmente la incontrò:
Giovanni si fece avanti e fece fatica a parlare. Era molto entusiasta
dell'incontro e disse: <<Ninè, hai da fare?>>. Lei rispose:
<<Devo solo comprare alcune cose e tornare a casa>>. Giovanni
aspettò che comprasse le sue cose e poi la accompagnò a casa. Abitava in un
basso molto modesto che lasciava trasparire le condizioni economiche
disastrose. Guardò sua madre: era una signora magra dallo sguardo
inespressivo e rivolto verso il vuoto. Giovanni rimase perplesso e si
convinse sempre di più di aiutare Ninetta per permettere di guadagnare
qualche soldo insieme a loro, magari poteva aiutare la sua famiglia. La
condusse da Mariolino che le pose alcune domande, quasi come un
interrogatorio. Rispose con decisione. Mariolino le disse: <<Potrai
stare con noi solo per giocare o per guadagnare qualche soldo mentre per le
cose più importanti dovrai stare fuori.>> La decisione fu accolta con
gioia da Giovanni e Ninetta che senza pensarci neanche un istante non esitò
a buttarsi tra gli scugnizzi, nonostante il suo ruolo marginale. Giovanni
presentò Ninetta ai suoi amici più stretti: Marco, Gigino e Pietro che
accolsero la nuova arrivata con gioia, poi si recò da Enzo e Luigi,
anch'essi soddisfatti. Franco non mostrò molta felicità, era il suo
carattere, anche se in realtà faceva piacere anche a lui. Giocavano tutti i
giorni insieme fino all’arrivo del padre di Mariolino on Carmine, era un
venditore ambulante di scarpe. Allestiva ogni giorno per strada la sua
bancarella dove esponeva scarpe per uomo e donna. Si serviva di un triciclo
Ape Piaggio per trasportare le proprie scarpe da casa fino alla strada.
Faceva il proprio lavoro con molta allegria nonostante le tante difficoltà
a dover sfamare cinque figli. Un giorno, al ritorno a casa, parcheggiò
momentaneamente il furgone fuori casa. Stava iniziando a scaricare le
scatole per rimetterle nello sgabuzzino quando all'improvviso due moto di
grossa cilindrata con quattro uomini a bordo percorsero il vicolo
rapidamente, finché il loro passaggio non fu ostacolato dal furgone. Questi
uomini indossavano dei Jeans, occhiali neri, giubbotti in pelle e avevano
barbe folte. Accelerarono fortemente per far capire che volevano passare
senza perdere tempo, sembrava che andassero di fretta.
Giovanni, Ninetta e Franco si trovavano a pochi metri, rimasero lì fermi ad
osservare senza muoversi. Capirono subito che On. Carmine stesse correndo
un grosso pericolo e avvertirono subito Mariolino che andò immediatamente
da suo padre ad intimarlo di spostare rapidamente il furgone per dare la
possibilità a quegli uomini di passare. Mariolino corse, arrivò vicino casa
sua, al che fu chiamato da uno dei due uomini: <<Guagliò digli al
proprietario di questo catorcio di spostarlo velocemente, che andiamo di
fretta>>. A quel punto, anche Mariolino intuì che erano uomini di
Camorra mai visti in giro, venivano dalla periferia. E quando venivano in
città, era solitamente per effettuare esecuzioni. Suo padre, proprio in
quel momento, uscì dal portoncino di casa. Era arrabbiato, perché erano due
giorni che non aveva venduto nemmeno un paio di scarpe, non aveva
guadagnato nemmeno i soldi per comprare il latte ai propri figli. Si
rivolse a quegli uomini con decisione: <<Se andate di fretta, fate il
giro del vicolo successivo che qui abbiamo da fare. Oggi non è
giornata>>. All'improvviso uno di quegli uomini scese dalla moto, si
avvicinò ad On Carmine e gli diede un grosso schiaffone, che gli provocò la
caduta degli occhiali e la fuoriuscita di sangue dal naso. Tirò fuori una
pistola e gliela puntò alla fronte: <<Stai a sentire, se non ci fai
passare oggi ammazziamo anche a te>>. Mariolino, piangendo, implorò
suo padre di farlo alla svelta. On. Carmine rimase per pochi secondi
stordito, realizzò che stava rischiando la vita e immediatamente spostò il
furgone lasciando un varco laterale per permettere il passaggio delle due
moto. Gli uomini andarono via sfrecciando e Mariolino in lacrime abbracciò
suo padre. In quel momento Giovanni vide che il capo degli scugnizzi,
colui che era coraggioso ed invincibile e risolutore di ogni questione, si
era rivelato fragile e impotente contro una forza maggiore. Rivolse lo
sguardo a Franco e disse: <<Franchetié hai visto? Il nostro capo si è
dimostrato debole, doveva reagire!>> Franco rispose: <<Se
avesse reagito, sarebbe stato ucciso senza pietà, ricordati che sono loro
che comandano, i camorristi, e a loro bisogna sempre chinare la
testa>>. Ninetta, spaventata, scappò via. Giovanni quel giorno scoprì
che non erano gli scugnizzi che avevano la città in mano, venne a
conoscenza che esisteva la camorra. Credeva che gli scugnizzi fossero le
uniche persone che gestivano la strada, ma non si rese conto che erano solo
ragazzini. Gli adulti, quelli della camorra, girano quasi con gli stessi
principi, ma con mezzi ben diversi. Il giorno successivo, Giovanni si recò
da Mariolino e volle sapere di più sulla camorra. L'interpretazione di
Mariolino fu totalmente a loro favore e spiegò che bisognava obbedirgli da
qualunque parte arrivassero e di non contraddirli mai. Ma a questa risposta
Giovanni avvertì solo un senso di sottomissione. Nel settembre del 1980
mancavano pochi giorni alla festa del santo patrono di Napoli San Gennaro. È
celebrato il culto ogni anno: gli scugnizzi si radunavano per assistere al
miracolo di San Gennaro, considerato il protettore della città, salvò
Napoli dall'eruzione del Vesuvio. Il rito liturgico veniva seguito con
attenzione.

Il vescovo
innalzò davanti a tutti i fedeli l'ampolla al cui interno vi era il sangue
di San Gennaro. Il giorno 19 settembre 1980, Giovanni si recò anch'egli,
insieme alla sua banda, al Duomo per assistere alla funzione. L'evento era
molto atteso, vi era una mole enorme di persone. Ad un certo punto vi fu un
silenzio surreale: Corrado Ursi, il vescovo di Napoli si presentò davanti
ai fedeli, alzò l'ampolla, la ruotò, ma il sangue non si sciolse. La gente
invocava al miracolo. Giovanni era vicino a Franco e Ninetta: non aveva la
consapevolezza dell'importanza del miracolo, era avvilito e in mezzo a tra
tutta quella gente chiese a Franco: <<È così importante questo
miracolo?>> ed egli replicò: <<Certo, è importantissimo, se non
lo fa succederà qualcosa alla nostra città. San Gennaro è colui che ci
protegge.>> Giovanni teneva la mano stretta a quella di Ninetta, per
evitare che si potesse perdere tra la gente. Il vescovo, dopo vari
tentativi annunciò al pubblico che il sangue nell'ampolla non si era
sciolto, e di conseguenza il miracolo non era avvenuto. Piombò nuovamente
un silenzio tombale: la gente era incredula e spaventata. Alcune persone
iniziarono a scappare, provocando un panico generale. La paura si calò tra
il popolo napoletano. Sapevano bene che quello era un presagio di qualcosa
di brutto che sarebbe accaduto di lì a poco, senza però sapere cosa. La
banda si separò tra la gente, alcuni seguirono Mariolino, mentre Giovanni e
Ninetta furono messi al sicuro da Franco che li portò con sé mano nella
mano in un vicoletto adiacente a via Duomo. Si incamminarono per
l'Anticaglia per dirigersi ai Quartieri Spagnoli. C'era gente che urlava
per strada e dai balconi. Qualcuno preparava i bagagli per allontanarsi da
Napoli. Giovanni era spaventato e teneva stretta la mano di Franco
contemporaneamente a quella di Ninetta, anch'essa spaventata. Rientrarono
al piazzale dove trovarono tutti gli scugnizzi radunati. Giovanni
accompagnò Ninetta a casa e le raccomandò di uscire il meno possibile.
Ritornò al piazzale dove Mariolino annunciò quello che ormai sapevano
tutti, il miracolo non era avvenuto e qualcosa di brutto doveva accadere.
Bisognava stare in allerta e rimanere uniti. Mariolino fece visita ai capi
banda rivali e propose una tregua per rimanere uniti ed affrontare la
sciagura che San Gennaro aveva preannunciato. Aderirono tutte le bande a
questa iniziativa, c’era molta preoccupazione e le giornate trascorrevano
velocemente. Il popolo Napoletano era lì ad aspettare rassegnato e in
silenzio, ma non mancavano le guerre tra i clan camorristici. Loro non si
risparmiarono e le feroci faide lasciavano a terra cadaveri morti uccisi da
arma da fuoco, erano momenti difficili. Gli scugnizzi cercarono di
distrarsi occupando il loro tempo a giocare e svagarsi, la tregua li trasformò
in fanciulli. Nonostante fosse il mese di settembre, faceva ancora caldo e
approfittavano per passare le giornate sugli scogli del lungomare
Caracciolo a fare i bagni e prendere il sole.

Giovanni
si improvvisò pescatore: trascorreva intere giornate con on Peppe, il papà
di Ninetta. Dati i tempi, bisognava distrarsi il più possibile. Gli
scugnizzi facevano il bagno in mutande, si giocava e scherzava quasi a
esorcizzare la paura che incombeva nei loro animi. Non esistevano
territori, né avversari né nemici, c’erano gli scugnizzi uniti sotto lo
stesso destino. La domenica Giovanni e Franco andavano allo stadio S. Paolo
a vedere gli ultimi 15 minuti di partita del Napoli, aprivano i cancelli ed
era possibile entrare gratis. Incitavano il loro idolo Ruud Kroll: era un
giocatore fuoriclasse olandese considerato l’idolo dei Napoletani, con lui
i Napoletani speravano di vincere lo scudetto, che purtroppo non fu mai
vinto. Venne l’inverno e con esso il periodo Natalizio. Quel giorno del 23 novembre
del 1980, Giovanni con la sua famiglia e altri parenti fecero una
“scampagnata” ovvero una gita al Santuario di Montevergine nella zona
Irpina. Il destino fu clemente con loro: appena fecero ritorno a Napoli
iniziò a tremare la terra. Giovanni stava insieme a suo cugino Luigi per
comprare un ovetto Kinder, inizialmente ebbe la sensazione di avere un
malore, si trattava invece del violento terremoto. I due furono caricati in
macchina da alcuni passanti che li portarono in un piazzale lontano dagli
edifici. Giovanni piangeva e al contempo chiedeva dei suoi genitori
che arrivarono in secondo momento. C'erano feriti, persone che si
disperavano, alcuni edifici crollarono come se fossero fatti di carta, per
fortuna distanti dalla gente. C’erano grida di giubilo, il panico creò una
situazione fuori controllo, le persone scappavano ma non sapevano dove
andare, ognuno cercava riparo e le piazze erano gremite di gente. Uomini in
pigiama, donne in vestaglia, bambini seminudi cercavano di mettersi in
salvo. Finita la prima scossa calò un silenzio assordante. Gli
edifici che restarono in piedi avevano delle enormi crepe, alcuni
piangevano perché non vedevano i loro cari. Quel giorno era giunto, San
Gennaro aveva colpito, Napoli aveva subito anch’essa il terremoto che
partiva dalla zona Irpina, il santo lo aveva preannunciato ma nonostante
tutto solo i più facoltosi riuscirono a lasciare la città, il resto della
popolazione invece rimase lì ad aspettare il proprio destino. Ninetta,
insieme a sua sorella e i suoi genitori riuscirono a mettersi in salvo.
Mariolino era tutto sporco di polvere, ma per fortuna in salvo. Fece un
rapido giro tra i vicoli per ritrovare i suoi compagni. Incontrò Enzo che
gli riferì che c’erano persone ancora nelle proprie abitazioni, che si
rifiutavano di uscire: avevano la convinzione che fossero al sicuro e
soprattutto volevano difendere quelle poche cose materiali che ancora gli
rimanevano. Bisognava convincerli ad uscire e a metterli in salvo. La
maggior parte delle persone tornarono nelle loro abitazioni solo per
recuperare sedie, coperte e brandine, faceva freddo e bisognava passare la
notte in piazza ad aspettare che le autorità venissero ad aiutarli. Fu la
notte più lunga per i Napoletani: Piazza del Plebiscito era un dormitorio a
cielo aperto, qualcuno girava con la macchinetta del caffè per offrirlo a
tutti e per fornire un po’ di conforto, un po’ di legna accesa dava quel
po’ di calore.

Giovanni
trascorse la notte nella macchina di suo padre, era una Fiat 127, i
sediolini in pelle gli davano un senso di nausea. Mariolino riuscì a
incontrare tutti gli scugnizzi, ne mancavano solo tre all’appello e venne a
sapere successivamente che si trovavano all’ospedale dei Pellegrini, per
fortuna però in buone condizioni. Arrivarono notizie che dalla zona
dell’Irpinia c’erano tanti morti e gli aiuti tardavano ad arrivare, lo
sgomento e la rassegnazione calò tra la gente, quella luna piena quella
notte sembrava piangere e osservare quella povera gente sofferente lì al
freddo senza sapere cosa fare, ma bisognava pensare alla sopravvivenza e
null’altro, il popolo Napoletano già abituato a vivere di stenti e ad
arrangiarsi fece appello a tutta la propria esperienza. Il giorno
successivo arrivarono le autorità che distribuirono viveri e coperte,
alcune famiglie andarono da parenti fuori città che riuscirono ad
ospitarli, altre famiglie furono sistemate provvisoriamente in container
costruiti in fretta e furia, alcune riuscirono a prende possesso delle
proprie abitazioni giudicate agibili dalle autorità, alcune furono
sistemate in edifici pubblici, scuole, uffici, etc. Erano luoghi
chiusi e giudicati sicuri, sicuramente migliori della strada. Il terremoto
aveva colto impreparato le autorità che con mezzi limitati cercava di
arginare il più possibile la catastrofe. Non esisteva la Protezione civile,
ci fu bisogno dell’esercito; i “Fanti” dell’esercito italiano insieme ai
Vigili del Fuoco e alle forze di Polizia si adoperarono al meglio. La
situazione era disperata ancor più in Irpinia che contava circa 200.000
morti. Tanti alloggi rimasero disabitati e con essi denaro ed oggetti.
Franco non perse l’occasione per approfittare di questa situazione, si
organizzò insieme a Enzo e Luigi, formarono una squadretta all’oscuro del
loro capo Mariolino con l’intento di introdursi nelle abitazioni
abbandonate e portare via denaro e oggetti di valore. Questa iniziativa fu
portata avanti anche da altri scugnizzi e persone adulte, era un’occasione
da non perdere, volevano a tutti costi uscire dalla miseria derubando altra
povera gente. Il giorno 8 Dicembre 1980 per strada c’era poca gente,
Franco, Enzo e Luigi individuarono un’abitazione al primo piano con il
balcone con le ante aperte, Franco si arrampicò aggrappandosi al tubo delle
condutture idriche e balzò nell’abitazione portando via con sé 300.000 lire
e un orologio di valore, nel frattempo Enzo e Luigi facevano da vedette. Il
bottino fu cospicuo tanto che spinse i tre a commettere altri furti, ignari
del fatto che la Prefettura era stata già avvertita dei ricorrenti furti
nelle abitazioni. Ci fu un’intensificazione di controlli da parte di
Poliziotti in “borghese” con abiti civili in modo da non essere facilmente
individuati. Giravano nei vicoli fingendosi abitanti. Oltre a proteggere i
beni delle persone bisognava anche salvare la vita dei ladri in quanto si
trattava di edifici dichiarati non agibili e pericolanti. Questa volta
Franco aveva mirato all’abitazione di un noto commerciante del quartiere,
per cui si ipotizzò un cospicuo bottino. I tre si incamminarono ma furono
presto intercettati da due poliziotti in borghese, i quali li seguirono
senza farsi notare. Franco si arrampicò e si introdusse in casa, Luigi e
Enzo furono bloccati dai Poliziotti e intimarono Franco a scendere e a
consegnarsi, Franco non accennò a nessuna fuga: si consegnò alla legge in
silenzio, i suoi sogni di uscire dalla miseria in tempi rapidi si era
infranto, non immaginava cosa lo stesse aspettando e non riusciva a
pensare.

L’amarezza
e la delusione lo ammutolì. Luigi e Enzo piangevano; forse perché già
consapevoli di cosa gli aspettasse. Furono portati in Questura e subito
trasferiti nel carcere minorile “Filangieri”. La notizia fece subito il
giro del quartiere e arrivò presto a Mariolino che apprese con tristezza.
Rimase deluso soprattutto dal fatto che il tutto era stato svolto di
propria iniziativa senza aver chiesto il permesso e senza aver diviso i
proventi con la banda. Franco era uno scugnizzo fortemente assetato di denaro:
credeva che rubare fosse l’unico modo per ottenere il riscatto. Tanti altri
scugnizzi di diverse bande furono acciuffati dai poliziotti: il carcere era
pieno. Le istituzioni riuscirono ad arginare il fenomeno dei furti, il
quale era in forte espansione in quanto i guadagni erano alti. Un
giorno tre poliziotti bloccarono due scugnizzi, ma furono assaliti dagli
abitanti del quartiere che permisero ai due scugnizzi di mettersi in fuga.
La gente era stremata ed esausta, aveva perso fiducia nelle istituzioni; li
giudicavano nemici e il distacco tra loro si evidenziò ancora di più. La
repressione da parte dello stato non fece bene alla popolazione. Il Natale
del 1980 portò solo fame e disperazione, gli aiuti arrivavano ma erano
insufficienti alla popolazione, mancava tutto; i pochi beni alimentari
distribuiti quali pasta e pezzi di formaggio andavano prelevati recandosi
con mezzi propri al piazzale adiacente allo stadio S. Paolo, spesso con
file lunghe ed estenuanti. La befana non portò nessun dono agli scugnizzi
la notte del 5 gennaio 1981, i genitori non lavoravano da mesi, la maggior
parte svolgeva lavori in nero privi di tutele e di conseguenza non c'erano
soldi per poter esaudire i piccoli desideri dei propri figli. Giovanni ai
tempi frequentava le scuole elementari nella chiesa del quartiere; il prete
aveva messo a disposizione la chiesa per far sì che le lezioni
continuassero in modo da portare avanti, in parte, una vita quotidiana
apparentemente normale. Giovanni con la sua famiglia si trasferì nel quartiere
di Capodimonte presso l'abitazione di sua nonna Paterna. La loro abitazione
era stata dichiarata non agibile. Tutti i giorni sua madre prendeva
l’autobus e lo portava in chiesa a fare lezioni ai Quartieri Spagnoli. In
una piccola stanza c'era un grosso tavolo e tutt'intorno tanti ragazzini
seduti poco distanti l'uno dall'altro. Era uno scenario surreale, vedere
Napoli ridotta in quelle condizioni. Un giorno, uscendo dalla chiesa,
Giovanni incontrò Ninetta che gli riferì che la sua famiglia era stata
sistemata nell'edificio della vicina scuola elementare. Inoltre, gli riferì
che Franco, Luigi ed Enzo erano stati rinchiusi nel carcere minorile
Filangieri per furto. Questa notizia turbò Giovanni, al punto che nei
giorni successivi incontrò Mariolino per chiedergli quando sarebbero usciti
dal carcere. Mariolino replicò: <<Devono fare almeno sei mesi.
Praticamente, usciranno ad agosto.>> Così si organizzarono per
scrivere una lettera da inviare al carcere. Strapparono alcuni fogli da un
quaderno di scuola, comprarono il francobollo e scrissero la lettera, che
fu successivamente imbucata. Per acquistare i francobolli, Giovanni spese
circa l'equivalente di due paghette, che ammontavano a mille lire a
settimana. La lettera non mancò di risposta: anche Franco scrisse, e riferì
che Luigi ed Enzo erano in sofferenza, mentre Franco riferì del suo
sentimento di vendetta nei confronti delle istituzioni, evidenziando
l'assenza di pentimento. La sua rabbia era dovuta dal fatto che la sua
reclusione non gli permetteva di aiutare la famiglia, la quale pativa la
fame. Il giorno 15 agosto 1981 la banda si riunì, la crisi del terremoto
sembrava stesse "andando via": molti edifici furono riparati o
dichiarati agibili. I venditori ambulanti affollavano i vicoli di Napoli,
sembrava stesse tornando l'ambita normalità. Mariolino e una decina di
scugnizzi, tra cui Giovanni, si recò dinanzi al portone del carcere. Alla
sua apertura, uscirono Franco, Enzo e Luigi. Erano anche presenti i
rispettivi genitori, ma non quelli di Franco. Mariolino gli si avvicinò e
disse: <<Bentornati scugnizzi, bentornati tra noi.>>. Ci furono
abbracci di commozione. I tre avevano appena lasciato quella che doveva
essere una struttura rieducativa, per tornare ad essere scugnizzi. Si
incamminarono, e lungo la strada, i commercianti donavano i loro prodotti
in segno di solidarietà, quasi a dire <<Noi siamo con voi, non con lo
Stato.>> L'abbraccio tra Giovanni e Franco fu intenso, Giovanni tra
le lacrime disse: <<Nun m'lassà chiù!>>. (non mi lasciare più)
Franco fece un piccolo sorriso e disse: <<Noi diventeremo grandi scugnizzi,
vedrai.>> Fu un giorno indescrivibile. Lungo la strada incontrarono
Ninetta, che era lì ad aspettarli. Tornarono nel piazzale, era una giornata
calda. Mariolino si rivolse a tutti gli scugnizzi e disse: <<Che
questo ci serva come lezione, da adesso in poi cercate di non fare troppi
guai! Altrimenti fate la fine loro.>> Franco espresse la sua
ribellione in merito e disse: <<Non dobbiamo accontentarci delle
briciole: bisogna fare cose grandi per guadagnare tanto, abbiamo le famiglie
che hanno bisogno!>> Mariolino lo affrontò senza indugi:
<<Bisogna fare quello che dico io. Non si discute.>> Ci fu uno
sguardo di sfida tra loro. La cosa più triste fu che altri giovani che
erano stati reclusi in quel carcere pentiti delle loro azioni decisero di
andare a lavorare e lasciare la vita da strada, ma appena sentivano che
avevano precedenti penali nessuno offrì a loro un lavoro stabile e serio,
furono abbandonati a se stessi e a ritornare a fare la vita da strada
contro la loro volontà, spazzati via dalla società civile senza nessuna
possibilità di integrazione, gli unici che offrirono lavori furono i
piccoli commercianti di quartiere ma erano lavoretti saltuari e provvisori,
purtroppo era quello che riuscivano ad offrire a quei poveri ragazzi ormai
marchiati per sempre.

Durante
l'estate del 1982 erano in corso i mondiali di calcio in Spagna, la
nazionale italiana iniziò nel peggio dei modi con tre pareggi contro la
Polonia, il Perù e il Camerun, riuscì a qualificarsi con soli tre punti
grazie alla differenza reti. L'Italia si accingeva ad affrontare nel girone
successivo Argentina e Brasile, le squadre più forti al mondo. A Napoli
c'era uno spirito diviso tra quelli che erano a favore della nazionale e
quelli che non se ne sentivano parte. Giovanni era invece entusiasta: comprò
un album di figurine e si fece cucire da sua madre una bandiera italiana
con tre pezzi di stoffa riciclati, uno bianco, uno rosso e uno verde. Un
giorno Giovanni incontrò Franco, che alla vista della bandiera gli diede
uno schiaffo e disse: <<Giovà, sei un cretino, tu devi tifare solo
Napoli non l'Italia. Tu sei napoletano non italiano, ricordalo.>>
Giovanni replicò: <<Ma che dici? A scuola non hai imparato che Napoli
è una città italiana?>> Franco rispose infastidito:
<<Innanzitutto io non sono mai andato a scuola e poi Tu lo sai che in
quella squadra che stai tifando non c'è un solo napoletano, e nemmeno uno
che gioca nel Napoli? È vero che hanno scelto i migliori, ma ricorda che il
Napoli nel campionato si è classificato al quarto posto, possibile che non
ci sia un giocatore all'altezza? Potevano portare Bruscolotti, invece lo
hanno lasciato a casa. Almeno uno, invece niente. Quasi a dire non vi
vogliamo, non fate parte dell'Italia. Noi non siamo italiani:
sappilo.>> Giovanni lo guardò, gli cadde la bandiera a terra. Valutò
con attenzione il ragionamento di Franco che rappresentava il pensiero di
tanti napoletani. Si ricordò che l'attore Bud Spencer in un’intervista
dichiarò di essere Napoletano e non Italiano. C'era un po' di confusione, a
scuola venivano insegnate cose contrapposte a quelle della strada. Un po'
indeciso, Giovanni si recò da onn’Umberto, un uomo nato nel 1915 che aveva
combattuto la Seconda guerra mondiale in Africa. Quest'ultimo non aveva un
avambraccio. Era un uomo molto chiassoso, simpatico e folcloristico, ma
allo stesso tempo saggio. Abitava in un umile basso ai Quartieri Spagnoli.
Raccontava sempre agli scugnizzi intenti ad ascoltarlo seduti in casa sua a
terra con le gambe incrociate le sue avventure di guerra, affascinanti
racconti che lasciavano senza fiato tutti. Raccontava i fatti in un modo
così reale da sembrare di averli vissuti davvero. La vera guerra, quella
vissuta, quella cruda. Aveva visto arti volare in aria, gente piangere. A
volte i suoi racconti non combaciavano con ciò che veniva raccontato dai
libri di storia.

Giovanni
bussò alla sua porta ed egli lo accolse con felicità come sempre. Gli pose
il dubbio che lo turbava, bisognava essere italiani o Napoletani?
Onn'Umberto fece un sorriso e disse: <<Tu vai a scuola. Cosa ti hanno
insegnato sui briganti dopo la cosiddetta unità d'Italia?>> Giovanni
rispose che erano banditi e delinquenti. Onn'Umberto si alzò dalla sedia e
disse: <<Sbagliato! Mio nonno, nato nel 1855 mi ha sempre raccontato
la verità, quella che non c'è scritta in nessun libro di storia. I briganti
erano patriottici che lottavano contro gli oppressori e invasori Savoia che
occuparono la nostra terra portando via le nostre ricchezze, uccidendo
innocenti e stuprando donne. Ecco la verità. Quella raccontata dalla gente,
non quelle fesserie che si leggono sui libri stampati da case editrici del
nord vendute ai corrotti!>> Giovanni chiese un po' di acqua e
zucchero che gli fu offerta con un sorriso da onn'Umberto che aggiunse:
<<Vivi con libertà la tua vita, ricorda!>> Giovanni rispose:
<<Io sono libero!>> onn'Umberto rispose: <<Tu sei
giovane, vedrai l'anno 2000, il mondo cambierà. Saremo schiavi della
tecnologia, tutto questo limiterà la nostra libertà. La paura sarà la loro
arma e con la paura vi renderanno schiavi, vi metteranno contro l’uno con l’altro
creando concorrenza tra di voi senza nemmeno che ve ne accorgiate>>
Giovanni disse: <<Cosa ci aspetta?>> Si alzò di balzo dalla
sedia e scappò via, senza raccontare a nessuno di quanto ascoltato. Quasi
rassegnato, sposò il pensiero di Franco, prese la bandiera italiana, la
strappò e si fece realizzare un’altra bandiera con un pezzo di stoffa
azzurro e con un pennarello scrisse: <<Forza Napoli per
sempre>>. Affisse la bandiera alla finestra di sua nonna, per
dimostrare di non essere italiano, ma bensì napoletano. In quel periodo,
finalmente il loro edificio ricevette il certificato di agibilità e
riuscirono fare rientro nell'abitazione. La casa aveva qualche crepa, ma
nulla di grave. Nel luglio del 1982 l'Italia vinse i mondiali di calcio.
Parte della popolazione scese per strada per festeggiare, mentre un'altra
porzione rimase a casa per dimostrare la propria contrarietà. Franco
profittò anche di quest'occasione per intrufolarsi tra i festeggiamenti e
sfilare i portafogli dalle tasche delle ignare vittime. Proprio in
quell'occasione il padre di Giovanni vinse al Totoamici (era un gioco che
ogni concorrente giocava la sua schedina, chi accumulava più punti a fine
campionato vinceva un monte premio in denaro) una somma di tre milioni di
lire che gli permisero di ristrutturare il bagno di casa. Con il restante
denaro affittarono una casa al mare a Castel Volturno per tutto il mese di agosto.
Giovanni convinse suo padre a portare con loro in vacanza anche Gigino, il
suo caro amico. Quest'ultimo era molto povero e non era mai stato al mare.
Aveva delle piaghe sotto i piedi dovute alla scarsa igiene e alle scarpe
scadenti indossate. Onn'Antonio, il padre di Giovanni non esitò ad
accettare e a sue spese decise anche di curargli i piedi e comprargli un
paio di scarpe adeguate. A Giovanni fu impedito di portare con sé Franco in
vacanza, i suoi genitori non lo vedevano di buon occhio. Prima di partire,
Giovanni salutò tutti i suoi amici scugnizzi, tra cui Ninetta. Il primo di agosto,
tutti nella macchina, partì. Era un luogo dove tutti i parenti ed amici
della famiglia dei genitori di Giovanni andavano. Affittavano un
appartamento in una palazzina a due piani, al primo piano c'era la
palazzina di Giovanni, mentre al secondo quella di Mariolino, insieme alla
sua famiglia. Giovanni portò con sé la sua bicicletta, che suo padre aveva
acquistato al costo di cinquemila lire. Giovanni era molto eccitato, il
fatto di fare le vacanze con il capobanda era motivo di vanto, gli dava
lustro. Una volta arrivati, onn’Antonio disse a Giovanni e Gigino:
<<Ragazzi, c'è una sola bicicletta e voi siete in due. Giovà, anche
se è tua dovrete condividerla, anche lui ha il diritto di giocare.>> Per
suddividere equamente il tempo di gioco, i ragazzi si ingegnarono e
costruirono una clessidra artigianale con una bottiglia riempita d'acqua
attaccata alla bicicletta, che cominciava a gocciolare alla partenza di
quest'ultima. Il completo svuotamento della bottiglia indicava la fine del
turno.
Furono giornate belle e spensierate, l'aria d'estate metteva di buon umore
e quel luogo faceva dimenticare i tanti problemi che c'erano a Napoli. Gigino,
dopo una settimana manifestò un senso di nostalgia nei confronti della sua
famiglia, anche se si stava in realtà divertendo. Giovanni ne parlò con suo
padre, che si adoperò per accompagnarlo a Napoli nel caso in cui volesse
tornare. Un giorno, Giovanni e Gigino stavano facendo ritorno a casa dal
mare a piedi. Si incamminarono in un viale colmo di gente, perdendosi
successivamente di vista. Giovanni cercò Gigino ma non lo vide, pensò che
stesse facendo ritorno a casa per cui decise di incamminarsi. Notò però che
fu il primo ad arrivare. Dopo due ore; Gigino non fece ritorno, per cui
decise di avvisare i suoi genitori che non esitarono a prendere l'auto e a
cercarlo tra i viali di Castel Volturno. Lo ritrovarono in un viale che
piangeva, si era perso. Lo recuperarono e lo portarono a casa. Gigino in
lacrime e dispiaciuto, disse che sarebbe voluto tornare a Napoli, non
riusciva a stare lontano dalla sua famiglia. Il giorno successivo, i
genitori di Giovanni lo accompagnarono a Napoli. Oltre alla nostalgia della
sua famiglia, a Gigino mancava anche la sua vita da scugnizzo. Giovanni
trascorse il resto delle sue vacanze da solo. Il suo occhio attento notò
che ad alcuni edifici mancavano le ferriate dei balconi, la sua curiosità
lo portò a chiedere in giro la motivazione di ciò. Un passante gli rispose:
<<Qui occupano le case. Il ferro poi se lo vendono>> Castel
Volturno non era il massimo: mancavano molti servizi, non c'erano le fogne,
l'acqua potabile non era disponibile e la delinquenza era dilagante. Purtroppo,
però, per gli stessi motivi era anche molto economico, ed era quindi
accessibile ad una buona parte dei napoletani. La famiglia di Giovanni non
sapeva se avrebbe potuto permettersi una vacanza, ma erano certi che non
sarebbero tornati a Castel Volturno, per quanto i prezzi fossero economici,
la paura li tenne lontani dal luogo di villeggiatura a lungo. In quei
tempi, ripresero la guainelle tra gli scugnizzi. C'erano molti palazzi con
le "sopponte", ovvero dei muri costruiti per sostenere gli
edifici, che restringevano ulteriormente i già stretti vicoli facilitando
scippi e rapine. Si avvicinava il periodo natalizio. Giovanni e Ninetta
stavano passeggiando in un vicolo quando all'improvviso sbucò un uomo sulla
quarantina che correva, alle sue spalle vi era un altro uomo che lo
inseguiva gridando: <<Sono un poliziotto!>> con una pistola in
mano, intimandogli di fermarsi. L'uomo continuò a scappare, fino a quando
il poliziotto non gli sparò un colpo alla gamba. Il tutto davanti ai due
bambini, spaventati. Si posizionarono con le spalle al muro, indecisi sullo
scappare a destra o a sinistra. Preferirono rimanere fermi, mano nella
mano, ad assistere alla scena. Il poliziotto raggiunse l'uomo, che era
ormai a terra immobilizzato e in sofferenza. Fu ammanettato e fu portato
via da un'ambulanza chiamata dal poliziotto stesso. Appena andò via,
Giovanni e Ninetta notarono che poco più avanti c'era una pistola. Evidentemente
quell'uomo se n'era sbarazzato per evitare ritorsioni. La raccolsero e la
consegnarono a Mariolino, che rispose: <<Me la vedo io per farla
sparire.>>. Ovviamente, come è tipico dello scugnizzo, Mariolino la
vendette al miglior offerente. La vita da scugnizzo riservava anche aspetti
poco piacevoli, quella paura che bisognava reprimere a tutti i costi quando
ci furono sanguinose lotte per contendersi gli alberi di Natale per il
cippo di Sant'Antonio previsto per il 17 gennaio 1983. Ninetta trascorse le
sue giornate in casa, lontana dai combattimenti in strada. Nella sua
famiglia i ruoli erano invertiti, era lei a tenere d'occhio sua madre, in
quanto le sue condizioni psichiche erano in netto peggioramento. Ormai non
avevano più energia elettrica, perché non avevano pagato le bollette. Un
giorno, suo padre On Peppe andò a trovare dei parenti a Ceccano per un
lutto, lasciando Ninetta e sua moglie a casa da soli. La madre di Ninetta
fu vittima di uno dei suoi attacchi di panico che la portarono ad
abbandonare la casa senza dare spiegazioni, lasciando la piccola da sola,
che al momento stava dormendo. Al suo risveglio, Ninetta realizzò che sua
madre non c'era più. Si affacciò alla finestra ed iniziò a piangere,
gridando. La sua voce attirò l'attenzione di una vicina di casa, che aprì
la porta e porto con sé Ninetta. La fece dormire con loro al sicuro. Il
giorno successivo, al ritorno del papà, vide che in casa non c'era più
nessuno. Chiese alla vicina dove fossero andate sua moglie e sua figlia, e
quest'ultima gli spiegò la situazione. On Peppe si arrabbiò e disse che
ormai aveva chiuso con sua moglie. Stava portando diversi problemi e non ne
poteva più, questo suo gesto portò alla rottura definitiva al rapporto tra
i genitori di Ninetta. Ninetta fu portata dalla sorella di suo Padre: una
donna molto magra, bassa e cattiva. Dalla stessa zia stava sua sorella.
Andò in contro al suo destino in un appartamento di periferia destinato ai
terremotati. La casa andò persa in quanto la lasciarono tutti, e fu ceduta
ad un’altra famiglia. On Peppe lavorava in un garage vicino all'Ospedale
San Gennaro nel Rione Sanità. In quello stesso garage c'era anche un
piccolo stanzino munito di branda e bagnetto dove riusciva a passare anche
la notte. Pochi giorni dopo, Giovanni si recò presso l'abitazione di
Ninetta, ma notò che era chiusa da diversi giorni. Iniziò a preoccuparsi e
si rivolse alla vicina chiedendogli dove fosse andata, quest'ultima gli
rispose: <<Guagliò, Ninetta sta con sua sorella da una sua zia in
periferia. Suo padre vive in garage e sua madre e andata via di casa e vive
per strada. Purtroppo, la famiglia si è sfasciata, ma per fortuna Ninetta
sta bene.>> Giovanni temeva di non poter più rivedere Ninetta, quel
pensiero lo tormentava. Chiese conforto a Franco che non fu molto delicato
e rispose: <<Giovà pensa che ora lei sta bene, qui con noi non stava
bene.>> Giovanni era triste, ma allo stesso tempo era contento del
fatto che Ninetta aveva un luogo sicuro dove stare. Purtroppo, la realtà
era ben diversa, sua zia Filomena trattava molto bene sua sorella, ma
disprezzava Ninetta. Sosteneva che lei non fosse la figlia di suo fratello,
On Peppe e che la mamma la avesse concepita con un parente che la
corteggiava. I tanti pettegolezzi spinsero la zia a credere a questa
storia, e non riconoscere Ninetta come sua legittima nipote. Filomena era
vedova e viveva con i suoi genitori. Aveva un figlio di nome Claudio. Tutti
insieme vivevano con la pensione dei vecchi. I restanti si avvalevano di
espedienti per poter arrotondare, la pensione dei genitori non era
sufficiente a sostentare tutti, e la situazione peggiorò notevolmente con
l'arrivo di Ninetta. Ninetta trovò subito un clima ostile nei suoi
riguardi; sua zia gli fece subito pesare il fatto che rappresentava una
bocca in più da sfamare. Non perdeva occasione per ricordargli il fatto che
suo padre non contribuisse al suo sostentamento. Ninetta era carina e
docile, sua zia Filomena era brutta già questo le rese ostile perché
gelosa. I nonni tacevano davanti a queste azioni. Gli unici interventi
erano del nonno, che saltuariamente diceva: <<Un giorno pagherai per
tutto il male che stai facendo a questa piccola!>> Un giorno,
arrivarono al punto che non c'era nulla da mangiare, neanche i soldi per
acquistare del cibo. Zia Filomena guardò Ninetta e disse: <<Qua non
c'è niente da mangiare, ci dobbiamo inventare qualcosa. La pensione arriva
tra dieci giorni e non possiamo aspettare.>> Non perse tempo per
organizzare una truffa con la collaborazione di Ninetta e Claudio; si
spostarono in un paese periferico con la loro auto e individuarono una
salumeria, vittima. Ninetta e Claudio si recarono in un portone nei pressi
della salumeria, presero un cognome a caso dai citofoni e fecero un grosso
conto a credito del cognome scelto. Una volta presa la spesa, sparivano.
Era comune fare credito per comprare, soprattutto a causa delle diverse
difficoltà economica; quindi, questo tipo di truffa aveva una buona
possibilità di riuscita. A volte capitava che il cognome non coincideva con
il cliente, in quei casi lasciavano i prodotti sul bancone e scappavano.
Compirono diverse truffe presso diversi esercenti. Zia Filomena comprese
subito che la piccola Ninetta era molto sveglia e capace e pensò subito a
farle commettere azioni più eclatanti. Non si accontentò del cibo; mirò al
denaro. Aveva trovato la gallina dalle uova d'oro. Utilizzò il ricatto per
indurla a vendere sigarette di contrabbando da mendicante. Ninetta, da
sola, era costretta ad incamminarsi con dieci stecche di sigarette nella
Zona Industriale di Napoli, ricca di attività e con numerose persone
intente ad acquistare sigarette.

La giovane
età di Ninetta le permetteva di vendere più sigarette, in quanto non ci si
limitava al semplice acquisto ma veniva anche considerata come una sorta di
elemosina. Ninetta si trovò a sostenere una situazione più grossa di lei,
soffriva, si sentiva sola ed abbandonata, ma non aveva nessuna intenzione
di mollare. Nell'estate del 1983, le temperature raggiunsero quasi i 40 °C.
Ninetta, sempre più affaticata, svolgeva il suo giro di vendita di
sigarette. Si spingeva anche al porto e al mercato, ormai era conosciuta
ovunque e a volte si recava nei "bigliardi" dove si incontravano
gli uomini "'e miezz a vij" che erano propensi a dargli banconote
di grosso taglio per invitarla a lasciare il luogo in quanto malfamato e
considerato pieno di insidie per una piccola fanciulla. Gli veniva detto:
<<Nennè, via via da qua. Questo posto non è per te.>> Ninetta a
volte riceveva anche cinquantamila lire, somma sufficiente per lasciare
tutto e tornare a casa con il bottino. Non riusciva a capire perché fosse
stata abbandonata dai suoi genitori, suo padre promise che quanto prima
sarebbe venuta a prenderla, ma sua madre decise di andare via senza più
tornare. La sera, in silenzio, senza farsi sentire da nessuno, piangeva. Il
periodo invernale, Ninetta guardava tanti fanciulli ben
coperti dal freddo che insieme ai propri genitori andavano a comprare i
doni per l'epifania. Lei aveva abiti leggeri e scarpe sottili, soffriva il
freddo, ma doveva comunque compiere il suo giro per portare i soldi a casa.
Un giorno, il nonno gli disse che sua madre aveva deciso di fare la vita da
barbona, la sua esistenza in piena povertà la faceva sentire libera da ogni
pregiudizio, da ogni accusa e da ogni ordine. Era una donna mite, di poche
pretese, nessuno gli aveva insegnato nulla della vita. Gli serviva solo che
qualcuno glielo insegnasse, invece trovò solo cattiveria da parte dei suoi
parenti, che non facevano altro che giudicarla. Suo padre usava
atteggiamenti maschilisti: la umiliava in diversi modi, a volte gli
chiedeva di avvicinarsi solo per dargli uno schiaffo, per poi ritornare
alle faccende di casa. Zia Filomena vietò a Ninetta di frequentare la
scuola e gli amici. Le tolse tutto ciò che la faceva sentire femmina. Gli
concesse solo due umili vestitini. La spogliò di ogni diritto, ma non
riusciva a toglierle la sua dignità. Ninetta eseguiva gli ordini a testa
alta, mentre sua sorella veniva coccolata e godeva di tutti i privilegi,
senza fare nulla per aiutarla. Nel luglio del 1984, due turisti tedeschi si
trovarono presso i Quartieri Spagnoli e furono attratti dagli scugnizzi.
Giovanni fu avvicinato da loro che fecero alcune domande. Gli chiesero il
perché fossero sporchi, trasandati, con i pidocchi e con i denti gialli e
gli chiesero perché giocassero per strada. Ci fu una lunga conversazione. Giovanni
in parole povere gli spiegò cosa fosse uno scugnizzo e i turisti
affascinati da questa figura, scattarono una foto ad una decina di
scugnizzi.
Questi chiesero al tabaccaio vicino di distribuire agli scugnizzi le
quindici copie della foto che sarebbero state sviluppate da loro in
Germania. Le foto arrivarono, ogni scugnizzo ricevette la sua foto. Fu un
momento di gioia, credevano di aver ricevuto fama in Germania; invece, i
due turisti tedeschi documentarono il perché in Italia, quinta potenza
mondiale, ci fossero ancora delle aree così sottosviluppate. Si sentivano
degli idoli, riconosciuti da tutto il mondo. Franco non era presente nella
foto, per cui sminuì la cosa: <<È solo una foto in bianco e nero
fatta da due forestieri. Gli eroi sono gli scugnizzi che sanno guadagnare i
soldi in piena libertà.>> In quel periodo girava voce, con diffuso
scetticismo, del presunto acquisto da parte della squadra di calcio del
Napoli del giocatore più forte al mondo; Maradona. C'erano tante persone
convinte di ciò, nonostante fosse una notizia incredibile. Quando la
notizia arrivò agli scugnizzi, rimasero per dieci minuti senza parlare,
erano increduli. Ad un certo punto Giovanni esclamò: <<È impensabile,
Maradona al Napoli>>, e ridendo, se ne andò via. Arrivato a casa,
sentì parlare suo padre, che era molto competente di calcio: aveva un'aria
seria e in quell'attimo percepì che forse qualcosa di grandioso stava
accadendo alla città di Napoli. Solo a pensarlo gli venne la pelle d'oca.
La mattina successiva, Giovanni andò a scuola e gli amici di classe non
facevano altro che parlare di Maradona. Uno di loro iniziò a ripetere e a
prendere in giro chiunque credesse in questa notizia, ma Giovanni non
riuscì a star zitto e disse: <<Maradona è già del Napoli.>> Uno
di loro gli chiese: <<Come fai a saperlo? Chi ti ha dato questa
notizia?>> Giovanni rispose: <<Me lo ha detto mio padre, lui
non si sbaglia mai.>> Ci furono grida di festeggiamenti in classe,
nonostante avessero tutti la consapevolezza che in realtà di ufficiale non
c'era proprio nulla. Ogni tardo pomeriggio, Giovanni andava all’edicola a
comprare un quotidiano: "Le ultimissime" per avere aggiornamenti
sulla trattativa in corso tra la Società Sportiva Napoli e il Barcellona
tramite Antonio Juliano, direttore sportivo del Napoli. Maradona ormai era
in rottura con il Barcellona, per cui si fece avanti il Napoli per
acquistarlo. Il Barcellona chiese tredici miliardi di lire, con la
convinzione che il Napoli non potesse permetterselo; invece, come spesso
accade nella città di Napoli, ci fu un miracolo: i soldi c'erano, grazie
anche all'aiuto del sindaco e del Banco di Napoli. Il presidente Ferlaino
con molta astuzia riuscì a portare a Napoli il giorno 4 luglio 1984 il
giocatore più forte al mondo. Ci fu la presentazione di Maradona allo
Stadio San Paolo. Tra i vicoli c'erano bandiere, palloncini e canzoni
dedicate a lui, era un vero e proprio clima di festa. Per gli scugnizzi era
giunto il momento di conoscere il più grande scugnizzo del mondo, il morale
era alle stelle: sembrava che i tanti problemi quotidiani non ci fossero
più per i napoletani, si sentiva un'aria di speranza, di un possibile
riscatto per tutti.
Questo sentimento fu recepito tantissimo, specie tra ceti più bassi. Le
magliette di Diego Armando Maradona andavano a ruba, c'era gente che
metteva l'orecchino come lo aveva lui, si facevano anche acconciature come
le sue. In quel periodo, molti neonati furono chiamati Diego in suo onore.
Incoronato dal popolo napoletano il re di Napoli. Quel giorno Maradona si
presentò allo stadio gremito, non tutti gli scugnizzi ebbero la fortuna di
andarci. Giovanni rimase nei vicoli con gli altri scugnizzi a godersi quei
momenti di gioia. Le aspettative erano tantissime, sembrava che qualcosa di
positivo stesse avvenendo a Napoli. Maradona trovò a Napoli l'ambiente
adatto a lui, familiarizzò subito con il popolo, fu un amore a prima vista,
profondo e inspiegabile che solo un napoletano può sentire. Il messaggio che
portò Maradona a Napoli era quello di una speranza di vita migliore.
Maradona era quello scugnizzo che ce l'aveva fatta e per tutti si apriva
quello spiraglio dal nome speranza e iniziarono a vedere nuovi orizzonti
escludendo che la propria vita non era de tutto quella ideale. Questo
spiraglio di speranza portò nei napoletani la voglia di riscattarsi,
generando il desiderio di maggiore impegno in tutti.

Anche se
Napoli rimaneva comunque una città con tantissimi problemi, la gente li affrontava
però con un'altra ottica: c'era più ottimismo e si affrontavano le giornate
sempre con quel sorriso sulle labbra che non mancava mai. Un giorno
Mariolino radunò tutta la sua banda, fece presente che una decina di membri
non facessero più parte della banda: era iniziato l'esodo verso le
periferie. Mariolino quel giorno fece presente alla banda due problemi che
bisognava arginare il prima possibile: innanzitutto, la recente costruzione
degli edifici nelle periferie destinati agli ex-terremotati portò al
trasferimento di famiglie intere che lasciarono i bassi del centro storico
per spostarsi in queste nuove abitazioni costruite con criteri moderni. Avevano
i termosifoni, il posto auto, ascensore e finalmente le camerette per i
bambini, cosa inesistente nelle abitazioni popolari della città di Napoli.
Erano circa ventiduemila famiglie, che già a fine anni '70 avevano fatto
richiesta per l'assegnazione di un alloggio. La voglia di una vita migliore
fece sì che tante famiglie andassero via, ed insieme a loro, anche i
piccoli scugnizzi e a causa di ciò le tante bande persero molti componenti.
Alcune di queste furono addirittura decimate. Mariolino sapeva bene che era
impossibile fermare l'esodo, e si concentrò sul reclutare nuovi scugnizzi.
Ordinò a tutti di convincere amici e parenti a far entrare a far parte
della banda chiunque si conoscesse. C'erano i "guagliun 'e cas",
i ragazzi che facevano casa e scuola; erano quelli da convincere. La sua
stessa iniziativa fu portata avanti da altri capo banda. Il secondo
problema esposto da Mariolino con molta rabbia, fu che erano presenti nei
bar i Video Giochi e molti scugnizzi attratti da questo nuovo gioco si
recavano spesso a giocare, spesso di nascosto, gli era giunta voce che
c'erano scugnizzi che avevano richiesto ai propri genitori, per l'epifania
del 1985, un videogioco per poter giocare in casa. Con molta rabbia
aggiunse: <<Guagliù, mi hanno detto che c'è qualcuno di voi che per
la befana ha richiesto il videogioco. Sapete bene che è vietato, nessuno
deve comprare roba del genere. Chi gioca a casa è un vigliacco, un
perdente, uno che non sa affrontare la vita. Questo è un aggeggio che vi
isola dal mondo e per questo chi si permetterà di disubbidire sarà
punito.>> Tutti abbassarono la testa, compreso Giovanni, nonostante
non sapesse neanche cosa fosse un videogioco. L'unico a non abbassare la
testa fu Franco, che rispose: <<Io sono certo che qualcuno ci
tradirà, e vorrei che fossi io ad effettuare le punizioni ai
traditori.>> La sua richiesta fu accolta da Mariolino. Questa volta
ci aveva visto bene, aveva una grossa preoccupazione che i videogiochi
potessero togliere gli scugnizzi dalla strada, e bisognava impedirlo a
tutti i costi. Immediatamente mise in atto delle contromisure. Giovanni
chiese a Franco cosa fosse un videogioco, e questi gli rispose:
<<Sono come quelli che vedi nei bar, solo che li attacchi al
televisore. La cosa bella è che non devi metterci i soldi per
giocare.>> Giovanni replicò: <<Si gioca gratis?>> Franco
aggiunse: <<Si, gratis, ma ricordati che è vietato. Stai lontano da
queste cose. Domani vieni con me e ti faccio vedere quanti giocattoli
portiamo a casa, giocattoli veri, non quegli stupidi videogiochi.>>
Nella zona adiacente a Piazza Carità c'era un grosso negozio di giocattoli:
aveva una serranda esterna fatta a rombi, seguita da un piccolo ingresso e
una porta che non veniva chiusa totalmente, dietro quest'ultima c'erano i
giocattoli. Franco, dopo vari appostamenti aveva individuato che appena
dopo la porta c'erano giocattoli di vario genere che potevano essere
estratti, portati via e successivamente essere rivenduti. Bisognava agire
di domenica e fare alla svelta, perché il negozio era in una zona neutra,
non controllata da alcuna banda, per cui c'era il rischio di incontrare
altre bande durante l'operazione. Per aumentare i profitti decise di
portare con sé solo Giovanni. Si organizzarono la domenica del 23 settembre
1984, si procurarono due mazze da scopa attaccate tra loro con del nastro
adesivo, ne presero altre due attaccate allo stesso modo e in cima vi
inserirono un pezzo di filo di ferro che fungeva da gancio. Verso le
ore 15:30 si incamminarono verso il negozio, era una bella giornata, le
strade erano deserte; erano tutti a mangiare e ad ascoltare alla radio la
partita del Napoli con Maradona che giocava contro la Sampdoria. Nessuno
voleva perdersi questo evento radiofonico. Si avvicinarono al negozio e
allungarono al suo interno le due mazze, con una di queste aprirono la
porta e con l'altra tirarono fuori i giocattoli con il gancio, portarono
con sé molti giocattoli: giochi da tavolo, peluche, robot. Era un bel
bottino. Verso le ore 17, Franco disse a Giovanni: <<Aspettami qui
con i giocattoli, io vado a casa, mi faccio prestare la vespa da mia
sorella e vengo a prenderti. Mettiamo tutti i giocattoli dentro a due
grandi sacchi e scappiamo via.>> Franco corse via e Giovanni rimase
lì ad aspettarlo, con un mucchio di giocattoli accumulato sul marciapiede.
Sperava tanto che Franco facesse il prima possibile poiché l'elevato numero
di giocattoli avrebbe potuto dare nell'occhio. Verso le ore 17:30,
passarono da lì due scugnizzi appartenenti ad una feroce banda confinante;
erano volti noti. Si avvicinarono a Giovanni e uno dei due disse:
<<Dove hai preso tutta questa roba?>> Giovanni cercò di
mantenere la calma e rispose: <<Sono giocattoli miei, sto aspettando
che il mio amico viene a prendermi.>> Nel frattempo, uno dei due
scugnizzi corse a chiamare rinforzi, mentre l'altro intratteneva Giovanni
parlandogli. Verso le ore 18 arrivarono rinforzi, erano una decina di
scugnizzi avversari. Accerchiarono Giovanni e gli chiesero più volte dove
avesse preso quei giocattoli. Pressato dalle richieste, Giovanni fu
costretto a confessare il funzionamento del furto.
Uno di loro diede uno spintone a Giovanni facendolo cadere a terra. Alcuni
portarono via i giocattoli ed altri iniziarono a prenderne altri dal
negozio. Proprio in quell'istante arrivò Franco alla guida della vespa
(modello PK 50S). Giovanni tirò un sospiro di sollievo vedendolo arrivare,
ma Franco si fermò di scatto, girò la vespa e scappò via, lasciando
Giovanni solo e indifeso. Per fortuna, uno di loro disse: <<Guagliò
scappa via e non dire niente a nessuno di quello che hai visto. Mi sono
spiegato?>> Giovanni annuì e scappò via, dirigendosi verso la casa di
Franco. Lo incontrò e gli disse: <<Franchetié, che hai fatto, sei
scappato via? Mi hai lasciato lì senza aiutarmi?>> Franco gli offrì
un gelato, dell'Eldorado, lo fece calmare, lo tranquillizzò e gli disse:
<<Io sono la tua guida, non il tuo santo protettore!>> Giovanni
ormai aveva appreso tutto ciò che c'era da apprendere dalla strada, ma quel
giorno capì che in caso di pericolo avrebbe dovuto contare solo sulle sue
forze, senza aspettarsi nulla da nessuno. Il giorno successivo, la notizia
del furto dal negozio di giocattoli fu pubblicata su un quotidiano, oltre a
fare il giro della città. L'articolo spiegava che il furto era stato
compiuto con mezzi rudimentali ma allo stesso tempo geniali. Giovanni e
Franco si promisero a vicenda di non raccontare niente a nessuno
sull'accaduto, perché avrebbe potuto compromette la loro reputazione.
Franco non voleva si sapesse perché consapevole di aver violato il codice
degli scugnizzi; che prevedevano di aiutarsi l'uno con l'altro. Inoltre,
promise a Giovanni che avrebbero compiuto qualcosa di più eclatante. Organizzò
da subito furti di autoradio dalle automobili. Giovanni faceva il
"palo" e Franco si intrufolava nelle auto, rubava le autoradio e
dalla vendita di queste ricavava dalle venti alle trentamila lire. A
Giovanni venivano date però solo cinquemila lire. Giovanni acquistò
nuovamente fiducia e stima nei confronti di Franco. Franco aspettava sempre
che Giovanni uscisse dalla scuola per compiere nuovi furti. Le macchine si
aprivano grazie alle chiavette utilizzate per aprire i cibi in scatola, ad
esempio quella della Simmenthal. Se questo metodo non avesse funzionato, si
sarebbe ricorso alla rottura del vetro. Ci fu una giornata molto cospicua,
che gli permise di guadagnare novantamila lire. Tingevano le 50 lire con il
pennarello dorato e le spacciavano per 200 lire, questo sistema fu molto proficuo.
Giovanni, aveva accumulato così tanti soldi da non sapere come spenderli.
Sua madre se ne accorse e gli chiese la fonte di questo denaro. Giovanni
gli rispose che erano soldi ricavati da lavoretti, ma sua madre non gli
credette: erano troppi per lavoretti. Ne parlò con suo padre e decisero di
proibirgli di frequentare Franco. Chiesero al cugino Luigi di tenerlo
sott'occhio, ma questo gli rispose di non poter assumere questa
responsabilità perché stava lasciando la vita da scugnizzo per occuparsi
insieme ai suoi familiari del traffico di sigarette di contrabbando per cui
non aveva tempo per stare dietro a Giovanni. A questo punto la madre chiese
a Gigino che accettò l'impegno. Giovanni non fu d'accordo a questa
decisione e agì di conseguenza: si incontrava con Franco fuori dai confini
del quartiere, spesso a Piazza Municipio. Andavano nei magazzini Standa,
nella Rinascente e da Upim. Rubavano di tutto e di più. Infatti, in quel
periodo Giovanni aiutò suo padre ad ampliare il presepe e comprò di tasca
sua tutto quello che serviva, dal sughero al muschio fino ai pastori,
aggiungendo anche nuove palline all'albero di Natale. Quel Natale del 1984
sembrava andare nel miglior modo. Suo padre disse: <<Giovà, grazie
per aver comprato tutte queste cose che io non potevo comprare. Non voglio
neanche sapere dove li hai presi questi soldi, l'unica cosa che ti dico e
stai attento, sii sempre prudente.>> Giovanni, con un bel sorriso
rispose: <<Pà, stai tranquillo, ora sistemiamo il nostro
presepe>>. Così si misero in opera. Chi non se la passava tanto bene
era proprio Ninetta che trascorse il Natale con suo padre, sua sorella, suo
cugino, i suoi nonni e sua zia Filomena. La zia continuava a tormentarla e
la rese praticamente schiava. Suo padre era al corrente della situazione,
ma non aveva la forza economica per opporsi. La cattiveria e la
sopraffazione regnavano sovrani in quella casa nella quale nessuno osava
opporsi. Nel gennaio del 1985, dopo l'epifania, la compattezza delle bande
di scugnizzi cominciò a venire meno. La banda di Giovanni si era ridotta a
sole trentadue unità, e dieci di queste avevano meno di dieci anni
ciascuno. La condizione non gli permetteva di essere paragonabili ad altre
bande. Quell'anno i vicoli avevano un aspetto surreale, c'erano delle vere
e proprie guerriglie tra più bande per accaparrarsi gli alberi e il
materiale da incendiare per il "cippo di sant'Antonio". Questa
volta però, la banda di Giovanni ebbe la peggio, la loro minoranza numerica
li portò alla sconfitta. In quel periodo, cominciò a diffondersi una certa
consapevolezza tra i genitori degli scugnizzi, molti di loro infatti furono
costretti ad allontanarsi da quegli ambienti e non poter quindi fare il cippo
di sant'Antonio. Molte parrocchie e associazioni culturali si organizzarono
per togliere i ragazzi dalle strade: organizzavano tornei di calcio,
fornendo anche tutto il materiale necessario, e organizzavano interi viaggi
in autobus per trasportare tutti i ragazzi. Per appassionarli, stampavano
settimanalmente un poster dove erano riportati tutti i risultati, insieme
alle formazioni, i voti e i commenti della giornata di calcio. Questo
veniva esposto nella stazione della cumana di Montesanto, dove tutti i
ragazzi potevano vederlo. Era tutto gratuito, ogni scugnizzo poteva
presentarsi di sua spontanea volontà e nonostante questi ricevessero
minacce dai propri scugnizzi, decidevano di non tornare indietro. Fecero
ingresso in un mondo nuovo, dove le regole erano rispetto e uguaglianza.
Franco e Giovanni ebbero da parte di Mariolino il compito di individuare e
punire gli ex scugnizzi che avevano lasciato la banda. Appena individuati
venivano inseguiti e picchiati duramente, veniva intimato di tornare nella
banda, ma nella maggior parte dei casi non vi era nulla da fare: la
strategia della violenza impartita da Mariolino e gli altri capobanda non
portò nessun risultato sperato, riuscirono solo a reclutare qualche
scugnizzo che non aveva alcun interesse a restare nella banda e ci stava
solo per obbligo.
L'amarezza si leggeva negli occhi di Mariolino che guardò il fuoco del
cippo ardere davanti a sé. Accanto a lui a confortarlo c'erano i suoi
seguaci più stretti: Luigi, Franco, Rosario e Vincenzo. Furono momenti
difficili, bisognava essere uniti nonostante Franco, per convincere ancor
di più Giovanni al commettere truffe e furti, lo portò con sé al mercato
della Pignasecca e gli disse: <<Giovà, vedi quei due vigili urbani?
Ora ti faccio vedere una cosa, li seguiremo senza farci notare.>> Si
intrufolarono tra la folla. I vigili entrarono in una pasticceria e insieme
a loro anche Franco e Giovanni con la scusa di star guardando i dolci in
vetrina, ascoltarono le loro parole. Uno dei due vigili si rivolse al
titolare ed esclamò: <<On Viciè, gli auguri di Natale ce li diamo ora
o domani?> On Vincenzo rispose: <<Adesso, adesso...>>,
successivamente prese due pastiere napoletane e le incartò, senza chiedere
nulla in cambio. I vigili uscirono dalla pasticceria e si recarono dal
macellaio di fianco recitando lo stesso monologo: <<On Mario, gli
auguri di Natale ce li diamo oggi o domani?>> On Mario prese della
carne di prima scelta, la incartò e gliela consegnò, nuovamente senza
chiedere nulla. Anche qui Franco e Giovanni assistettero. Giovanni,
incuriosito, disse a Franco: <<Franchetié, forse ho capito cosa hai
voluto farmi vedere>> Franco sorrise e rispose: <<Vedi quei due
vigili, come tanti altri, che indossano la divisa? Nel periodo natalizio
entrano nei negozi e si fanno consegnare tutti i prodotti in vendita, non
risparmiano nessuno>> Giovanni rispose: <<E perché i
commercianti regalano i loro prodotti a questi individui?>> Franco
aggiunse: <<Non è un regalo, qui nessuno regala niente, è semplicemente
uno scambio. I commercianti pagano con i loro prodotti e in cambio i vigili
chiudono un occhio, forse due, per le tante irregolarità. C'è chi ha il
personale non inquadrato, il bagno fatiscente, chi espone merce all'esterno
occupando il suolo pubblico, insomma, ognuno ha i suoi scheletri
nell'armadio; per loro è difficile andare avanti e quindi usano questi
metodi per cavarsela>> Giovanni, confuso, chiese: <<Non gli
conviene mettersi in regola invece che fare questi regali?>> Franco
rispose di scatto: <<No, costerebbe molto di più. I vigili se
vogliono trovare il pelo nell'uovo ci riescono, è molto più semplice fare
così. Quasi tutti i commercianti usano questa pratica. I vigili urbani non
sono gli unici, ci sono Finanzieri, Carabinieri, poliziotti e gli operatori
dell'USL. È ovvio, io parlo di una parte di loro che è corrotta, ma tanti
altri sono onesti e fanno il loro dovere e spesso si girano dall'altra
parte per non denunciare i loro colleghi, ma quella parte marcia
rappresenta lo stato, uno stato ladro e incapace di aiutare i commercianti
e incapace di aiutare le nostre famiglie che non riescono nemmeno a
garantirci la colazione tutte le mattine>> Giovanni ascoltò con
attenzione le parole di Franco, espresse con tanta determinazione. Franco
aggiunse: <<Io ruberò per sempre, non mi accontenterò mai di
recuperare bottiglie di Coca Cola o di elemosinare un osso di prosciutto. Io
voglio puntare in alto e ci riuscirò con il tuo aiuto, tu sei la mente e io
sono il braccio>> Franco dimostrò a Giovanni che il mondo era
corrotto e le istituzioni assenti, per cui bisognava cavarsela da soli e
non ascoltare tutte quelle belle paroline che la scuola insegnava: gli
insegnanti non sanno nulla della vita, hanno passato il loro tempo a
studiare lontano dalla realtà e dalla verità, ricevono lo stipendio fisso e
garantito ogni mese e non hanno la più pallida idea di come si sopravvive
per strada. Affermò che essere scugnizzo non era un difetto, ma essere un
combattente. Giovanni gli fece un'altra domanda: <<Franchetié ma i
commercianti oltre a pagare in prodotti a questi parassiti in divisa,
devono pagare i soldi anche ai camorristi?>> Franco si irritò e
disse: <<Ti sbagli Giovà, i camorristi garantiscono ordine per le
strade e garanzie per i negozianti e per le famiglie.
Mai nessuno si permetterà di derubare o rapinare il commerciante protetto
dalla camorra e se un loro affiliato va in prigione la camorra provvederà
al sostentamento dei suoi familiari cosa che non fa lo stato se qualcuno
perde il lavoro a nero>> Giovanni chiese: <<Quindi la camorra
si sostituisce allo stato e lo stato alla camorra?>> Franco rispose:
<<Giovà non hai capito niente, lo stato è il male e la camorra è il
bene; sono coloro che offrono lavoro e aiutano la povera gente>>
Giovanni apprese con molto interesse come funzionavano le cose nella città
di Napoli. Giovanni disse: <<E se vai di nuovo in prigione, poi
perderai la tua libertà.>> Franco gli rispose: <<Chi è povero
non sarà mai libero, e ricorda, meglio vivere un giorno da leone che cento
da pecora.>> Giovanni non era molto convinto sul modo di pensare di
Franco che rappresentava il pensiero di tantissimi Napoletani che si
sentivano protetti da un sistema criminale che fungeva anche da
ammortizzatore sociale, tantissimi commercianti pagavano il “pizzo” con
vero piacere e senza ripensamenti. Franco disse: <<Domani ti porto
all'ospedale per farti rendere conto di come siamo combinati>>
Infatti il giorno successivo si recarono in ospedale. Franco fece finta che
gli faceva male il braccio, gli furono messe una bacchetta di legno con
delle infasciature, ma fece questo anche per intrufolarsi nell'ospedale,
allo stesso tempo aveva rimediato anche un po' di materiale medico per la
famiglia (la fascia). I due si incamminarono per i corridoi, c'era gente
messa sulle barelle in fila ed alcuni invocavano aiuto, una donna aveva
finito il lavaggio, ad un uomo bisognava cambiare il catetere, ad un altro
ancora zampillava sangue dal braccio, c'era una vecchietta che aveva i
piedi distesi sulla barella del vicino per tenergli il posto: infatti era
rischioso andare in bagno perché la barella poteva essere presa da qualcun
altro. Giovanni rimase impietrito alla scena pietosa: gente ammassata e
abbandonata al proprio destino senza un minimo di assistenza. Ognuno di
loro era vestito e si arrangiava come poteva. Quei pochi infermieri
facevano il possibile. Franco disse: <<Giovà hai visto come siamo
messi qui? Chi ha i soldini va nelle cliniche private e chi non ha nulla
viene abbandonato a sé stesso, come tutta questa gente>> Dov'è lo
stato? Davanti alle lacrime di una signora anziana, Giovanni implorò Franco
di uscire da quell'inferno. Franco aveva dato una prova rappresentativa
della carenza delle istituzioni e aveva dato lustro alla mala vita con
l’intento di trascinare Giovanni nel suo modo di pensare e spingerlo a
commettere azioni illecite. Intanto Ninetta continuava a trascorrere il suo
tempo al servizio di sua zia Filomena che alzò ancora di più l'asticella:
le impose di portare a casa un minimo di centomila lire al giorno. Lei non
sempre ci riusciva e quando ritornava a casa con un incasso minore veniva
punita, gli veniva rinfacciato il fatto che non volesse aiutare la
famiglia, non gli veniva permesso di mangiare e addirittura un giorno fu
picchiata con una mazza da scopa e le furono strappati i vestiti, inoltre,
le fu detto che non meritava nulla. Per una ragazzina di dieci anni era
quasi impossibile portare un incasso di almeno centomila lire facendo solo
elemosina. Ninetta smise di vendere le sigarette perché attinse le
centomila lire dai soldi destinati ad acquistare le sigarette, per cui non
ne aveva altri per acquistare nuove stecche da rivendere. La sua mansione
si ridusse quindi alla sola elemosina. Sua zia era impassibile su ciò, la
sua unica priorità erano le centomila lire, le raccomandò inoltre che, se
nel caso fosse stata fermata dalla polizia avrebbe dovuto dire che era una
sua propria iniziativa e volontà. Ma, ovviamente, nessuno fece caso a
Ninetta, né i servizi sociali né le istituzioni, Era triste la situazione
ma la piccola Ninetta era completamente abbandonata da tutti aveva perso
anche la banda di scugnizzi che le davano un po’ di calore umano. La zia
usava la sua cattiveria con molta abilità, per giustificare ai vicini
l'assenza di sua nipote per giornate intere si inventava la storia che
Ninetta fosse ribelle, una poco di buono e vagabonda. Per rendere credibile
la sua messa in scena la picchiava in presenza dei vicini, così facendo
copriva l'amara realtà dei fatti. Ninetta pensava sempre a sua madre che
ebbe la fortuna di incontrare una brava persona: un giorno un uomo di nome
Nicola stava pranzando in una trattoria del centro storico, accanto al suo
tavolo c'era Antonietta, seduta con un solo bicchiere di vino, fissava onn’Nicola
mentre quest'ultimo mangiava. Ad un certo punto onn’Nicola la guardò e le
disse: <<Signora, ha bisogno di qualcosa?>> Antonietta rispose:
<<Ho fame, vorrei mangiare quello che state mangiando voi>> onn'Nicola
chiamò il cameriere e chiese di soddisfare tutte le richieste della signora
Antonietta. L'episodio si ripetette per più giorni, offriva alla signora
Antonietta praticamente tutti i giorni. Un giorno le chiese:
<<Signora, ma voi dove abitate?>> Antonietta gli rispose:
<<Non ho una casa, dormo alla ferrovia, per strada>. Da quel
giorno onn’Nicola, che aveva vent'anni di più, prese a cuore la situazione.
Lui era vedovo, la portò a casa sua, la ripulì, le diede una degna
sistemazione e iniziò la convivenza solidale. Egli faceva le pulizie nei
condomini e la portava con sé per non lasciarla mai da sola. Ebbe subito la
consapevolezza che fosse una donna con problemi psichici e che oltre ad
avere bisogno di cure aveva anche bisogno di tanto amore e comprensione.
Antonietta trovò una sua dimensione si sentiva amata e protetta da onn’Nicola.
Franco insegnò Giovanni a guidare prima il motorino e poi la vespa.
Inizialmente fu difficile a causa delle marce, successivamente però imparò
del tutto. Nell'estate del 1985 Giovanni fu ospite a Ischia di suo cugino
Luigi, per trascorrere le vacanze insieme. I loro affari andavano bene: le
sigarette di contrabbando fruttavano molti soldi tanto da permettergli due
mesi interi di vacanze ad Ischia, meta ambita e desiderata dai napoletani.
Si imbarcarono sul traghetto ad Ischia: Giovanni era molto entusiasta.

Dal ponte
del traghetto quel venticello accarezzava il suo giovane viso. I gabbiani
svolazzavano nel cielo del golfo di Napoli e da lontano, oltre la punta di
Capo Miseno si intravedeva l'isola di Procida, piccola, e alle sue spalle,
l'isola di Ischia. Ne aveva sempre sentito parlare, ma non l'aveva mai vista,
finalmente riuscì a metterci piede. Arrivati al porto si fecero accompagnare
da un simpatico tassista su di un triciclo ape. Presero possesso
dell'appartamento affittato a pian terreno in zona Ischia Porto, il fascino
dell'isola verde sedusse tutti, compreso Giovanni che non vedeva l'ora di
godersi il mare e la vacanza. Gli zii misero bene in chiaro le regole di
casa: non erano ammessi fannulloni, organizzavano due squadre composte da
due persone, la zia con Luigi e zio Rino con Giovanni. Individuarono tre
market nella zona da colpire: entravano fingendo di essere normali clienti
e compiendo anche degli acquisti, peccato però che la maggior parte dei
prodotti veniva rubato. Nascondevano prodotti confezionati ovunque; nelle
mutande, reggiseni e borsette. L'isola di Ischia era un luogo tranquillo
per cui non erano abituati a subire furti, la sorveglianza quindi era
praticamente assente semplificando ulteriormente l'atto. Giovanni fu di
grande aiuto, rubava con molta destrezza: aveva la convinzione che fosse un
gesto giusto, ormai quella mentalità da strada gli era entrata nella mente
e sapeva bene cosa fare e cosa non fare. La mattina facevano colazione, e
con la massima tranquillità andavano a razziare il market di turno.
Successivamente si recavano in spiaggia. Erano giorni felici e spensierati.
Un giorno in riva al mare Giovanni conobbe un ragazzino di sei anni di nome
Ciccillo. Era anch'egli in vacanza insieme ai suoi nonni. Era un ragazzo di
piccola statura, molto esile. Aveva vissuto con i genitori in una località
tra Napoli e Caserta. I suoi genitori erano separati già da un anno, sua
madre era reclusa per spaccio di droga, mentre suo padre aveva conosciuto
una nuova compagna che non accettava Ciccillo. Suo padre dovette consegnare
suo figlio ai nonni materni che se ne stavano occupando già da un mese.
Insieme abitavano ai Quartieri Spagnoli. A Giovanni venne subito l'idea di
reclutarlo tra gli scugnizzi. Passavano giornate intere insieme e Giovanni
approfittava spesso per raccontargli di tutte le sue avventure e i vantaggi
che offriva essere uno scugnizzo. Ovviamente omise tutti gli aspetti
negativi per persuaderlo, suscitando in lui molto interesse. Ciccillo non
vedeva l'ora di tornare a Napoli e di far parte della banda di Mariolino.
Giovanni aveva trovato un nuovo membro che, oltre a infoltire la banda gli
permetteva di fare bella figura nei riguardi degli altri. In quel momento
difficile serviva a tutti i costi reclutare nuovi giovani. Giovanni ambiva
a diventare un seguace stretto di Mariolino, in pratica voleva salire di livello
e questa occasione sembrava quella giusta per ottenere ciò. Nell'agosto del
1985 Franco non perse tempo a compiere altri furti e conobbe nello stesso
periodo Pasqualino, un suo coetaneo di una banda avversaria. Si
incontrarono per strada, si confrontarono e trovarono subito delle
affinità. Avevano tutti e due ben chiaro il loro pensiero: ambivano
entrambi ad agire indipendentemente dalla banda. Decisero di rimanere
amici, ma in gran segreto. Rimasero entrambi a far parte delle rispettive
bande, ma solo per facciata, e per organizzarsi in modo serio si
incontravano fuori quartiere. Infatti, Pasqualino propose a Franco un nuovo
metodo per fare soldi: <<Franchetié, domani vieni con me e andiamo al
porto americano, aspettiamo che escono i soldati americani e gli rubiamo i
cappelli>>. Franco, con un interrogativo, rispose: <<Un
cappello? E cosa ce ne facciamo?>> Pasqualino rispose: <<Loro
vengono qui con quei bellissimi cappelli pieni di stemmi. Sono cappelli da
collezione introvabili, per cui molto richiesti. Pensa che per un cappello
del genere si riesce a ricavare dalle cinquanta alle centomila lire>>
A Franco si illuminarono gli occhi: <<Mamma tutti 'stì soldi! Ma i
soldati sono dei bestioni. se ci beccano ci fanno male, bisogna
organizzarsi bene>> Pasqualino lo tranquillizzò: <<Stai
tranquillo, la maggior parte di loro, quando gli viene rubato il cappello
dal capo lo prende come uno scherzo o come un segno di benvenuto. Se la
ridono e ti lasciano andare via>> Franco aggiunse: <<Poi ci dobbiamo
ricordare a chi lo abbiamo rubato, sennò rischiamo che lo incontriamo di
nuovo>> Pasqualino rispose: <<Stai tranquillo, le navi
americane vanno e vengono, ci sono sempre persone diverse>> Quest'idea
piacque molto a Franco tanto da non vedere l'ora di iniziare. Pasqualino
sembrava il partner giusto, Franco riteneva che Giovanni non fosse
all'altezza del gesto. Ad Ischia la vacanza stava giungendo al termine.
Giovanni chiese a Ciccillo come si fosse trovato a vivere in periferia.
Ciccillo gli disse: <<Non è male. Napoli è più bella, l'unica cosa
che non vedo a Napoli sono i continui roghi. Sembra di essere a
Sant'Antuono tutti i giorni e poi ci sono sempre tantissimi camion che
vanno e vengono>> Giovanni rispose: <<Come roghi? Cosa
brucia?>> Ciccillo disse: <<Non lo so, ti posso solo dire che
si sente un cattivo odore nell'aria, a volte diventa irrespirabile>> Giovanni
disse: <<Sicuramente non sono alberi, ma chiederò a
Mariolino>>. In serata, Giovanni si incontrò con Mariolino e oltre ad
avvisargli della sua nuova recluta, gli pose l'interrogativo relativo ai
roghi appiccati nella periferia. Non ci fu alcuna risposta, nemmeno
Mariolino sapeva di questo fenomeno, sembrava che chi abitasse in città
fosse all'oscuro di tutto ciò, ma la questione sembrava seria. Era qualcosa
di grosso che stava nelle mani di qualcuno più in alto. Successivamente,
furono raggiunti da Ciccillo che si presentò e fu inserito nella banda.
Giovanni, ancora tormentato dal dubbio, si rivolse a onn’Umberto accolse
con gentilezza. Giovanni gli espose la questione e on Umberto scoppiò a
ridere: <<Ah Ah! È una storia che va avanti da anni, i camion che
vanno e vengono trasportano rifiuti speciali, li mettono sottoterra e si
fanno pagare per farlo. I continui roghi non sono altro che un gesto
criminale, raccolgono tutti i rifiuti speciali e scarti di lavorazione da
aziende locali e gli danno fuoco, è un modo semplice ed economico per
smaltire. Ovviamente è illegale e a discapito dell'ambiente. C'è una grossa
organizzazione alle spalle che ci guadagna soldi>> Giovanni, ancora
sconvolto, rispose: <<Ma come, le istituzioni lasciano che tutto ciò
avvenga senza intervenire? Non voglio credere che non facciano caso ai
tanti camion e roghi>> onn'Umberto rispose: <<Guagliò, sei
ancora piccolo e tante cose le capirai da grande>> Giovanni rispose:
<<E voi come fate a sapere tutte queste cose? La gente che abita lì
cosa rischia?>> onn'Umberto aggiunse: <<Io so tutto perché
conosco tanta gente e tra non molto quella zona sa inquinata a tal punto
che la gente rischierà di ammalarsi senza avere alcuna speranza>>
Giovanni preferì non credere alle parole di onn’Umberto, non poteva credere
che si stesse consumando un disastro del genere. Era anche preoccupato per
Ciccillo, sperava che avesse lasciato quel luogo in tempo, ma nello stesso
tempo era felice per Ninetta perché si trovava in un'altra località
periferica, ma distante da quella zona. Ancora una volta, Giovanni ebbe un
senso di smarrimento. Gli venivano attacchi di panico e a volte non
riusciva a dormire la notte, era una brutta sensazione che lo attanagliava.
Quando rivide Franco fu felice. Franco gli raccontò subito che stava
rubando i cappelli agli americani insieme a Pasqualino, inoltre gli disse
che non avrebbe dovuto dirlo a nessuno e che non avrebbe potuto portarlo
con sé perché troppo piccolo. Gli confessò che stava guadagnando un bel po'
di soldi e stava finalmente facendo uscire la sua famiglia dalla miseria.
Il suo sogno si stava realizzando. La seduzione di Franco era arrivata a
tal punto che Giovanni lo seguiva ovunque, un giorno stavano passeggiando
via Chiaia videro passeggiare un ragazzo su una bicicletta. All'improvviso,
Franco, senza avvertire corse verso il ragazzo, gli diede una spinta e lo
fece cadere a terra, si sedette sulla bici e iniziò a pedalare velocemente.
Giovanni rimase lì, impietrito per questo gesto improvviso. Si girò a
guardare quel povero ragazzino a terra che piangeva e nello stesso tempo
guardò Franco che si allontanava sempre di più. Per un attimo rimase
indeciso, ma scelse di andare da Franco invece di aiutare quel povero
ragazzino a terra che si era fatto male. Decise di seguire il suo idolo.
Corse tanto e si sedette sul sediolino posteriore, dietro di lui. A quel
punto Franco esclamò: <<Pensavo che saresti rimasto lì a fare il
bravo ragazzo, ricordati che noi siamo nati scugnizzi e dobbiamo
comportarci da scugnizzi.>> Giovanni era lì dietro ad ascoltare le sue
parole, chiuse gli occhi e provò un senso di piacere. Era orgoglioso di
essere uno scugnizzo, orgoglioso di seguire le orme di Franco ed orgoglioso
di portare a casa quel bel trofeo: una bella bici che avrebbe aumentato la
stima nei propri confronti da parte dei propri amici. Giovanni tentava di
emulare il comportamento di Franco, ma non ci riusciva: non aveva la sua
scaltrezza, ma soprattutto non aveva la sua freddezza. Realizzò che tutti
gli oggetti rubati venivano rivenduti e i guadagni andavano totalmente a
Franco. Giovanni cercava di stare lontano, ma il suo carisma lo affascinava
e non riusciva a starne lontano. Dopo alcuni giorni, si recarono in villa
comunale e furono attratti da un circolo privato caratterizzato da campi da
Tennis.

Giovanni
guardò tra le sbarre di un cancello e vide tanti ragazzini della sua età ben
vestiti e ben pettinati, che giocavano a Tennis. Rimase affascinato,
sembrava un mondo magico, tutto era al suo posto. Per un primo momento,
oltre che meravigliato, fu turbato perché scoprì che esisteva un altro
mondo al di fuori del suo. Forse era un mondo che mai gli sarebbe
appartenuto, ma era consapevole della sua esistenza. Incominciò a pensare
che forse uno scugnizzo non era un ragazzo fortunato come molti facevano credere,
forse erano solo dei poveri disgraziati senza alcun futuro. Il suo pensiero
fu interrotto da Franco, che guardando alcune palline di Tennis a terra
all'interno del circolo esclamò: <<Scommetto che quelle palline ti
piacciono e ci vorresti giocare, ma non sei all'altezza di andare a
prenderle. Io ne sarei capace, ma non so se tu ne saresti. Sappi che uno
scugnizzo deve essere capace di ottenere tutto ciò che vuole. Allora ci
vai?>> Giovanni lo guardò e rispose: <<Certo che ci vado, ora
ti faccio vedere di cosa sono capace.>> Iniziò ad arrampicarsi sul
cancello e si calò con cautela all'interno del circolo. Franco rimase fuori
a guardarlo con uno sguardo fiero. Così inizio a raccogliere le palline,
chiamate in dialetto "e palle 'e ciuccio". Mentre le raccoglieva,
uno dei ragazzi del circolo lo vide e chiamò i suoi amici. Giovanni aveva
un sacco di palline raccolte tra le sue braccia e al momento che si
avvicinarono gli caddero una ad una a terra. Si girò per vedere Franco, ma
lui non c'era, lo aveva lasciato lì in quel mondo sconosciuto accerchiato
da tanti ragazzini della propria età. Lui stava al centro, tutto
spettinato, sporco. Iniziò ad avere paura, finché uno di loro gli si
avvicinò e disse: <<Ma da dove vieni?>>. Lui non ebbe nemmeno
il tempo di rispondere che tutti iniziarono ad insultarlo dicendo:
<<Torna nella spazzatura, via di qui, questo posto non ti appartiene,
è solo per gente come noi.>> Giovanni piano piano iniziò ad
avvicinarsi al cancello, quando gli si avvicinò un altro ragazzo con un
apparecchio per i denti in bocca, la quale Giovanni non aveva neanche idea
dell'esistenza, e gli disse: <<Ora ti apro il cancello, tu scappa via
e non mettere più piede qui.>> Giovanni fece un cenno con la testa
per dire "certo". All'apertura del cancello scappò via correndo,
cercava Franco ma se n'era andato. Si sentì umiliato, si incamminò verso
casa un po' confuso perché vide il "mondo dei ricchi", della
gente che vive agiata, dei bimbi che facevano attività sportive in circoli
privati mentre loro dovevano giocare per strada. Sì, la strada, quella che
li aveva formati ad essere scugnizzi e indossare un'armatura invisibile, ma
indelebile. Si incamminò verso casa per il lungomare e pensò che forse la
loro non fosse una vita normale, ma quando tornò tra gli amici, loro gli dissero
che chi ha tanti soldi e vive bene è perché un ladrone, ha semplicemente un
modo diverso di rubare rispetto a loro, ma erano della stessa pasta. In
pratica, fecero in modo di confondere le loro idee. Ma lui non era del
tutto convinto di questa tesi. Ma nonostante tutto, Giovanni e Franco
trascorrevano molto tempo insieme giravano su di una Vespa Special, A
Giovanni iniziò ad avere passione per i motori e comprava spesso le riviste
in edicola. Franco era alla guida mentre Giovanni era dietro seduto. Il
motore era truccato, la vespa infatti sfrecciava per i vicoli. Franco e
Pasqualino continuavano a rubare cappelli in quel periodo in modo
incessante, Franco si accanì tanto perché stava guadagnando soldi che in
vita sua non aveva mai visto, nel febbraio del 1986 uno scugnizzo di nome
Nino d’Angelo stava per esibirsi al festival di Sanremo lui ce l’aveva
fatta mentre per un altro scugnizzo di nome Franco trovò davanti a sé un
grosso ostacolo, Giovanni incontrò per strada Pasqualino che stava
piangendo. Giovanni gli chiese il motivo di ciò: <<Pasqualì, tutto
bene?>>. Lui rispose: <<No, non si trova più Franco.>>
Giovanni: <<Come non si trova più?>> Pasqualino:
<<Stavamo scappando dai militari americani a cui avevamo rubato il
cappello, ci siamo diretti verso il molo e a un certo punto Franco è
scivolato e caduto a mare.
Io l'ho visto, ma dalla paura sono scappato via e da quel momento non so
più che fine ha fatto>> Giovanni< ma come vi hanno inseguiti>
Pasqualino < Sì abbiamo trovato due bestioni che non l’hanno presa bene
e ci hanno inseguiti> Giovanni non esitò, si recò immediatamente dai
familiari di Franco e chiese informazioni, o meglio, voleva sapere se
Franco fosse riuscito a cavarsela. Ma purtroppo nemmeno i familiari
sapevano dove fosse. Fece ritorno da Mariolino e da quel giorno iniziò una
vera e propria ricerca; tutti si adoperarono: i familiari, gli scugnizzi e
la gente del quartiere, ognuno faceva la sua parte. Andarono ovunque a
cercarlo, anche nei posti più impensabili. Trascorsero altri cinque giorni,
ma Franco non fece ritorno a casa. A quel punto i genitori decisero di
rivolgersi alla Polizia che con la collaborazione delle autorità portuarie
iniziò le ricerche inizialmente nel porto di Napoli, ma poi furono estese al
completo Golfo di Napoli. Pasqualino restò rinchiuso in casa per diversi
giorni, sconvolto dall'accaduto. Fu braccato dalla Polizia al punto che
iniziò a raccontare l'amara realtà dei fatti: Franco era scivolato cadendo
in acqua, ma il mare mosso spinse la nave ormeggiata che lo aveva
schiacciato contro il molo. Proprio in quel preciso istante, Franco alzò la
testa ed ebbe solo l'attimo di guardare Pasqualino, con il suo sguardo
triste comunicò che era ormai giunta la sua fine. Da quel giorno Franco non
fu rivisto. Trascorsero altri cinque giorni di ricerche prive di esito. Nel
quartiere si vociferava che Franco fosse riuscito a mettersi in salvo
intrufolandosi in una nave diretta in Sicilia. Questa notizia fu accolta
con molto entusiasmo da parte di tutti che non vedevano l'ora del suo
ritorno a Napoli. La notizia infatti fu anche riportata sui quotidiani
locali. L'entusiasmo della notizia non travolse però Pasqualino, che
mantenne il suo volto cupo e triste, consapevole della terribile verità.
Nei suoi occhi si leggeva qualcosa di strano, di oscuro. Era traumatizzato
dopo aver assistito a quella scena raccapricciante. Mariolino decise
insieme a Giovanni di presentarsi a casa sua. Voleva sapere la verità dei
fatti. I giorni passavano, ma Franco non faceva ritorno a Napoli. Mariolino
disse: <<Pasqualì, tu sei stato presente in quegli ultimi attimi con
Franco, ci devi dire la verità>> Pasqualino replicò: <<E cosa
vi devo dire? Io la notte non dormo più. Ormai ho il suo sguardo scolpito
nella mente>> Giovanni aggiunse: <<Guarda che i giornali dicono
che lui per sfuggire al militare si è introdotto in una nave in partenza
per la Sicilia>> Pasqualino, guardandoli e con un tono di voce alto
disse: <<Guagliù, rassegnatevi, Franco è morto. Ho il rimorso per non
averlo detto subito, mi sono rinchiuso in casa senza parlare più con
nessuno, mi ha spinto la paura>> Il 15 febbraio 1986 arrivò la
tragica notizia, il corpo di Franco fu recuperato al largo del golfo di
Napoli. La notizia fece rapidamente il giro del quartiere fino ad arrivare
a Giovanni che scoppiò immediatamente a piangere. Fu preda di una crisi di
nervi, il suo carissimo amico non c'era più, a soli sedici anni.
Non poteva immaginare che la sua vita si fosse spezzata per inseguire
un sogno proibito: quello di lasciare la miseria. Al funerale c'erano
tantissime persone, sembrava fosse scomparsa una celebrità. Giovanni non si
capacitava, piangeva tutti i giorni, scivolò in una crisi profonda. Per una
decina di giorni si rinchiuse in casa senza vedere nessuno: immaginava
Franco come un immortale. Il dolore fu tanto che lo trascinò in una
depressione. Sua madre spiegò a Mariolino che Giovanni stava malissimo e
per un periodo avrebbe dovuto cambiare ambiente.

Decisero
di mandarlo dalla nonna paterna, nel quartiere di Capodimonte, sperando che
avrebbe potuto aiutarla ad uscire da quella crisi. Mariolino accolse la
richiesta con serenità, sapeva bene che Giovanni era molto legato a Franco,
per cui comprese la situazione. Il padre di Giovanni lo accompagnò dalla
nonna, la quale era già al corrente della situazione e si mostrò pronta ad
aiutare il suo nipotino. Lo tenne come un figlio, lo coccolava, gli
preparava dei bei pranzetti che solo lei con le sue mani fatate riusciva a
fare. Era bravissima la nonnina. La stessa, lo fece avvicinare ad alcuni
ragazzi del quartiere, con i quali riusciva a distrarsi giocando lunghe
partite di calcio al Real Bosco di Capodimonte. Fu una terapia efficace per
Giovanni che nell'estate del 1986 ebbe ben chiaro ciò che voleva dalla
vita: decise di impegnarsi a scuola. Voleva fare il meccanico e infine la
decisione più difficile: quella di smettere di essere uno scugnizzo. La
morte di Franco lo portò a capire diverse cose, realizzò che era tutto
sbagliato e bisognava cambiare direzione; uscire subito da quel mondo
assurdo. Giovanni non era più d'accordo con il vivere per strada, infatti,
il suo carissimo amico Franco a soli sedici anni aveva perso la vita per
dare sostegno alla propria famiglia. La sera, quando si coricava, sua nonna
del 1912 gli raccontava la fame vissuta durante il dopoguerra e gli diceva
sempre che dopo il buio veniva sempre la luce. Chiese a sua nonna di
procurargli abiti decenti. Sua nonna lo accontentò. Giovanni si tagliò i capelli
e decise di pettinarli per dargli ordine. Si specchiò con i suoi nuovi
vestiti e con i capelli pettinati e vide davanti a sé un nuovo futuro, una
nuova immagine, che forse era possibile cambiare. Pensava spesso a Franco,
ne ricordava le parole, che preferiva vivere poco ma buono. Purtroppo, non
fu così: Franco visse poco e male, forse se avesse avuto una guida da parte
della famiglia e delle istituzioni avrebbe preso un'altra strada. Il suo
volto era sempre scolpito nella sua mente insieme alle sue parole, la sua
voce, tutto viveva in sè. Allo stesso tempo pensava alla fine che avevano e
avrebbero compiuto tutti gli altri scugnizzi. Quando tornò nel suo
quartiere, prima di recarsi da Mariolino, decise di fare visita a
onn'Umberto. Gli raccontò della sua decisione e ne chiese un parere. onn'Umberto
stava seduto su una poltrona, fumava sempre la sua sigaretta con molta
pacatezza. Rispose: <<Guagliò, vuoi sapere il mio parere? Ti dico che
fai bene, lo scugnizzo è una figura che sta scomparendo. Le cose stanno
cambiando, man mano i ragazzi lasceranno questa vita, amara e piena di
sofferenza, ma addolcita da parole e fantasia. Avete vissuto finora con
un'illusione che quello che facevate fosse giusto. Ora hai capito che è
tutto finto, ma sappi che anche il mondo lavorativo è ricco di illusioni.
Stai attento e abbi cura di te>>. Lo abbracciò, quasi come se fosse
un figlio, e aggiunse: <<Buona fortuna Giovà>>. Giovanni si
fece forza e si diresse da Mariolino. Nel passeggiare si vedevano pochi
scugnizzi in giro, ormai il numero che avevano abbandonato erano più di
quelli che erano presenti. Le speranze di Mariolino di infoltire la banda
con nuove reclute ben presto fallirono. Questo fenomeno si estese
ampiamente in tutta la città, la situazione stava degenerando sempre di
più. Giovanni stava a pochi metri dalla abitazione di Mariolino, ma
incontrò Ciccillo e disse: <<Ciccì come stai?>> Ciccillo
rispose: <<Giovà tutto bene>> Giovanni: <<Ascoltami,
cerca di stare il meno possibile per strada. Sta' a casa, tutte quelle
belle cose che ti ho raccontato sugli scugnizzi erano tutte fesserie. Non
hai visto che fine ha fatto Franco? Questa è la fine che fai se continui ad
essere uno scugnizzo!>> Ciccillo: <<Ma io mi stavo
divertendo...>> Giovanni: <<Non è un gioco, è una scelta di
vita pericolosa che noi non meritiamo. Io imparerò il mestiere di meccanico
e ti prometto che appena ne avrò possibilità ti farò lavorare con me, ma
nel frattempo vai a scuola e studia>>. Ciccillo accolse la sua richiesta
e apprezzò il fatto che qualcuno finalmente si interessasse a lui. Nemmeno
i suoi nonni si degnavano di considerarlo, si concentravano sull'alcol e
sul gioco d'azzardo. A quel punto, Giovanni arrivò alla porta
dell'abitazione di Mariolino: una vecchia porta con una maniglia malridotta.
Bussò con le mani. Aprì Vincenzo che lo accompagnò da Mariolino. Lui era
seduto su una sedia con un volto già scuro per la situazione, ed un’espressione
rassegnata, come se già sapesse cosa Giovanni gli stesse per dire. Giovanni
lo salutò e disse: <<Mariolì, io sono venuto qua per dirti una cosa
importante, ho deciso di lasciare la vita da scugnizzo perché voglio una
vita diversa e voglio anche imparare un mestiere>> Mariolino rispose:
<<Giovà tu lo sai che qui hai giurato di essere uno di noi e ora vuoi
spezzare questo giuramento?>> Giovanni: <<Mi dispiace, le cose
stanno cambiando. Quello che prima sembrava giusto ora non mi sembra più
corretto, per cui spezzo il mio giuramento>> Mariolino si alzò dalla
sedia e disse: <<Ebbene, vai pure a fare lo schiavo del padrone di
bottega che ti farà lavorare per dodici o tredici ore al giorno per quattro
lire a settimana. Noi resteremo gli scugnizzi e andremo avanti a testa
alta, ma sappi che sei e resterai un traditore e come tale sarai
perseguitato e se un giorno vorrai mai tornare tra noi, non sarai
accettato>> Giovanni: <<Mi dispiace, vi devo lasciare. Comunque
resterete nel mio cuore e non vi dimenticherò mai, anche se da domani
nessuno scugnizzo più mi rivolgerà la parola, io vi vorrò sempre
bene>> Le parole di Giovanni fecero rimanere di stucco Mariolino che
si rese conto dell'amore ricevuto in contrasto con le sue cattive parole.
Quel giorno un altro scugnizzo stava lasciando la banda. Mariolino
concluse: <<Giovà, vai via, non farti più vedere. Buona
fortuna>> Questa parola fece meravigliare Vincenzo che non se
l'aspettava per niente. Avvertiva che Mariolino avesse compreso Giovanni e
sotto sotto in cuor suo lo aveva perdonato. Giovanni uscì dall'abitazione.
Da quel momento si sentiva una persona libera. Quei vicoli grigi ora
sembravano colorati, non vedeva l'ora di iniziare una nuova vita. Da quel
momento quel mondo si chiuse definitivamente per lui. Alzò la testa e si
recò a casa sua. Raccontò ai suoi genitori della sua decisione e questi
ultimi la accolsero con gioia. La morte di Franco aveva scosso anche loro e
temevano che il figlio potesse fare la stessa fine. Da quel momento
Giovanni si limitò ad andare a scuola e studiare. Il suo intento era quello
di conseguire il diploma di licenza media per iniziare successivamente a
lavorare. Ninetta invece era giunta al limite della sopportazione. Aveva
studiato diversi stratagemmi per liberarsi di sua zia Filomena, ma nessuno
sembrava efficace. Forse l'unico modo era la fuga, ma non sapeva da chi
sarebbe potuta andare a soli undici anni. Un giorno di giugno del 1986,
Ninetta, ormai stanca dei tanti soprusi subiti uscì per mendicare, ma si
diresse a Pollena Trocchia, in provincia di Napoli. Lì c'era un fioraio per
cui lavorava suo padre che rimase sorpreso nel vederla. Ninetta, stanca e
arrabbiata, disse: <<Pà, portami via da quell'inferno. Sono tua
figlia, e hai l'obbligo di mettermi al sicuro>> Il padre,
inaspettatamente e senza discutere disse: <<Ninè, vieni con
me>>, la portò in casa del fioraio e chiese la cortesia di tenerla
per un periodo limitato durante il quale avrebbe ricercato una casa in
affitto. Il titolare era un uomo rozzo ma di gran cuore, tenne Ninetta in
casa sua insieme ai suoi tanti figli. Dopo alcune settimane, la nipote del
fioraio, Flora, si offrì di ospitare Ninetta siccome abitava solamente con
suo fratello perché suo marito era detenuto. Suo fratello invece, era
separato. Quest'ultimo cercò di approfittare di Ninetta, la toccava e gli
diceva: <<Ninè, quanto sei bella, quando crescerai sarai la mia
femmina!>>. Per fortuna suo padre trovò una sistemazione in tempo da
alcuni parenti residenti in un appartamento popolare a Volla. Si
trasferirono e per fortuna la convivenza fu abbastanza buona. Finalmente
avevano un tetto e un po' di calore umano. Nel gennaio del 1987 finalmente
riuscirono ad affittare un appartamento tutto loro, era un piccolo
monolocale sprovvisto di bagno ad Acerra, in un palazzo rurale con un
canone mensile di duecentomila lire al mese. Era anche troppo per un
affitto del genere. Erano costretti a fare i loro bisogni in un secchio e
si lavavano nel cortile in cui c'era una fontanina che emetteva acqua
fredda. Le condizioni erano disperate, ma sicuramente migliori di quelle
con zia Filomena. Suo padre faceva le pulizie e guadagnava solamente
duecentomila lire al mese. Si andava avanti a stento. Vivevano in miseria
totale. Ninetta riuscì a trovare lavoro in un negozio di Parrucchiere.
Guadagnava sessantamila lire alla settimana, più di suo padre. Grazie a
quel denaro riuscirono a mangiare e a comprarsi del cibo. Erano giorni
difficili, ma non mollavano. Il 10 maggio 1987 Maradona mantenne la sua
promessa, portò a Napoli il suo primo scudetto. La città era in fermento e
la figura dello scugnizzo sembrava stesse riacquistando il suo prestigio,
ma questa fu solo un’illusione. Finiti i festeggiamenti ritornò quasi tutto
come prima.

Giovanni
continuava a studiare e frequentava gli amici di Capodimonte, aveva
completamente abbandonato il suo quartiere, era considerato qui una persona
poco gradita. Ninetta un giorno conobbe un ragazzo che lavorava in un
panificio sotto casa sua: Armando. Era più grande di lei di cinque anni. I
due si frequentarono e ben presto si fidanzarono. Ninetta sognava una vita
migliore. Armando fu presentato a suo padre che accettò il loro
fidanzamento con serenità. Furono tempi migliori per Ninetta: per la prima
volta nella sua vita le fu regalata la celebre calza della Befana. Si
aprivano per lei tempi sereni. Giovanni invece legò con un suo amico di
nome Ciro, anch'egli ex scugnizzo. Insieme giravano con il motorino
"Sì". Trascorrevano interi pomeriggi andando a spasso per la
città, senza sentire il bisogno di dover fare il male a nessuno, solo nella
naturale spensieratezza e voglia di divertirsi. Era una bella sensazione
che i due stavano vivendo. La cosa strana è che Giovanni volle
incontrare i suoi ex amici scugnizzi. Loro si limitavano solo a girarsi
dall'altra parte, senza attaccarlo, anche se avevano ricevuto ordini di
perseguitarlo. Ebbe la sensazione che avessero mantenuto la speranza che
fosse tornato tra loro. Proprio in quel periodo anche suo cugino Luigi
abbandonò la banda, dedicandosi agli affari di famiglia nel contrabbando di
sigarette. I più fedeli che rimasero al fianco di Mariolino furono
Vincenzo, Salvatore e Rosario, che sostenevano ancora gli ideali da
scugnizzo. Avevano la convinzione che prima o poi i ragazzi avrebbero perso
interesse nei videogiochi e nelle associazioni varie, ritornando nel loro
ovile. In quel momento, nessuno aveva fatto effettivamente ritorno nella
banda, nonostante fossero seguiti e picchiati. Ciccillo seguì con
attenzione i consigli di Giovanni. Nel gennaio del 1988 morì suo nonno e
rimase solo a vivere con sua nonna, stentando con la sua pensione che non
bastava per vivere, perché questa era fortemente legata al vizio del gioco
d'azzardo. Si era indebitata sempre di più fino al punto da spingere
Ciccillo a cercare un lavoro. Troppe serate al digiuno lo portarono
all'esasperazione, chiese aiuto anche a Giovanni che gli spiegò che avrebbe
dovuto fare l'ultimo anno di scuola per poi andare a lavorare. Gli
consigliò di cercare un lavoretto intanto. Trovò lavoro in una cantina, e
trascorreva i suoi pomeriggi a consegnare le casse di bibite ai clienti per
quindicimila lire alla settimana. Grazie alle mance riusciva a racimolare
dalle trenta alle quarantamila lire. Erano pochi, ma almeno riusciva a
mangiare. In quegli anni ci fu un vero e proprio incremento dello spaccio
di cocaina che come conseguenza ne portò l'abbassamento dei prezzi. Molti
giovani napoletani cominciarono a farne uso, i prezzi ridotti avevano
attirato molti di questi ultimi che ben presto diffusero il fenomeno ai
loro amici delle classi meno abbienti. Ciò alimentò ulteriormente
l'abbandono delle bande di scugnizzi, alcuni di questi cominciarono a
racimolare denaro con l'unico desiderio di acquistare la sostanza per
consumarla, ponendolo come unico scopo di vita. Proprio in quegli anni si
diffusero i primi ladri di Rolex. Uscivano con motorini truccati e
rapidamente strappavano i Rolex dalle braccia delle loro vittime. Questo
metodo era molto profittevole, considerando il prezzo di rivendita e il
fatto che ai tempi i motorini cinquanta erano sprovvisti di targa, per cui
il rintracciamento era molto difficile se non impossibile. Preferivano
rubare per proprio conto senza dover dividere nulla con nessuno, il denaro
facile scaturì la rottura di quella solidarietà che emergeva tra gli
scugnizzi, ognuno pensava a sé stesso.
Molte bande vennero decimate, alcune iniziarono a scomparire completamente.
In alcune bande, addirittura i capibanda cominciarono ad assumere cocaina,
portando il gruppo stesso alla deriva. Il boom della droga creò nuovi
interessi economici e di conseguenza nuovi conflitti tra i clan camorristici
che ben presto iniziarono sanguinose guerre per il conquisto del
territorio. Nonostante tutto la squadra di calcio del Napoli continuava a
giocare bene e il popolo acclamava il secondo scudetto. A loro non
interessava la vita privata di Maradona, l'importante era vincere. Maradona
era diventato l'emblema di tutti i napoletani, e la scoperta del suo
consumo di cocaina creò un vero e proprio scandalo che portò molti dei suoi
ammiratori alla riflessione. Continuò a dedicarsi alla scuola e ai motori.
Suo padre gli comprò una vespa usata che lui fece truccare da un amico
meccanico. Ci teneva ad assistere al processo per poterne apprendere i
trucchi. Infatti, imparò a cambiare i cavi della frizione e
dell'acceleratore e a sostituire le ganasce. Erano piccole cose, ma erano i
primi passi. Nel dicembre del 1988, in occasione della morte di sua nonna,
Ninetta chiese ad Armando di portarla nel suo quartiere di origine. Era
desiderosa di tornarci e di rivedere i suoi amici scugnizzi, in particolar
modo Giovanni. Armando la accontentò. Attraversando i vicoli, Ninetta si
accorse ben presto che questi erano ormai spopolati, c'erano pochi
scugnizzi in giro. Credeva fosse successo qualcosa, ma invece era ormai la
normalità. Proprio al portone di sua nonna incontrò Giovanni.
I due appena si videro si abbracciarono. Giovanni era felicissimo di
rivederla. Ninetta entusiasta gli stava raccontando la sua vita trascorsa
quando all'improvviso fu interrotta da Armando che in preda alla gelosia
invitò Ninetta a rientrare in macchina, ed andarono via, lasciando Giovanni
lì. Ninetta ebbe solo il tempo di abbassare il vetro per salutare Giovanni
che urlò in quel frangente di tempo: <<Non sono più uno
scugnizzo!>> Ninetta lo guardò con aria sorpresa, capì che a distanza
di anni tante cose erano cambiate, ma quel giorno ricevette il primo
schiaffo da Armando che in preda all'ira gli disse: <<Non ti
permettere più di fare quello che hai fatto!>> Ninetta rispose:
<<Ma è un vecchio amico e l'ho semplicemente salutato>> Armando
replicò: <<Tu sei la mia femmina! Non devi guardare nessun uomo né
tantomeno abbracciarlo! Mi sono spiegato?>> Ninetta abbassò la testa
e iniziò a percepire brutte sensazioni; quello era un brutto presagio,
pensò da subito che un nuovo incubo si stesse presentando nella sua vita.
Giovanni fu deluso dalla brusca reazione di Armando; aveva capito subito
che era un atto di gelosia, ma capì anche che il gesto di Ninetta era
istintivo dato il loro forte legame. Sperò di poterla rivedere, ma nello
stesso tempo fu felice: era ben vestita e stava con un uomo che potesse
badare a lei. Ormai mancavano pochi mesi alla fine della scuola e Giovanni
si stava preparando per l'esame di terza media. Per questo si iscrisse ad
un doposcuola gestito dalla signora Lucia che nella sua abitazione
assisteva già diversi ragazzi nello studio. Grazie a questo aiuto esterno
Giovanni riuscì a prepararsi discretamente per gli esami. Nel giugno del
1989 Giovanni, emozionatissimo si presentò agli esami, ma da subito si
accorse che era tutta una pagliacciata. I professori stessi fecero copiare
i compiti ai ragazzi o li istruirono a fare discorsi compiuti. Si accorse
ben presto che il suo sforzo era stato vano e che qualsiasi persona in
quelle condizioni avrebbe potuto conseguire la terza media. Giovanni, per
l'ennesima volta, ebbe la sensazione che le istituzioni trasmettessero un
messaggio errato ai giovani: che senso aveva studiare se anche una persona
che non lo aveva fatto sarebbe riuscita a passare gli esami? Infatti, fu
promosso e ricevette il diploma di licenza media con il voto
"buono". I suoi professori tentarono di convincerlo a proseguire
gli studi, ma lui era fermamente deciso ad imparare il mestiere. Fu uno dei
pochi scugnizzi della sua banda che riuscì a finire le scuole. In quegli
anni iniziò ad entrare nel tessuto sociale la musica straniera e quindi le
persone smisero di ascoltare unicamente la musica napoletana, ma anche
quest'ultima. Michael Jackson, Wham, Madonna e Prince erano i più famosi.
La musica era parte integrante della vita quotidiana dei ragazzi grazie al
Walk-man, passavano intere giornate ad ascoltare musica. C'erano degli
scugnizzi che si adoperarono a fare balli di break dance per strada e
guadagnavano soldi in questo modo. Iniziarono anche a diffondersi i primi
fast food. L'americanismo stava iniziando a penetrare nel tessuto sociale
napoletano. Oltre a questo, stava prendendo campo anche la moda dei
paninari. Uno stile di vita fondato sull'apparenza e sul consumo che
coinvolgeva ogni aspetto della quotidianità e si caratterizzò tipicamente
per l'ossessione per l'abbigliamento griffato e per l'uso di un
caratteristico linguaggio codificato sullo stile dei cinema statunitensi.
Questi fenomeni contribuirono ulteriormente all'allontanamento dei ragazzi
alle bande di scugnizzi. Ninetta, vivendo in periferia, era completamente
isolata da queste tendenze. Lavorava e passava il suo tempo libero con il
suo fidanzato che si imponeva in modo maschilista nei suoi confronti. Il
padre, come al solito, non faceva molto per cambiare le cose; subiva le
azioni in modo passivo senza muovere un dito, anche perché le condizioni
economiche disastrose gli davano poca possibilità di reazione. Armando era
molto geloso nei confronti di Ninetta. Quest'ultima, da un lato non gradiva
la situazione, ma dall'altro sì perché nella cultura napoletana le
dimostrazioni di gelosia sono considerati atti d'amore.
Capitolo
III - La Fuga da quel mondo
Finito le scuole Giovanni si organizzò a
trovare lavoro. La mattina di un settembre del 1989, uscì da casa con
grande entusiasmo, iniziò a girare per la città alla ricerca di un posto
dove iniziare a lavorare. Aveva con sé un elenco di officine iniziò ad
andare presso ognuna di esse, credendo sarebbe stato un gioco da ragazzi
trovare un lavoro, anche da apprendista. Purtroppo per lui non fu così,
nessun titolare delle officine elencate era interessato a lui. Ma non
perché non avessero bisogno di un aiuto, Giovanni non aveva considerato il
fatto che a Napoli l'assunzione di un'apprendista, senza nessun contratto,
avveniva solo tramite conoscenze o raccomandazioni. Presentandosi senza
rispettare questi requisiti non c'era molta speranza di essere assunti.
Verso sera Giovanni rientrò a casa, reduce di un lungo giro. Era molto
stanco, e appena tornato, sua madre lo guardò e capì che non era tornato
con buone notizie. Lo fece accomodare sulla sedia e appoggiandogli la mano
sulla spalla gli disse: <<Ascolta Giovanni, io sono molto
dispiaciuta, ma per gente come noi c'è poco da fare, non conosciamo nessuno
che ci possa raccomandare in qualche officina. Credo che tu debba
abbandonare quest'idea.>> Giovanni si alzò di scatto e rispose: <<Non
mi arrenderò mai, voglio imparare il mestiere e lo farò!>>. Giovanni
era molto determinato e anche se quella giornata gli era andata male, le
sue speranze erano sempre accese. Fare il meccanico per lui significava
tutto. Giovanni alzò la testa e procedette con decisione. Fece visita a molte
officine ma nuovamente senza successo. Sfiancato decise di fare ritorno a
casa. Sulla strada incontrò nuovamente i suoi amici che iniziarono a
prenderlo in giro e farlo sentire in colpa. Giovanni, irremovibile passò
dal portone e salendo di corsa le scale bussò la porta, aperta da sua madre
che con sguardo felice gli disse: <<Ho buone notizie per te, sono
riuscito a convincere Gennaro, il titolare dell'officina del nostro
quartiere ad assumerti. Sta aprendo una nuova officina, ha bisogno di un
collaboratore.>> Giovanni fece i salti di gioia, non sentiva alcuna
stanchezza, abbracciò la mamma e gli disse <<Sono felicissimo! Dimmi
quando iniziare>>. Sua madre gli rispose: <<Gennaro mi ha detto
che ha fittato un locale all'aperto che sarà un parcheggio auto e all'interno
di esso costruirà l'officina, ma nel frattempo dovrai aiutare il muratore
fino alla conclusione dei lavori. In seguito, potrai fare il
meccanico.>> Giovanni era incredulo. Rispose: <<Ma come, dovrò
fare il muratore? Dovrò costruire un'officina?>> La madre replicò:
<<Purtroppo sono queste le condizioni. È un mese di sacrifici, poi
potrai cominciare con il tuo mestiere.>> Anche se inizialmente
Giovanni avrebbe dovuto improvvisarsi muratore, era ugualmente felice. La
mattina successiva si recò al cantiere alle 8:30, come da accordi. Lì trovò
Gennaro che aprì il cancello e lo fece entrare, dicendogli:
<<Giovanni, aspetta, tra poco arriverà Mario, il muratore. Dovrai
seguire le sue direttive per la costruzione dell'officina.>> Gennaro
si allontanò. Giovanni aspettò fino alle ore 13, ma nessuno si fece vivo.
Per cui decise di chiudere il cancello e avvertire Gennaro, il quale si
arrabbiò: <<Non puoi decidere di testa tua! Devi stare lì e
aspettare. Capito?!>> Così Giovanni ritornò al cantiere, deluso da
quella reazione. Pensava di aver fatto la cosa giusta e non riusciva a
capire perché Gennaro si fosse arrabbiato così tanto. Quel giorno non si
presentò nessuno. Mario si presentò il giorno successivo intorno alle 11.
Giovanni vide entrare un uomo di circa 50 anni, con un abbigliamento da
impiegato e una cartellina in mano. Gli si avvicinò e disse:
<<Guagliò, anche se non hai mai fatto il muratore dovrai iniziare
facendo una buca lunga 2 metri e profonda 30 cm.>>Gli fornì un
martello e uno scalpello, e preso un gessetto tracciò a terra la sagoma
della buca da scavare. Giovanni lo guardò incredulo: <<Ma come? Io
devo fare questa buca? Non credo di riuscirci.>> Mario, andando via,
disse: <<Io ho da fare al comune. Tu inizia a lavorare. Verrò a farti
visita in giornata.>> Giovanni iniziò a martellare e riuscì in un'ora
a realizzare solo un piccolo solco. La terra troppo dura, difficile da
scavare. Non aveva abbastanza forza da portare a termina ciò che gli era
stato ordinato. Ad un certo punto lasciò cadere dalle mani martello e
scalpello, si inginocchiò e iniziò a piangere. Si sentiva solo davanti a
una cosa più grande di lui. Aveva immaginato che sarebbe stato un collaboratore;
invece, Mario era solamente un impiegato comunale che si occupava di lavori
edili come seconda attività e sfruttava i suoi collaboratori senza farsi
alcuno scrupolo. Finita la giornata, Giovanni tornò a casa stanco e con un
dito gonfio. Spiegò la situazione ai suoi genitori che impotenti e con aria
di rassegnazione ascoltavano. Purtroppo per lui, i suoi genitori gli
spiegarono che la gavetta funzionava così e che avrebbe dovuto resistere.
Giovanni non la percepiva come una gavetta, aveva capito fin da subito che
Gennaro aveva ingaggiato Mario perché non voleva spendere troppo per i
lavori. E Mario voleva che se ne occupasse Giovanni benché non avesse la
minima esperienza, privo di qualsiasi dispositivo di protezione. Il tutto
per sole 30 000 lire a settimana. Mario si presentò dopo diversi giorni, e
quando si accorse che il lavoro era molto arretrato rispetto alle sue
aspettative, si arrabbiò tantissimo, andando via. Giovanni non sapeva cosa
fare, scavare quella buca richiedeva la forza di un adulto e le adeguate
attrezzature, ma, nonostante ciò, si pretendeva l'impossibile da quel
ragazzo che a soli 14 anni era costretto a fare i miracoli solo per
guadagnarsi quel posto da meccanico. Un giorno si presentò Gennaro, per
vedere come procedessero i lavori. Notò che era stato fatto ben poco e capì
subito che era stato affidato tutto a Giovanni. Gli si avvicinò e disse:
<<Giovanni capisco che ti è stato affidato un lavoro che non rientra
nelle tue capacità, oggi stesso contatterò Mario per vedere se riesce a
mandarti qualcuno ad aiutarti. Altrimenti qui ci vorrà un anno per ultimare
tutto.>> Giovanni lo guardò con aria sollevata e iniziò a martellare
con forza per dimostrare che la volontà non mancava di certo. Ma Gennaro lo
interruppe dicendogli: <<Giovanni sappi una cosa, in questo piazzale
ci sono 3 auto. Che sono parcheggiate qui come se fosse un garage.
Ricordati che non dovrà mai entrare un'eventuale quarta auto. Capito? È
molto importante che tu sappia questa cosa. Chiunque voglia entrare, tu non
dovrai mai farlo entrare.>> Giovanni era incuriosito ma allo stesso
tempo spaventato perché non gli era stato spiegato il motivo per cui non
sarebbe dovuta entrare la quarta auto. Era un mistero che non approfondì
più di tanto poiché concentrato a scavare quella buca interminabile. I
giorni passavano. Mario tornava ogni tanto a visionare il proseguire dei lavori,
insoddisfatto dei risultati decise di rivolgersi a Gennaro. <<Gennà
non potevi darmi un guaglione più capace? Sembra che stia sbucciando le
noccioline.>> disse Mario. Gennaro non replicò. Un pomeriggio si
avvicinò un’auto al cancello del cantiere, all'interno vi era un uomo con
una folta barba e i capelli lunghi. Suonò il clacson, attirando
l'attenzione di Giovanni che uscì fuori, ma prima di avvicinarsi all'auto
diede un'occhiata al piazzale e notò che vi erano già tre auto
parcheggiate. Con passo lento si avvicinò all'uomo per chiedere cosa
volesse. L'uomo abbassò il finestrino e gli disse: <<Mi manda
Gennaro, mi ha dato l'ordine di parcheggiare dentro al piazzale.>>
Giovanni si ricordò dell'avvertimento ricevuto e rispose: <<Gennaro
ha detto che non deve entrare nessuno.>> L'uomo iniziò a gridare come
un matto, minacciando Giovanni di farlo licenziare. Giovanni intimorito
cedette e aprì il cancello, facendo entrare la quarta auto. L'uomo scese
dall'auto e gli disse che sarebbe tornato dopo mezz'ora per riprenderla,
andando via. Giovanni ritornò al suo lavoro, quando fu chiamato da tre
uomini che si trovavano fuori al cancello. Si avvicinò a loro e notò subito
che avevano un'aria minacciosa. Uno di loro gli disse: <<Guagliò,
dove sta Gennaro?>> Giovanni rispose: <<Sta sicuramente in
officina.>> L'uomo rispose: <<Prendi la mia vespa, vai subito
da lui e portalo qua.>>
Giovanni chiuse il cancello, montò sulla vespa del signore e si recò
rapidamente all'officina. Arrivato lì, non trovò Gennaro, ma anzi il suo
collaboratore che gli riferì che era uscito a comprare un pezzo di ricambio
e sarebbe ritornato a breve. Nella curiosità Giovanni aprì il bauletto
della vespa e al suo interno vi trovò una pistola. Dallo spavento chiuse
immediatamente il bauletto e si allontanò. Il cuore gli batteva fortissimo
e iniziò ad avere paura. Il tempo passava, ma di Gennaro non vi era
traccia. Giovanni pensava a quell'uomo che gli aveva detto di fare in
fretta; in preda alla paura iniziò a pensare che forse non avrebbe dovuto far
entrare la quarta auto nel piazzale. Pensò che forse quell'uomo dalla barba
folta gli avesse mentito. All'improvviso si presentarono davanti ai suoi
occhi l'uomo con la barba accompagnato da due scagnozzi. Gli si avvicinò e
disse: <<Credi di prenderti gioco di noi? Ti stiamo aspettando. E tu
stai qua senza fare niente?>> Gli diede uno schiaffone che lo fece
sbattere contro un portone. Cadde a terra, quasi stordito, prima che gli
arrivasse un altro colpo arrivò Gennaro urlando: <<Ma che sta
succedendo?>>. L'uomo con la barba si voltò e rispose: <<Sali
sulla vespa e vieni con noi. Ti dobbiamo dire delle cose.>> Gennaro
senza esitare andò via con loro. Giovanni non ebbe la forza di chiedere se
avesse autorizzato lui l'accesso della quarta auto. Si alzò e tornò a casa.
Era mezzo stordito, si sciacquò il viso con acqua fredda per non destare
sospetti ai suoi genitori. Non voleva che sapessero dell'accaduto. Pensava
che si trattasse di un episodio isolato e che sarebbe tutto finito. Sua
madre lo guardò e percepì immediatamente che qualcosa non andava. Giovanni
era tornato molto prima del solito e non aveva un buon aspetto. Non esitò a
chiedergli: <<Giovà, tutto bene?>> Giovanni si voltò e chiuse
gli occhi per non scoppiare a piangere, rispondendo: <<Mà, tutto
bene, oggi abbiamo chiuso prima.>> Non era il colpo che gli aveva
fatto male, ma il fatto di aver subito un'azione crudele da parte di un
uomo adulto, nel quale lui riponeva rispetto e fiducia. Raccontare tutto ai
suoi genitori avrebbe suscitato altre preoccupazioni in famiglia, che non
avrebbero portato a nulla di buono. Rivolgersi alle forze dell'ordine era
un pensiero da non mettere in conto per alcun motivo - avrebbe causato solo
problemi a sé stesso e alla sua famiglia: sarebbe stato immediatamente
licenziato e la sua famiglia isolata completamente dalla vita di quartiere.
Giovanni era schiavo di queste regole e non poteva sottrarsi ad esse; per
il bene suo e della sua famiglia. Verso le ore diciotto di quel giorno uno
scugnizzo bussò alla porta di casa sua dicendogli: <<Giovà, vai
subito in officina. Ci sta Gennaro che vuole parlare con te.>>
Giovanni corse subito in officina e notò che Gennaro aveva un occhio
gonfio. Si fermò di scatto e gli chiese: <<Mi cercavi Gennà?>>
Gennaro lo prese per il collo e gridò a gran voce: <<Ma che hai
combinato? Ti avevo detto di non far entrare la quarta macchina.>>
Giovanni rispose: <<Ma quello aveva detto di aver parlato con te>>
Gennaro replicò: <<Non sei degno di lavorare con me. Non venire più,
non tieni idea di cosa hai combinato.>> Giovanni scappò via in
lacrime. Corse verso casa. Il suo forte stato di agitazione e le lacrime
che scendevano sul suo giovane viso non gli permisero di nascondere quanto
accaduto ai genitori. Per cui decise di raccontare tutto ai suoi genitori.
Aveva un forte senso di colpa che lo attanagliava; si pentiva di non aver
avuto la forza e la determinazione di respingere quell'uomo che si imponeva
su di lui. Si sentiva il mondo cadere addosso. Saltò la cena e andò a
dormire. Non c'era la minima consapevolezza che un ragazzino di soli
quattordici anni non potesse ricoprire ruoli di tale responsabilità.
L'opinione pubblica era tutto l'opposto di ciò che si potesse immaginare, a
Giovanni furono mosse solo accuse: "non sei buono", "sei
incapace" e "non è roba tua" erano solo alcune di esse. La
faccenda venne gestita da uomini di camorra che fungevano da giudici ed
emettevano sentenze secondo il codice della “strada”. Giovanni
inconsapevolmente aveva messo nei guai il suo titolare. Gennaro aveva
intenzione di realizzare un parcheggio in quel piazzale, desiderio che gli
fu impedito dagli uomini del malaffare, poiché a soli cinquanta metri dal
piazzale vi era un grosso parcheggio abusivo gestito dall'uomo con la
barba. I suoi clienti pagavano una retta mensile e l'uomo in cambio
visionava le macchine dalla sua roulotte posta abusivamente nella piazza.
Egli era un uomo crudele, prepotente e dipendente dall'alcool. Spesso la
notte si metteva alla guida delle auto dei suoi clienti, ignari di ciò,
sfrecciando per la città tentando di sfogare le sue frustrazioni. Era molto
vicino alla malavita; versava grosse quantità di denaro a questi ultimi in
cambio della loro protezione. A Gennaro fu concesso parzialmente di gestire
il suo parcheggio, gli imposero di permettere il parcheggio di non più di
tre auto. L'uomo con la barba non si accontentò di ciò. Sapeva bene che in
quel piazzale lavorava un ragazzino ingenuo. Ingaggiò un suo scagnozzo che
con inganno introdusse la quarta auto all'interno del piazzale, per far sì
che Gennaro venisse meno e ricevesse le dovute conseguenze. Gli uomini di
camorra volevano mettere luce sulla faccenda, non convinti dal fatto che
Gennaro era venuto meno così ingenuamente e che gli scagnozzi dell'uomo con
la barba lo avessero picchiato senza aver chiesto loro il permesso. La
camorra doveva far valere la sua autorità e come un vero e proprio
tribunale interrogarono Gennaro, l'uomo con la barba e infine il piccolo
Giovanni, che fu accompagnato dai suoi genitori presso il loro "centro
operativo". Fecero ingresso in un grosso appartamento, vi erano statue
di leoni, lunghi tappeti e prestigiosi lampadari. Sembrava di essere in un
film. Giovanni si girava attorno e ammirava tutti quegli oggetti. All'improvviso
si avvicinò un uomo che intimò tutti ad accedere al salone, dove vi erano
tre uomini seduti su delle poltrone e con modi cordiali invitarono tutti a
sedersi su di un comodo divano. Iniziarono a fare domande a tutti e tre e
ognuno presentò la sua versione dei fatti. L'uomo con la barba dichiarò di
non sapere nulla della faccenda della quarta auto, ignaro del fatto che il
suo scagnozzo era stato già interrogato e minacciato. Per cui non fece
altro che confermare la tesi. Egli, dopo aver ammesso le sue colpe, riferì
che aveva fatto tutto ciò per difendere i suoi interessi, temendo che i
suoi clienti si rivolgessero a Gennaro per parcheggiare le loro auto. Uno
dei tre uomini si alzò e gli diede uno schiaffo, dicendo: <<Non ti
permettere più di fare a capa tua. Qua comandiamo noi. Devi chiedere a noi
cosa fare: ti sei fatto giustizia da solo e hai messo le mani addosso a un
ragazzino. Mo ce la vediamo noi.>> Ad un certo punto Giovanni fu
invitato ad uscire insieme ai suoi genitori e per scusarsi gli diedero
100000 lire. Quel denaro fu ben accetto dai genitori di Giovanni, che
mostrarono la loro devozione nei loro confronti. Invece Giovanni si oppose
e cercò di spiegare che quelli erano soldi sporchi del sangue del popolo.
Ricevere quei soldi significava essere complici di un sistema criminale. I
genitori non diedero ascolto al figlio e gli rifilarono la solita frase:
<<Se aspetti lo stato hai voglia di morire di fame!>>
Giovanni non accettava quel sistema, aveva la giusta convinzione che solo
tramite il lavoro onesto e l'indipendenza economica si sarebbe allontanato
da quel contesto distorto di cui era costretto a far parte. Il giorno
successivo Gennaro si presentò a casa di Giovanni e gli spiegò che la
camorra gli aveva dato ragione, permettendogli di continuare a costruire
l'officina. In più, gli concessero di parcheggiare tutte le auto che avesse
voluto. Giovanni lo interruppe e gli disse: <<Gennà, io non voglio
lavorare più per te - mi avete sfruttato, mi avete fatto fare un lavoro che
non sapevo fare e alla fine mi sono trovato anche in mezzo ai guai.>>
Gennaro si arrabbiò e replicò: <<Ma come, io ti ho tolto dalla strada
e ti ho offerto un lavoro onesto e tu mi ringrazi così?>> La mamma di
Giovanni sentì il forte dialogo e si avvicinò all'uscio della porta
trovandosi davanti Gennaro che si imponeva nei riguardi di suo figlio, per
cui non ci vide più e a gran voce disse: <<Vattene, la tua elemosina
non la vogliamo! Mio figlio non vuole lavorare più con te, vai via!>>
Gennaro replicò: <<Ok, ma se cambiate idea la mia porta la trovate
chiusa!>>
Detto ciò, andò via. Giovanni era ormai demoralizzato, ma decise di non
ritornare più a fare il muratore improvvisato. Si mise nuovamente alla
ricerca di un lavoro, ma questa volta applicò un altro metodo: non chiedeva
solo alle officine se avessero bisogno di un collaboratore, ma estese la
richiesta a ogni attività che si trovasse davanti. In questo modo le
possibilità di essere assunti sarebbero aumentate. Il suo obbiettivo era di
trovare un lavoro qualsiasi, e con calma trovare quello di meccanico. Fece
altri tentativi e trovò lavoro in un negozio di orologi nei pressi del
porto di Napoli. Era un negozio di grosse dimensioni a conduzione familiare
che vendeva sia al dettaglio che all'ingrosso. La paga era di 60000 lire a
settimana. Serviva una mano al banco e bisognava prendere merce dal
deposito per poi portarla al negozio. Erano circa dieci ore di lavoro al
giorno, e l'unico giorno di festa era la domenica. E anche qui nemmeno
l'ombra del contratto di lavoro, il tutto era stabilito verbalmente.
Giovanni si diede subito da fare, cercò di dare il meglio di sé, ma si
presentarono subito le prime difficoltà: Ciro, il suo titolare pretendeva
dei ritmi di lavoro insostenibili, e ogni volta che Giovanni impiegava più
tempo del dovuto per fare qualcosa veniva sgridato e minacciato. Purtroppo,
anche in questo negozio Giovanni trovò solo un clima di prepotenza e abuso
nei suoi confronti. Cercò di resistere ma ogni giorno che passava lo
sconforto aumentava sempre di più. Venivano clienti da tutta Italia per
comprare orologi all'ingrosso e spesso Giovanni caricava la merce
acquistata dal cliente sul carrello e lo accompagnava fino all'automobile.
Gli venivano date sempre mance generose, ma notò che tutti i clienti gli
ripetevano sempre la stessa frase: <<Se ci ferma la Polizia o la
Guardia di Finanza mentre porti la merce con il carrello devi dire che
tua!>>. Giovanni inizialmente non diede molto peso a questa
raccomandazione, in seguito iniziò ad incuriosirsi e a chiedere ai suoi
parenti il perché di ciò, ma nessuno gli seppe fornire una risposta. Fino a
quando un suo vicino, il quale era un commerciante, gli spiegò il perché:
la merce era venduta senza il rilascio di alcuna fattura, per cui le
eventuali sanzioni sarebbero state inflitte al piccolo Giovanni, fino ad
allora ignaro di tutto ciò.
Ecco spiegato il motivo delle generose mance.
Questa notizia lo scoraggiò, e iniziò a pensare di ultimare la settimana di
lavoro in corso, prendere la paga e di licenziarsi (o meglio, non
presentarsi più). Durante i giorni successivi cercò di familiarizzare con i
titolari, ma ogni qual volta che tentava era una completa delusione: in
quel negozio si respirava un clima malsano, nonostante i titolari fossero
parenti, tra di loro non vi era alcun rapporto, ma anzi, le uniche parole
spese erano relative al lavoro. Erano cupi e arrabbiati. Il venerdì, alla
chiusura serale del negozio, Ciro disse a Giovanni: <<Giovà, domani
devono venire alcuni clienti da Roma, siamo molto impegnati quindi non
andare a casa a mangiare che ci facciamo un panino qui.>> Giovanni
avvertì i suoi genitori di ciò. Il giorno successivo iniziarono a lavorare
con molta intensità. Verso le ore 13, Giovanni fu chiamato dal suo
titolare: <<Giovà, prendi questi soldi e vai dal salumiere, vai a
prendere quattro panini con la mortadella. Fai presto che teniamo da
fare.>> Giovanni si diresse rapidamente dal salumiere, facendo però
una riflessione: nel negozio lavoravano cinque persone, perché il titolare
gli aveva chiesto di comprare un panino in meno? Ragionò come un ingenuo
ragazzino e immaginò che uno di loro avrebbe diviso il suo panino con lui.
Appena fece ritorno al negozio, ogni membro della famiglia dei titolari
prese il suo panino e senza aggiungere alcuna parola iniziarono tutti a
mangiare. Giovanni rimase impietrito davanti a una scena del genere. Non
riusciva a credere a quello che stava vedendo, ognuno di loro azzannava il
proprio panino e nessuno si preoccupò di lui che stava lì a guardare. I
suoi titolari non avevano pensato a lui, nessuno si era preoccupato e
questo lo fece nuovamente sprofondare nello sconforto. Non riusciva a
comprendere quella indifferenza nei suoi confronti. Decise di farsi forza e
affrontare l'ultima giornata di lavoro, appena ricevuta la paga salutò
tutti e fece ritorno a casa. Raccontò tutto a sua madre e gli disse che non
avrebbe voluto più rivedere quella gentaglia. Il lunedì, i titolari
notarono che Giovanni non si presentò a lavoro, per cui si presentarono
sotto casa sua, accolti da sua madre che gli spiegò che Giovanni avrebbe
voluto cambiare lavoro e per cui non sarebbe più tornato. Giovanni
trascorse alcuni giorni a casa senza uscire, per smaltire quella brutta
esperienza e spesso veniva invitato dai suoi amici scugnizzi a ricandidarsi
di nuovo nella banda, gli dissero che avrebbero messo una buona parola per
convincere Mariolino, fu tentato a mollare tutto e tornare a fare lo
scugnizzo, ma qualcosa in lui gli impediva di farlo. Il giorno successivo,
Luigi, suo cugino disse che c'era un benzinaio al Corso Vittorio Emanuele
che era alla ricerca di un collaboratore. Giovanni vi si recò senza
indugiare per parlare con il titolare, Alfredo che gli spiegò come
funzionava, avrebbe dovuto lavorare dalle 9 del mattino fino alle 8 di sera
per una paga di 70000 lire a settimana, escluse mance extra ricavate grazie
alla pulizia dei vetri dei clienti. Anche qui, ovviamente, senza alcun
contratto. All'indomani Giovanni si recò sul posto di lavoro e imparò
rapidamente ad erogare la benzina ai clienti. Era un lavoro abbastanza
tranquillo, ma purtroppo gli fu dato un incarico di estrema responsabilità.
Appena dopo la pausa pranzo alle ore 14, il titolare gli lasciava gestire
la struttura fino alle ore 18:30. Durante quelle ore, Giovanni si sentiva
avvilito, doveva erogare la benzina, incassare il denaro, dare l'eventuale
resto e prestare attenzione a tutto. Alle ore 18:30, al ritorno di Alfredo,
tirava un sospiro di sollievo; aveva in tasca un mucchio di soldi. Il
distributore si trovava in una zona isolata, facile preda di rapinatori. Alfredo
al suo ritorno era spesso ubriaco e arrabbiato poiché gli incassi non
rispettavano le sue aspettative, nonostante tutto ciò non dipendesse da
Giovanni. Il suo titolare pretendeva i migliori risultati senza dare conto
alle condizioni dei suoi lavoratori. Giovanni la sera ritornava a casa
verso le ore 21, stanco e sfinito. Aveva solo mezza giornata il mercoledì
di libertà e la sfruttava per cercare un lavoro come meccanico. Un
pomeriggio di inverno si avvicinarono al distributore quattro uomini seduti
su due vespe piaggio, gli chiesero di erogare la benzina e fu pagato con
banconote di grosso taglio. Giovanni prese il resto dalle sue tasche e in
quello stesso momento fu spinto a terra da uno dei quattro uomini, il quale
tentò di rubargli tutto il ricavato dalle tasche. Le urla di Giovanni
attirarono l'attenzione di alcuni passanti, ragione per cui i rapinatori
decisero di andarsene. Alcuni passanti si avvicinarono e tentarono di
tranquillizzare Giovanni, sbigottiti dal fatto che un intero distributore di
benzina era affidato ad un ragazzino di 14 anni. Alfredo fece ritorno al
solito orario. Giovanni gli riferì della tentata rapina e si aspettava
comprensione e incoraggiamento, ma la reazione fu tutt'altra: si arrabbiò e
lo incolpò di non avere la giusta autorità per difendersi. Tirò fuori una
pistola finta da un cassetto e la mostrò a Giovanni dicendogli: <<La
prossima volta caccia questa, così si spaventano perché sembra
vera.>> Giovanni lo guardò incredulo, in pratica gli era stato
intimato di difendere l'incasso con una finta pistola. Iniziò a pensare che
neanche questo lavoro facesse al caso suo. Si sentiva umiliato e nel
profondo del suo animo stava lì al suo posto di lavoro con la giacca che
gli stava stretta, con il logo dell'azienda petrolifera stampata sopra e
davanti a sé passavano tutti i giorni automobili delle istituzioni di
qualsiasi livello. Mai nessuno di loro tese la mano ad aiutarlo, che ne
avrebbe avuto tanto bisogno. C'era quella indifferenza che si ergeva nella
cultura napoletana, per la quale tante e troppe cose che non sono per
niente normali diventano paradossalmente tali. Così diviene molto più
semplice ed economico girarsi dall'altra parte e far finta di niente
lasciando la plebe napoletana in balia delle onde. L'unico che si fece
avanti per aiutarlo fu un coetaneo, studente di una vicina scuola, il quale
guardando Giovanni erogargli la benzina disse: <<Non dovresti
lavorare alla tua età. I ragazzi della nostra età hanno tutto il diritto di
essere liberi, di scegliere il miglior avvenire. Ricordati: solo con
l'istruzione potrai uscire da questo contesto. Lascia tutto e iscriviti
alle scuole superiori che sei ancora in tempo.>> Disse ciò con gli
occhi lucidi, salutò Giovanni e andò via. Lui era profondamente convinto
che il lavoro fosse l'unica strada che gli permettesse di liberarsi di quel
contesto. Un giorno si presentò al distributore un vecchio collaboratore di
Alfredo, Nicola. Alfredo parlava spesso di lui, e dalle sue parole
traspariva tutta la sua ammirazione. Era un tipo arrogante e presuntuoso,
convinto di essere una persona invincibile. Alfredo lo convinse a ritornare
a lavorare per lui ed egli accettò dopo tanta insistenza. Ad un certo punto
Nicola si voltò verso Giovanni e disse: <<E a lui dove lo
mettiamo?>> Alfredo con grande diplomazia rispose: <<Lui è un
bravo ragazzo, deve imparare ancora tante cose, gli farà bene lavorare con
te.>>, poi si voltò verso Giovanni e aggiunse: <<Giovanni,
tutti dobbiamo fare dei sacrifici. Per il nostro bene io assumo di nuovo
Nicola, ma la tua paga scenderà a 40000 lire a settimana.>> Giovanni
accettò, anche perché, se si fosse opposto sarebbe stato licenziato
immediatamente. Ormai era arrivato Nicola che risolveva tutti i problemi
del mondo. Giovanni non serviva più, ma gli fu proposto di rimanere per il
semplice motivo che Nicola era un tipo instabile: all'improvviso poteva
andare via, come già capitato in passato, e in quel caso sarebbe subito
servito qualcuno per rimpiazzarlo. Il rapporto tra Nicola e Giovanni fu
subito molto contrastante: egli si imponeva con arroganza e prepotenza.
Giovanni, esausto da questi personaggi che si imponevano nella sua vita,
iniziò a scontrarsi più volte. C'era scintilla tra di loro, a Nicola era
stata affidata da Alfredo l'autorità di comandare su Giovanni, ed abusava
di questo suo potere. Le mance non venivano divise in parti uguali. Nicola
lasciava a Giovanni solo una piccola parte. Una volta al mese ogni
distributore di benzina doveva restare aperto tutta la domenica. Quel
giorno il lavoro fu durissimo, c'era una lunga fila di automobili da
servire, bisognava essere velocissimi senza commettere alcun errore. Nicola
sgridava a gran voce Giovanni perché pretendeva la rapidità nel gestire il
lavoro. Giovanni decise di subire e di non reagire, si sentiva di troppo
ormai, tutta l'attenzione era rivolta a Nicola, era il pupillo, più grande
d'età e godeva di un'esperienza lavorativa superiore. Finirono di lavorare
tardi, Giovanni prese la sua paga e andò via. Decise di non tornare più a
lavorare da Alfredo e iniziò nuovamente a cercare lavoro senza arrendersi. Dopo
alcuni giorni, fece visita in officina ed ebbe un colloquio con Roberto,
titolare che spiegò che possedeva due officine; una piccola nella quale
aggiustava solo automobili ai Quartieri Spagnoli, in chiusura, ed un’altra
più grande dove aggiustavano automobili, motorini e avevano anche un
autolavaggio, a Sant'Anna di Palazzo. La paga era di 35000 lire a
settimana, ovviamente senza alcun contratto di lavoro. Giovanni era
entusiasta, finalmente aveva trovato un lavoro, stava per iniziare a fare
il meccanico, la sua passione. Il giorno dopo si presentò a Sant'Anna di
Palazzo come gli era stato detto, e prese servizio. La sua mansione era
quella di apprendista, passava i ferri di lavoro al suo titolare e osservava
con attenzione per imparare il mestiere. In poco tempo riuscì ad apprendere
semplici lavori in piena autonomia. Più passava il tempo e più imparava. Un
giorno si presentò il farmacista che si trovava al vicolo successivo, era
furibondo; spiegò a Roberto che i gas prodotti dai motori entravano nella
sua farmacia tramite una finestra confinante. Roberto inizialmente non
credette alle sue parole, ma alle insistenze del farmacista decise di
inviare Giovanni per vedere se le sue parole erano vere. A Giovanni fu
detto: <<Anche se senti odori di gas, dici che non li senti!>>
dal suo capo. Giovanni lo guardò e disse: <<Come faccio a negare?>>
Roberto rispose: <<Sicuramente sarà qualcosa di poco... sta
esagerando, sono sicuro>>. e aggiunse <<Vai lì o puoi finire di
lavorare oggi stesso.>> Giovanni si presentò in farmacia e fu accolto
dai titolari con molta gentilezza e disponibilità, lo invitarono ad
entrare, gli mostrarono l'interno del locale. Ad un certo punto dalla
finestrella entravano i gas di scarico così come aveva raccontato. Era
talmente evidente che Giovanni non riuscì a negare. Era assurdo negare una
cosa così palese. I farmacisti con molto garbo esposero il loro disagio e
lo invitarono a riferire al suo titolare di confermare ciò che gli avevano
mostrato e di prendere provvedimenti in merito. Giovanni uscì dalla
farmacia angosciato, aveva disubbidito alla richiesta assurda del suo
titolare. Si fece forza e ritornò in officina. Cercò invano di far
ragionare Roberto, a spiegargli che stava nel torto e l'unica cosa da fare
è costruire una cappa metallica che avrebbe indirizzato i gas di scarico in
cima all'edificio senza creare disagi a nessuno. Sembrava una cosa logica e
sensata, ma non per Roberto che si infuriò e lo insultò dicendogli che
aveva disubbidito. Giovanni spiegò che c'era tanto fumo ed era impossibile
negare, ma Roberto in preda all'ira gli disse: <<Ora gli faccio
vedere io chi ha ragione, domani vado da chi so io e gli faccio chiudere la
farmacia. Non ti licenzio perché mi fai pena, però starai alla vecchia
officina senza far nulla, ad avvisare e accompagnare i clienti alla nuova
officina, a darmi una mano verrà un altro ragazzo che ho dovuto per forza
assumere>> Giovanni capì subito che Roberto aveva intenzione di
rivolgersi alla camorra per punire il farmacista, ma a furia di chiedere
favori fu costretto, malgrado non ce ne fosse bisogno, ad assumere un nuovo
ragazzo. Ancora una volta Giovanni stava pagando per colpe non sue. Purtroppo,
lui era l'ultima ruota del carro, era colui che doveva fare la gavetta,
almeno così dicevano i genitori, ma si rifiutava di accettare che per
lavorare dovevi fare azioni disoneste e accettare delle regole assurde dove
non si pronunciano il senso del rispetto delle regole, ma il più forte ha
la sopraffazione sul più debole. Il giorno successivo aprì la vecchia
officina e si sedette su una sedia a non fare nulla, il tempo sembrava non
passare mai. Veniva pagato per non fare nulla. Nessun cliente venne a
chiedere dove fosse la nuova officina, perché ormai tutti ne erano al
corrente. Roberto sapeva bene che Giovanni era una persona valida e non
voleva perderlo, per questo non lo licenziò, ma bisognava che pagasse per
la sua disubbidienza. Un giorno un uomo che abitava di fronte alla vecchia
officina chiese la cortesia a Giovanni di prestargli una pinza, così
Giovanni gliela diede. Quest'uomo fece un piccolo lavoretto alla propria
auto e gliela restituì ringraziandolo. Il giorno dopo Roberto fece visita a
Giovanni e gli chiese se c'erano state novità. Al che Giovanni gli disse
che aveva prestato una pinza al vicino. Roberto non si arrabbiò più di
tanto, ma gli ordinò di non prestare nessun attrezzo di lavoro a nessuno.
Le giornate passavano nell'ozio totale, era come stare in prigione. Stava
lì in quella piccola officina di trenta metri quadri. Quella non sembrava
una punizione, ma una condanna, sperava che prima o poi sarebbe tornato
alla nuova officina, dove c'era tanto da fare e imparare. Un giorno si
presentò un altro signore che chiese a Giovanni di prestargli due arnesi.
Giovanni spiegò che aveva avuto ordini ben precisi dal suo titolare di non
prestare niente a nessuno. Quest'uomo lo guardò e gli diede due schiaffetti
sulla guancia, dicendogli: <<Forse tu non sai chi sono io>>

Giovanni gli spostò con forza la mano dalla
sua guancia e rispose: <<Mi dispiace, non so chi siete, ma gli ordini
sono questi>>. Quest'uomo si girò e andò via. Sembrava tutto finito
lì, ma il giorno successivo si presentò Roberto e insieme a quell'uomo.
Giovanni fu subito verbalmente aggredito da quell'uomo, accusato di non
aver nessun rispetto per un uomo d'onore. Giovanni guardò negli occhi
Roberto e avvertì subito un clima di sottomissione. Subì un rimprovero, non
perché non aveva dato gli arnesi a quel signore, ma perché non lo aveva
riconosciuto, e questa è una cosa grave. Roberto implorò al signore di non
prendere provvedimenti nei riguardi di Giovanni, e alla fine quell'uomo
sfoggiò tutta la sua finta umanità. Disse che era un uomo di cuore, e concesse
il perdono. Uscì dall'officina, si sedette in un’auto modesta che stava
fuori, guidata da un'autista. Scortato da due uomini posti rispettivamente
davanti e indietro all'auto, sulla sella di una vespa e armati, e andò via.
Roberto tirò un sospiro di sollievo, decise di non punire Giovanni perché
infondo aveva fatto il suo dovere e lo invitò a documentarsi sui volti
degli uomini della camorra, perché a loro non bisognava negare nulla. Lo
fece ritornare alla nuova officina perché ormai aveva scontato la punizione,
ma anche perché un altro sgarro ad un camorrista del genere gli poteva
costare molto caro. Giovanni iniziò subito a mettersi in opera in officina
senza risparmiarsi, ma l'altro ragazzo di nome Paolo anche se era meno
bravo gli veniva data più attenzione. Ma questo non lo scoraggiò, aveva
tanta voglia di imparare. Un giorno si presentò in officina un ragazzo che
abitava al Vomero, disse che il suo motorino si era spento e non voleva più
ripartire. A Giovanni gli fu ordinato di andare a recuperare il motorino
che stava circa a duecento metri dall'officina per vedere che problemi
avesse. Giovanni verificò alcune cose e notò subito che era semplicemente
da sostituire la candela. Preferì sottoporre il motorino al giudizio del
suo titolare. Giovanni fece presente a Roberto che con la sostituzione
della candela avrebbe risolto il problema con sole 10000 lire. Roberto lo
portò in disparte e gli disse: <<Senti Giovà, vedi che questo sta
vestito bene e ha il motorino costoso. sicuramente sta pieno di soldi. 'Mo
gli facciamo il pacco.>> Giovanni rispose: <<In che
senso?>> Roberto replicò: <<Tu digli che ci sono dei pezzi
dentro al motore da cambiare e che ci vogliono 400000 lire.>>
Giovanni rimase incredulo e Roberto aggiunse: <<Qua ci sono tante
spese e ultimamente ho dovuto assumere due persone che non mi servono. Per
questo ci servono tanti soldi.>> Giovanni ubbidì e fece presente a
quel ragazzo che era una cosa seria e tutto avrebbe avuto un costo di 400000
lire. Il ragazzo si spaventò dal costo elevato e accettò ugualmente, si
recò in bancomat per ritirare il denaro col bancomat. Nel frattempo, al suo
motorino fu cambiata solo la candela. Poi appoggiarono a terra alcuni pezzi
di ricambi per giustificare l'avvenuto montaggio. Come anche la lattina
d'olio, era sempre quella di buona marca che veniva mostrata aperta ma in
realtà il cambio d'olio avveniva con olio scadente, il ragazzo pagò e
ringraziò, andando via felice di aver ricevuto l'ottimo servizio. Giovanni
iniziò a riflettere su queste azioni disoneste, non poteva ribellarsi e
tantomeno spiegare che forse lavorare con onestà avrebbe portato più
risultati invece di imbrogliare gli ignari clienti che riponevano la loro
fiducia a Roberto.
Si sentì in colpa di aver mentito a quel bravo ragazzo che era stato
ingannato a tal punto che non dormì tutta la notte. Era inutile consultarsi
con qualche familiare, avrebbe sicuramente avuto la solita risposta:
<<Qua funziona così.>> Lui aveva la piena consapevolezza che
non funzionava così. Funzionava male. Un giorno Roberto obbligò Giovanni a
recarsi in un’abitazione che lui aveva appena comprato per togliere tutto
il vecchio parato dalle mura delle stanze, gli fece presente che lo aveva
salvato dalle grinfie dalla camorra e per questo doveva restituire il
favore ricevuto. Gli era stato detto che era un lavoro semplice da fare ma
in realtà non era così. La casa era vecchia e il parato non andava via con
facilità, bisognava usare una stecca metallica bagnata con acqua calda e
raschiare con forza. Furono giorni duri, solo e senza l'aiuto di nessuno
riuscì a terminare tutto il lavoro ordinato. Non ricevette né
ringraziamenti né premi, nulla di questo. Questi atteggiamenti facevano
molto male, perché un grazie avrebbe cambiato tutto. Avrebbe dato dignità
ad un ragazzino che voleva crearsi un avvenire con le sue mani. Giovanni
divenne molto bravo al punto che molte persone del quartiere si rivolgevano
a lui per farsi riparare il proprio mezzo. Giovanni si adoperava anche il
sabato e la domenica per soddisfare le tante richieste. Certe volte finiva
la sera tardi di lavorare. Utilizzava un box di un parente per lavorare, a
poco alla volta comprò gli attrezzi e arnesi che servivano per fare le
riparazioni più semplici. La sera quando finiva di lavorare in officina, il
suo titolare andava a lavarsi le mani che erano sporche di grasso. Il
titolare usava una pasta speciale, mentre ai collaboratori veniva concesso
di lavarsi le mani con olio esausto e un goccio di benzina. Ovviamente era
inutile. Ernesto, un amico di Roberto comprò un grosso appartamento che
bisognava ristrutturare. Chiese la cortesia di farsi dare due dei suoi
collaboratori. Bisognava togliere il vecchio parato, poi pulire e pitturare
tutte le pareti dell'appartamento. Furono inviati Giovanni e Paolo per
eseguire questo lavoro "non retribuito". A loro veniva data la
paga settimanale come lavoranti in officina che gli veniva data il sabato
pomeriggio lanciati quasi come un segno di disprezzo. Per il titolare non
rendevano mai abbastanza e quel gesto stava a dimostrare "tu non vali
questi soldi" e "devi fare di più". Riusciva a trasmettere
sensi di colpa, una colpa ingiustificata al fine di richiedere sempre il
massimo dai propri collaboratori per quattro soldi alla settimana. Arrivati
in quell'appartamento, Giovanni e Paolo capirono subito che gli avevano
affidato una mansione che non era compatibile con le loro capacità.
L'appartamento era grande e loro erano solo due ragazzi, non avevano i
mezzi adeguati e non avevano l'esperienza giusta. Bisognava farlo,
altrimenti venivano licenziati. Si iniziava dopo le ore 19:30, lavoravano
senza sosta fino alle ore 22:30. Erano tre ore interminabili. Stanchi e già
provati da una lunga giornata di lavoro in officina, i due ragazzi
lottarono con tutte le loro forze per cercare di portare il loro lavoro
avanti il più possibile, ma non fu di questo avviso Ernesto che fece visita
per vedere a che punto fossero. Si arrabbiò e li accuso di essere lenti ed
incapaci. I ragazzi fecero presente a Roberto che la situazione era
insostenibile e non ce la facevano più a sostenere quei ritmi di lavoro.
Roberto replicò: <<Ragazzi, avete ragione ma purtroppo è un favore
che devo fare per forza ad Ernesto. Sono in debito con lui e con certe
persone bisogna ripagare i favori ricevuti senza discutere, stiamo a
Napoli, funziona così.>> Ancora quella frase che risuonava nella mente
di Giovanni: <<Siamo a Napoli e funziona così...>>. Era
inaccettabile subire così senza reagire. Vedere un'intera popolazione con
il capo chinato senza alcuna reazione. Ma bisognava che qualcuno iniziasse,
ci voleva qualcuno che dicesse: <<Ora basta!>>. Ma chi? Un
ragazzino di 14 anni? Quel ragazzo che lasciò la vita da scugnizzo e la
scuola per mettere piede nel mondo lavorativo dove le attività sono
sottomesse a regole dettate dalla sopraffazione e violenza. O ti adegui o muori;
Napoli funziona così. Giovanni iniziò a provare rabbia verso quelle regole,
spesso si confrontava con altri suoi coetanei che come lui scelsero di
andare a lavorare. La situazione era simile per tutti. Regnava l'ignoranza,
l'arroganza, l'abuso e il ricatto. C'era qualcuno che gli raccontava che a
fine settimana non riceveva neanche la misera paga che gli spettava.
Ragazzi costretti a lavorare perché le famiglie avevano bisogno di denaro.
Altri facevano lavori forzati. Giovanni si confrontava continuamente e alla
fine capì che la città era malata in tutti i sensi, e per i miserabili
c'era solo la sofferenza e la sottomissione. Lesse una scritta su un muro
che gli rimase impresso nella mente “La vita è un diritto non un elemosina”
Per la prima volta decise di ribellarsi, si presentò dal suo titolare e
iniziò a chiedere orari di lavoro e paga più ragionevoli e infine gli disse
che mai più avrebbe messo piede in casa di Ernesto a fare il muratore
contro la sua volontà, e soprattutto se non retribuito. Roberto si alzò
dalla sedia e gli disse: <<Vattene oggi stesso. Ti ho dato la
possibilità di imparare il mestiere e tu inizi a dettare legge? Non hai
capito come funziona il lavoro. Vai via e non farti più vedere. Farò in
modo che non ti prenderà a lavorare più nessuno. Gente come te devono
essere schiacciate!>> Giovanni rispose: <<Guarda che io non
devo dire grazie a nessuno, mi hai assunto senza contratto, mi hai fatto
fare dodici ore di lavoro al giorno con una paga da fame, mi hai costretto
ad imbrogliare i clienti e a fare dei lavori extra non retribuiti. Il
mestiere l'ho imparato io con il mio impegno, io volevo solo rivendicare i
miei diritti.>> Quel giorno Giovanni uscì da quella officina a testa
alta, si sentiva una persona libera nello spirito che non voleva più
sottostare a nessuno. Giovanni si ricordò della promessa fatta a Ciccillo.
Si recò presso la cantina in cui lavorava e lo vide uscire con una grossa
cassa d’acqua minerale sulle spalle. Stentava a camminare e sentiva molto
il peso delle casse che portava fino ai piani delle abitazioni dei clienti.
Giovanni lo seguì, lo raggiunse e gli tolse la cassa dalle spalle e si
offrì di portarla. Ciccillo appena lo vide fu molto felice e disse:
<<Giovà grazie. Giusto in tempo non ce la facevo più. Questo lavoro
mi sta ammazzando>>. Ebbe una crisi e pianse. A quel punto Giovanni
appoggiò la cassa a terra e lo abbracciò, successivamente esclamò:
<<Ciccì stai tranquillo, presto inizierò a lavorare per conto mio e
come ti avevo promesso ti farò lavorare con me>>. Ciccillo sentì una
liberazione; con Giovanni si sentiva protetto. Giovanni gli asciugò le
lacrime con un fazzoletto di stoffa e disse: <<Ciccì, finisci la
settimana di lavoro qui e da lunedì verrò a prenderti. Sappi che non potrò
darti quello che meriteresti, ma farò tutto il possibile per farti vivere
nel miglior modo possibile>>. Ciccillo si fece forza, aveva piena
fiducia in Giovanni e insieme percorsero il tragitto fino alla consegna
della cassa. Giovanni voleva essere la guida di Ciccillo ed insegnargli i
valori giusta della vita e non voleva che cadesse nelle grinfie del
malaffare. Quella sera Giovanni si recò a casa e durante la cena i suoi
genitori esternarono le proprie perplessità sulla sua scelta, alle quali
Giovanni esordì rassicurandoli sul fatto che sarebbe riuscito ad andare
avanti anche se non fosse “completo”. Si respirava aria positiva, anche
perché quell’anno (1990) la squadra del Napoli stava giocando bene ed era
in lotta per vincere il secondo scudetto. Lo scudetto arrivò e la città per
la seconda volta fu avvolta dai festeggiamenti. Il popolo si sentiva
orgoglioso di essere napoletano. Grandi e piccoli erano riconoscenti a
Maradona che nonostante non conducesse una vita esemplare entrò in modo
definitivo nei cuori dei napoletani che abituati a giustificare tutto non
ebbero problemi a farlo anche per lui. Il Napoli era per la seconda volta
campione d’Italia e questo andava al di sopra di ogni pregiudizio morale. La
vittoria dello scudetto portò lavoro a tutti gli indotti attorno alla
squadra, sia in modo legale che non. Si sperava che quei momenti magici
durassero il più possibile. La città di Napoli si stava preparando con
lavori di ristrutturazione allo stadio e nuove strade per ospitare i
mondiali di Italia 90. Maradona confidava molto che i tifosi del Napoli tifassero
Argentina e non Italia, ciò era dovuto dal fatto che tanti si sentissero
Napoletani e non Italiani, ma il destino fu beffardo: il giorno 3 luglio
1990 si disputò la semifinale di coppa del mondo Italia – Argentina allo
stadio San Paolo. Maradona chiese apertamente in TV ai napoletani di tifare
Argentina, ma quel giorno fu deluso; il popolo napoletano portò uno
striscione allo stadio in cui c’era scritto <<Maradona, Napoli ti
ama, ma l’Italia è la nostra patria>>. Non rappresentava il sentimento
di tutti, ma di tanti. E questo striscione diede la prova che a Napoli
qualcosa stava cambiando: il modo di pensare nei confronti dell’Italia, non
si guardava più agli eventi tragici del passato ma alle possibili
opportunità che dava e poteva dare l’Italia ai napoletani considerando che
in tanti si erano trasferiti al nord per fare una vita migliore ed avere un
lavoro dignitoso, molte famiglie avevano avuto accesso al mutuo ed erano
riusciti a comprare casa, cosa impensabile a Napoli.

La gente si era stancata dei soliti
piagnistei che sostenevano che i Savoia avevano ridotto il sud alla fame
durante l’Unità d’Italia. Si percepiva voglia di smettere di lamentarsi e
di rimboccarsi le maniche perché la modernità era una risorsa che non
doveva sfuggire per questo le famiglie smisero di fare tanti figli e ne
facevano 2 al massimo 3 per garantire ai propri figli un futuro dignitoso. L’Argentina
vinse ai rigori passando alla fase finale dei mondiali, mentre l’Italia
ultimò il mondiale al terzo posto. Bisognava darsi da fare per accorciare
quel divario che c’era tra il nord e il sud. Giovanni aveva piena
consapevolezza che lamentarsi tutto il giorno e reprimendo i giovani e
spingendoli nel malaffare non serviva a nulla. Bisognava lavorare e creare
benessere. Molti ragazzi si accorsero che nonostante il lavoro legittimo
fosse meno redditizio della vita di strada, forse era meglio seguire la
strada giusta. Ciò diede vita ad un cambiamento sociale alla popolazione
che era ferma da troppi anni chiusa in una mentalità criminale e di
sopraffazione. Aveva messo qualche soldo da parte e decise di organizzarsi
almeno per i primi tempi a lavorare nel box di suo zio che glielo aveva
messo a disposizione. Si fece fabbricare un banco di ferro da un fabbro, comprò
una morsa e alcuni arnesi che gli davano la possibilità di fare gran parte
delle riparazioni che necessitavano i suoi clienti. Il box era piccolo, ma
lui riusciva a lavorarci ugualmente in modo arrangiato. Ormai era abituato
a tutte le condizioni difficili. Era bravo, gentile e disponibile e questi
elementi attirarono tanti clienti, anche se non aveva imparato del tutto il
mestiere riusciva a soddisfare tutte le esigenze della sua clientela. I
suoi familiari erano orgogliosi, riuscì a guadagnarsi la stima dei suoi
amici scugnizzi che iniziarono a vedere che forse c'era qualcosa di diverso
dal nome riscatto. Giovanni stava iniziando una nuova vita dignitosa. C'era
ancora tanta strada da fare. Cercò di convincere i suoi amici scugnizzi che
bisognava lottare per cambiare la propria vita e che lo scugnizzo non era
altro che un randagio burattino abbandonato a sé stesso. Convinse a un bel
po’ di persone a non trattare con i criminali in caso di furto del proprio
veicolo, il “Cavallo di ritorno” non doveva essere accettato per non
alimentare la criminalità, bisognava rivolgersi alle forze dell’ordine come
avviene in tutti i luoghi civili. Finalmente diede un nuovo senso alla vita
di tante persone e alcuni lo aiutavano nel suo lavoro. Credeva di poter
mettere da solo un po' di cose nel verso giusto, ma si scontrò subito con
la dura realtà della città di Napoli. In città furono posti i contenitori
per la raccolta della spazzatura, grazie a una nuova società privata
municipalizzata, le cose stavano iniziando a cambiare, i tanti spazzini
abituati a timbrare il cartellino la mattina e ritornare a casa senza
lavorare furono messi alle strette, c’erano i controlli e chi non lavorava
veniva subito licenziato. Cambiare le cose e rendere le persone libere
creava problemi al "sistema". Decise di convincere le famiglie
che abitavano nel suo vicolo a organizzarsi in proprio e ripulire e
disinfettare quel vicolo che versava in condizioni pietose, voleva
raccogliere piccole somme di denaro per poter comprare il materiale che
serviva, 2000 lire a famiglia, era una somma non obbligatoria chi non
disponeva di quella somma poteva dare quello che poteva, era un modo per
uscire da quel degrado che stava lì da anni e le istituzioni non
provvedevano in nessun modo a risolvere. a lui non piaceva l’idea che là
ognuno pensava alla sua abitazione senza dar conto all’ambiente esterno
comune, voleva trasmettere quel senso di ordine e pulizia e dire basta! Un
giorno fu avvicinato da on Gaetano era un uomo basso di circa 60 anni
abitava in un basso accanto al portone dove abitava lui < Giovà ho
sentito dire della tua iniziativa, ma cosa ti sei messo in testa!>
Giovanni lo guardò con aria da sfida, davanti a lui si presentò quell’uomo
che aveva l’emblema del degrado < on Gaetà io mi sono messo in testa di
uscire dal marciume che di organizzarci tra di noi a stare puliti nel
vicolo> On Gaetano < ah ah ah tu sei scemo, ci deve pensare il comune
a pulire il vicolo e finché non arrivano loro qui nessuno alzerà un dito
per farlo, qui siamo abbandonati sono anni che aspettiamo un servizio di
pulizia decente!> Giovanni < appunto proprio per questo voglio che lo
facciamo noi, le istituzioni non funzionano e noi non possiamo stare qui a
piangerci addosso tutti i giorni ad aspettare, a sperare che un giorno forse,
chissà? Dobbiamo riprenderci la nostra dignità rialzarci con le nostre
forze> On Gaetano < Stai zitto, qui non si farà nulla, molta gente e
contraria, vuoi raccogliere i soldi e poi? Sono sicuro che a te non
interessa ripulire la strada il tuo intendo e fare la cresta su questa
povera gente che già stanno messi male per conto loro> Giovanni lo
affrontò con decisione <on Gaetà ma voi siete fuori di testa, possibile
che non riuscite a capire che bisogna muoversi da sé e non aspettare
nessuno, non possiamo vivere sulle spalle delle istituzioni, non possiamo
vivere di elemosina! > On Gaetano < lo stato non funziona, non c’è e
non ci dà nulla> Giovanni < e proprio qui vi sbagliate, dite che lo
stato non vi da nulla, in vita vostra avete mai chiamato i pompieri? Avete
mai chiamato un’ambulanza? Siete mai stato curato dall’ospedale? Avete il
medico curante? Lo stato dà la pensione sociale anche a chi non ha mai
versato un contributo. Vedete che lo stato dà tanto, forse più di quello
che meritereste > On Gaetano rimase impietrito senza dire una parola, le
parole di Giovanni lo lasciarono di stucco, Giovanni andò via sconcertato
da quel modo di pensare di menti chiuse. Ma proprio quando le cose stavano
andando nel migliore dei modi per Giovanni si ripresentò una nuova
difficoltà, nel febbraio del 1991 la polizia Municipale applicò i sigilli
alla sua officina a causa di mancanza della licenza e permessi sanitari,
nonostante la sua coscienza stesse cambiando aveva ancora strada da fare,
regolarizzare la sua attività. Cercò in ogni modo di affittare un nuovo
locale e comprare le attrezzature necessarie e chiedere tutti i permessi
per poter esercitare il suo mestiere, si rivolse a un Fiscalista che gli
fece un preventivo di spesa, servivano 15 milioni di lire per poter
realizzare tutto ciò, gli fu consigliato a chiedere un finanziamento che
poteva scontare in rate mensili, si recò in banca con suo padre dove
aveva un conto corrente, suo padre voleva chiedere il finanziamento a nome
suo e per garanzia portò con se la busta paga, il direttore li fece
accomodare e spiegò che era difficile avere il finanziamento perché la
busta paga riportava un reddito molto basso e il conto era quasi a zero,
Giovanni incuriosito chiese al direttore < scusate direttò ma cosa
centra il fatto che mio padre ha poco denaro su conto? Perché questo
pregiudicherebbe l’esito del finanziamento?> il direttore rispose <
caro Giovanni noi prestiamo i soldi a chi ha i soldi non a chi non li
ha?> Giovanni < Ma come dovrebbe essere al contrario! Se avessimo
avuto denaro sul conto non staremmo qui a parlare, avremmo utilizzato i
nostri denari > Il direttore < Giovanni il tuo discorso ha una logica
morale ma non una logica commerciale, mi dispiace funziona così, il
finanziamento non potete ottenerlo, non avete i requisiti > Giovanni e
suo padre uscirono da quella banca delusi e amareggiati, e ritornarono a
casa. In serata i suoi genitori proposero a Giovanni a chiedere i soldi a
un Mercante, Giovanni rifiutò categoricamente, non voleva rivolgersi a uno
strozzino per aprire la sua attività, intanto la situazione rimaneva
difficile, suo zio lo indirizzò da un noto Dottore Commercialista in via
Caracciolo, disse che lo stato faceva dei prestiti a fondo perduto per i
giovani che volevano aprire un attività, c’era la possibilità di ricevere
fino a 30 milioni di lire che sarebbero stati restituiti solo una piccola
parte, Giovanni essendo ancora minore fu accompagnato da suo padre,
sembrava l’occasione giusta per poter finalmente aprire una vera e propria
officina autorizzata. Fecero ingresso nello studio del Dott. Benincasa, uno
studio lussuoso che dai balconi era possibile ammirare la veduta del
lungomare Caracciolo, dal Castel dell’ovo fino a Posillipo una vera e
propria magnificenza, incantati dal quella veduta per un attimo
dimenticarono lo scopo della loro visita, il Dottore li fece entrare nel
proprio studio su due poltrone comodissime, Giovanni spiegò al dottore lo
scopo della sua visita e aveva già in mano un preventivo di spesa di
attrezzature e utensili, il preventivo era di circa 15 milioni di lire, era
tutto ben illustrato e dettagliato, il dott. Benincasa esclamò < bene
vedo che vi siete organizzati in modo impeccabile, credo che appena
compirai 18 anni potremmo inviare la pratica di finanziamento> Giovanni
< dottò ma che probabilità ho di ricevere il finanziamento?> Benincasa
< le probabilità sono molto alte, non ci sono garanzie da offrire quindi
non sarà difficile ottenere il finanziamento per i giovani, vedi lo stato
non si dimentica di nessuno!> Giovanni era già al settimo cielo, nella sua
mente già stava immaginando la sua bella officina, fece un ultima domanda
< dottò mi fa piacere sapere queste cose, ci rivedremo l’anno prossimo
quando sarò maggiorenne, invieremo la pratica e quando arriveranno i soldi
potrò finalmente aprire la mia officina> Benincasa < c’è solo un
piccolo problema, non funziona esattamente così, ti spiego meglio, dovrai
anticipare tu i soldi poi porterai le fatture d’acquisto qui e
successivamente ti sarà erogato il denaro che avrai speso sotto forma di
finanziamento> Giovanni < ma come anticipare io? È quasi lo stesso
ragionamento che mi ha fatto la Banca, io avessi avuto il denaro non sarei
venuto qui! Non lo capite questo!> Giovanni arrabbiato e avvilito iniziò
a perdere la pazienza, suo padre lo invitò alla calma, Il dottor Benincasa
disse < Giovanni mi dispiace queste sono le direttive dello stato, non
dipende da me> Giovanni si alzò dalla poltrona e disse < È una legge
che non aiuta a chi ha veramente bisogno, non aiuta a nessuno, lo stato mi
sa che si è dimenticato della povera gente da anni, voglio credere in esso
ma non mi dà la possibilità, Addio dottò!> Giovanni e suo padre
increduli lasciarono quel luogo lussuoso e ritornarono a casa demoralizzati
perché sembrava proprio che non c’era nessuno che li potesse aiutare,
dovevano fare tutto con le loro forze. Nel gennaio del 1992, morì la nonna
materna di Giovanni, era una donna molto nota nel quartiere che indusse
tantissime persone a dargli l’estremo saluto. La notizia giunse anche a
Ninetta che ormai donna volle a tutti i costi andarci. Voleva dare l’ultimo
saluto alla signora Nunzia, ma aveva anche il desidero di rivedere
Giovanni. Armando, il suo fidanzato, volle accontentarla. Si recarono a
Napoli in auto, giunsero nel vicolo e parcheggiarono. Proprio in
quell’istante accadde qualcosa di strano. Ninetta scese dall’auto e appena
alzò lo sguardo, davanti a sé vide Giovanni. I due si guardarono, non fu
uno sguardo normale, si trasmisero qualcosa con i loro occhi, furono
attratti l’un l’altro. Ma dovettero placare subito le loro emozioni. Anche
Armando uscì dall’auto e i due si salutarono a distanza chiudendo in sé le
proprie emozioni. Durante il corteo funebre i loro sguardi si incrociarono
più volte. C’era molta gente, ma allo stesso tempo silenzio e compostezza.
Man mano che il carro percorreva i vicoli come da tradizione, i negozianti
abbassavano mezza serranda del proprio negozio in segno di rispetto nei
confronti del defunto. Il corteo si sciolse in Piazza Carità, un ultimo
saluto a “nonna Nunzia” che si avviò diretta verso la casa eterna. Nonna
Nunzia era una donna di una bellezza indescrivibile, pelle scura, capelli
neri contrastati dagli occhi chiari. Aveva in sé tutta la napoletanità che
ci poteva essere. Analfabeta e povera aveva sposato suo marito di famiglia
nobile che abbaiato dalla sua bellezza si innamorò andando contro i suoi
familiari. Il carro si allontanò e la folla gradualmente si sfoltì. Armando
disse a Ninetta di aspettarlo lì, lui sarebbe andato a prendere la macchina
e sarebbe tornato lì per poi ritornare a casa. A quel punto Giovanni non
resistette, le se avvicinò, Ninetta stava lì ferma impietrita con un’aria
timida, lo guardava desiderosa di parlargli. Giovanni disse: <<Ninè,
tutto bene?>> Ninetta: <<Sì Giovà, tutto bene>> Giovanni:
<<Ora sei una donna, come sei bella!>> Ninetta arrossì, abbassò
lo sguardo e provando un senso di piacere rispose: <<Grazie Giovà,
anche tu sei diventato un uomo>> All’improvviso alzò lo sguardo e
disse: <<Giovà ma cosa è successo qui a Napoli? Non vedo le bande,
che fine hanno fatto gli scugnizzi? Ne ho visto qualcuno qua e là>>
Giovanni: <<Ninè, le cose stanno cambiando qui. La gente sta
iniziando ad aprire gli occhi>> Ninetta: <<Ma come aprire gli
occhi?>> Giovanni: <<Ci sono tante cose che vorrei spiegarti, magari
qualche giorno verrai a trovarmi e con piacere ti racconterò del mio e
quello di tanti ex-scugnizzi che hanno cambiato la propria vita>>
Ninetta: <<Mi sarà difficile venire da sola. Armando è molto geloso e
in particolar modo di te, ma io so dove abiti e ti prometto che un giorno
farò in modo di venire>> Gli diede un bacio sulla guancia e corse via
verso il marciapiede opposto della piazza. Armando stava per arrivare, non
voleva farsi vedere accanto a lui. Giovanni alzò la mano destra e la
appoggiò sulla guancia, le labbra di Ninetta lo avevano toccato, sentì i
brividi e una forte emozione che gli fece battere il cuore, una sensazione
mai provata prima d’ora. Non sapeva cosa fosse, ma fu un momento
indimenticabile per lui. In quel momento lo raggiunse Ciccillo, i due
assistettero a Ninetta che salì in auto con Armando e andò via. Giovanni
rimase impietrito, ancora con la mano appoggiata sulla guancia. Ciccillo
gli diede una spinta a farlo tornare in sé e gli disse: <<Giovà ti
piace Ninetta vero?>> Giovanni arrossì e disse: <<Ma che dici,
noi siamo amici! E poi lei è fidanzata>> Ciccillo scoppiò a ridere e
disse: <<Io ho la sensazione che anche lei sia innamorata di te,
prima da lontano vi ho visto quando parlavate e ho visto anche il
bacio!>> I due si incamminarono e ad un certo punto incrociarono per
strada Rosario, l’amico di Giovanni, anch’egli aveva lasciato la vita da
scugnizzo per fare il meccanico. Sapeva che Giovanni era stato costretto a
chiudere l’officina e gli disse che suo fratello maggiore a breve avrebbe
aperto un’officina meccanica e gli offrì una collaborazione momentanea.
Giovanni ne fu felice e concordò con Lorenzo, il fratello, di rimanere fino
a quando non sarebbe stato capace di aprire una sua officina. Insieme a
Ciccillo si adoperò a collaborare in quest’officina. In quel periodo
Giovanni e Rosario riallacciarono di nuovo la loro amicizia, in precedenza
era un’amicizia da scugnizzi, ma ora era da lavoratore. La loro passione
comune per i motori li unì a rincorrerla. Ogni sabato pomeriggio andavano a
vedere le gare clandestine di vespe da corsa, avevano luogo su un ponte di
un tratto di una strada statale in costruzione. Non mancavano mai alla
Mostra d’Oltremare per partecipare alla Mostra delle moto. Andavano sui
campi da corsa a vedere le moto da cross, erano felici e la loro passione
li accomunava. Ninetta apprendeva sempre meglio il mestiere insieme al suo
fidanzato Armando nel loro panificio. Quest’ultima era di fatto di
proprietà di Armando, ma suo padre, in un’ottica patriarcale vi si imponeva
senza alcun titolo. Lei conduceva una vita segregata, Armando le impediva
di uscire. Qualsiasi cosa avesse voluto fare, ne avrebbe dovuto chiedere il
permesso. Un giorno il papà di Ninetta, on Peppe, gli disse che non
riusciva a pagare il fitto di casa e convocò Ninetta e Armando sedendosi ad
un tavolo della sua umile casa: era dicembre e faceva freddo e on Peppe
prese le mani dei due giovani e disse: <<Ragazzi miei, purtroppo con
quello che guadagno non riesco ad andare avanti. Qui manca tutto, non
abbiamo nulla e ho deciso di lasciare casa. Ho trovato posto come il
guardiano di un garage a Fuorigrotta, là dentro c’è una stanza dove potrei
dormire senza pagare l’affitto>> Ninetta l guardò arrabbiata e disse:
<<Pà ma che dici? E io dove vado a vivere?>> Suo padre prese le
mani dei suoi giovani e le unì e disse: <<Ragazzi, ormai siete adulti
e dovrete cavarvela da soli>> Armando non esitò e disse:
<<Ninetta verrà a vivere con me dai miei genitori e presto ci sposeremo>>.
Ninetta tirò via la mano di scatto e si sentì sopraffatta dagli eventi, non
accettava che qualcosa o qualcuno dovesse decidere per la sua vita. Fece un
mezzo sorriso e guardò Armando, accettò di andare a vivere dai suoceri, ma
disse che voleva ancora aspettare per il matrimonio; non si sentiva pronta.
Non aveva trascorso un’infanzia serena e cercava serenità prima di
impegnarsi in una vita matrimoniale. I rapporti con i suoceri furono fin da
subito ostili; suo suocero Filippo era anch’egli un maschilista oppressore,
la moglie viveva in uno stato di quasi schiavitù e pretendeva da Armando e
Ninetta ritmi di lavoro insostenibili nel panificio. Le giornate erano
dure. Ninetta piangeva, si sentì ancora una volta abbandonata da suo padre
che aveva pensato a mettersi al sicuro senza sapere in che modo passasse le
giornate sua figlia, e specialmente, senza chiedersi se fosse felice. Ma
questa volta decise di non cercarlo più e di andare avanti da sola. Un
giorno ci fu una grossa lite tra Armando e suo padre che in preda all’ira
cacciò via di casa sua Ninetta e Armando che furono costretti a dormire nel
panificio. Nel laboratorio misero due brandine. Filippo preferì tenerseli
al lavoro semplicemente perché li sfruttava. Ninetta in una crisi di pianto
disse ad Armando: <<Troviamoci una casetta tutta nostra e
sposiamoci>>. Armando fu felice di questa dichiarazione, mentre per
Ninetta era solo un modo per sfuggire alla sofferenza. Credeva e sperava
che la vita matrimoniale ed una casa tutta loro l’avrebbe tirata fuori
dalla sofferenza. Armando comprò il “Fieracittà”, un giornale di annunci,
riuscì a trovare un piccolo basso nel Rione Sanità con un canone d’affitto
modico. L’abitazione era in condizioni pietose, aveva bisogno di una
ristrutturazione. Armando, dopo il lavoro andava nella casetta per
ristrutturarla. Non era un muratore, ma l’assenza di denaro e la
disperazione lo indusse a costruire quel piccolo nido d’amore che avrebbe
dato la felicità ad entrambi. Le giornate erano dure, Armando non si
risparmiava. Nel giugno del 1993 la casetta fu ultimata e finalmente i due
fidanzati potettero viverci. Armando chiese a Ninetta la data del
matrimonio, ma lei lo tirò verso sé e disse: <<Armà io mi sposo solo
se abbiamo un figlio>>. Armando la abbracciò e la baciò; quella fu la
loro prima notte d’amore. Desideravano un figlio e provarono fin da subito
ad averlo. Le merendine confezionate, i fast food e il cibo spazzatura,
ormai tutti possedevano videogiochi e motorini, tutte queste cose avevano
preso piede in tutti i ceti sociali, anche quelli più poveri. I ragazzini
erano aumentati di peso e sempre meno propensi alle attività motorie,
iniziarono a vedersi i primi personal computer. L’ideologia dello scugnizzo
era ormai fuori moda e non più presa in considerazione. Questa fu l’ultima
fase che decimò del tutto gli scugnizzi. Rimasero pochissime bande ancora
in piedi, tra cui quella di Mariolino composta da sole sette unità, il
piazzale davanti casa di Mariolino non c’era più fu cancellato totalmente
dalla costruzione di un nuovo edificio scolastico comunale che dava posto
all’asilo, elementari e medie, le istituzioni avevano spazzato via il quel
piazzale che rappresentava il simbolo degli scugnizzi. altri ex scugnizzi
si erano tuffati in un altro settore che ormai aveva preso piede, quello di
rubare e pezzottare i ciclomotori di 50 di cilindrata, il manomettevano i
numeri di matricola del telaio grazie a dei punzoni d’acciaio facendo
corrispondere i numeri a un libretto di circolazione “falso” oppure
rubavano il ciclomotore e chiedevano i soldi del “riscatto” chiamato
cavallo di ritorno fingendosi intermediari dediti ad aiutare le vittime,
queste pratiche permettevano di guadagnare abbastanza soldi. Non facevano
più nulla ormai, non si giocava, non si facevano guainelle, tutte le
attività che un tempo svolgevano erano ormai tramontate. Si raggruppavano
in casa di Mariolino e perlopiù giocavano a carte raccontando vecchi
aneddoti sui nostalgici tempi passati.

Ormai avevano smesso di perseguitare chi
aveva lasciato la vita da scugnizzo e iniziarono ad armarsi di pistole e
coltelli, compiendo rapine nei quartieri più agiati della città. Il loro
odio nei confronti del “figlio di papà” era smisurato; andavano a colpire
solo loro, quelli che avevano avuto tutto dalla vita senza aver fatto alcun
sacrificio. Credevano che questi gesti rendessero giustizia alla loro
esistenza fatta da stenti e fatica. Spesso le vittime oltre ad essere
rapinate venivano anche picchiate. Nei loro occhi si leggeva rassegnazione,
avevano la piena consapevolezza che stava terminando la loro esistenza da
scugnizzo. Ma erano troppo legati ai loro ideali e alle loro usanze tanto che,
quando si incontravano preferivano rinchiudersi nell’umile abitazione di
Mariolino senza uscire. Era come se in quella stanza il tempo si fosse
fermato; si scherzava, si rideva, si dicevano parolacce per essere felici e
ingannare sé stessi. Fuori il mondo ormai era cambiato, ma loro si erano
creati un mondo parallelo tenendo ancora alto il loro orgoglio. Grazie alle
rapine iniziarono a guadagnare molto e ciò gli permise di vestirsi in modo
migliore, rinunciando ad essere sporchi e trasandati. Le catene dei negozi
di abbigliamento offrivano capi accessibili a tutti, non si trattava più di
un lusso. Inconsapevolmente, Mariolino e i suoi seguaci iniziarono ad
eliminare le usanze da scugnizzo, si affermò il trash, l’apparenza il
volgare travestito da signore. Ormai tutti andavano in giro ben vestiti
anche quelli meno abbienti. In quel periodo si incrementarono
iniziative da parte delle istituzioni per scongiurare la delinquenza a
Napoli e provincia, molti detenuti appena finivano di scontare la loro pena
in carcere li collocavano nel mondo lavorativo, perlopiù posti comunali o
con aziende municipalizzate, da una parte diede buoni risultati ma da
un'altra parte fece crescere un malcontento nei riguardi di chi viveva
“onestamente” senza delinquere e erano in attesa da anni la chiamata
dall’ufficio collocamento che non arrivava mai, le istituzioni dal canto
loro ragionavano alla rovescia si sentirono traditi nel loro orgoglio, era
come se chi è delinquente viene premiato e la persona onesta è destinata a
soccombere. Mariolino preferì incontrarsi con altri capi banda per trovare
una svolta alla loro esistenza: la sua richiesta fu presa molto in
considerazione perché insieme volevano trovare una via d’uscita da questa
situazione. Non volevano più vivere nei ricordi e nella nostalgia. Dopo
diversi giorni Mariolino raggruppò i suoi pochi fedeli presso la sua
abitazione fu l’ultima riunione che fecero, recitò un paio di versi
che invocavano l’onore di essere stato scugnizzo e successivamente si
diressero in piazza Carità dove vi erano tutti i frammenti delle
poche bande rimaste, d’accordo con gli altri capi banda gli ultimi
scugnizzi si incamminarono tra i vicoli della città cantando a squarciagola
i loro inni, le lacrime scendevano tra i loro occhi, ormai erano raggiunti
alla fine della loro esistenza e non c’era più verso di proseguire, non
c’erano più le condizioni per farlo. Con orgoglio fecero un’ultima parata
per avvertire alla popolazione che gli scugnizzi non sarebbero esistiti
più, tra i panni stesi dai balconi e le finestre si intravedevano gente che
li applaudiva con commozione, quei ragazzi stavano deponendo il loro credo
per far parte del mondo “moderno” Il giro fu lungo e faticoso ma anche
questa volta gli scugnizzi mostrarono forza e resistenza abituati alle
avversità della vita. Anche i commercianti non persero l’occasione di
uscire fuori dalle loro botteghe e applaudire, il gruppo si fermò in piazza
del plebiscito detto “miez palazz” lì Mariolino fece il suo ultimo discorso
ad alta voce < Noi abbiamo avuto delle regole, abbiamo vissuto in
libertà, abbiamo rispettato gli adulti e siamo stati felici, quella felicità
ci accompagnava ogni giorno verso nuove avventure che ci allievava da tutti
i disagi che avevamo, ora ci accingiamo a entrare nella modernità e nel
benessere con la speranza che questi ci possano dare la felicità, che
dubito che l’avremo e avranno le prossime generazioni, cresceranno senza
doversi guadagnare nulla senza avere rispetto per nessuno ma solo per se
stessi, senza regole avendo la baldanza di poter fare ciò che si voglia
solo perché avranno qualche soldo in tasca, non avranno libertà perché avranno
una vita già programmata dedita solo all’accumulo di denaro senza rendersi
conto che la nostra vita ha una scadenza. Lo scugnizzo Napoletano sarà
ricordato per sempre come quel fanciullo tristemente felice, è difficile
comprendere questa definizione, ma è così> Con gran emozione dichiarò lo
scioglimento di tutte le bande e che da domani in poi ognuno sarebbe stato
libero di scegliersi la propria vita, si abbracciarono tutti e con grande
commozione ognuno di loro prese la sua direzione. Salvatore seguì Mariolino
che fino a raggiungerlo, aveva una domanda da porgli < Mariolì io devo
farti per forza questa domanda, c’è una cosa che mi tormenta> Mariolino
gli appoggiò la mano sulla spalla e disse < Salvatò dimmi, cosa ti
tormenta?> Salvatore < Se tutti hanno lasciato la vita da scugnizzo
perché attratti dal benessere e la tecnologia, le prossime generazioni
quando si scocceranno di queste cose a che cosa verranno attratti? Che ci
sarà dopo?> Mariolino si girò e disse < che bella domanda mi fai,
spera che ciò non avvenga> Salvatore rimase impietrito mentre Mariolino
si allontanava, replicò < e cosa succederà, dimmelo!?> Mariolino <
Immagina un mondo senza valori, rispetto, ideali, spirito di sacrificio,
altruismo… Tu lo immagini?> Salvatore <No> Mariolino < e nemmeno
io, Salvato stat buò> (stammi bene) Mariolino sparì tra i tanti passanti
di via Toledo lasciando lì fermo Salvatore confuso e avvilito. La maggior
parte degli ex Scugnizzi che si sciolsero quel giorno perseguirono una vita
anti stato, alcuni morirono ammazzati, per droga, alcuni andarono in
prigione per spaccio di droga causando danni a sé e agli atri con pene
severe, ecco perché gli anziani dicevano sempre “chi vende la droga vende
la morte”. Mariolino fu arrestato il mese successivo per tentata rapina a
mano armata, scontò nove anni di carcere in una casa di reclusione.
Salvatore diversi mesi dopo fu sorpreso a rubare un motorino in periferia
per sua sfortuna erano uomini legati a un potente clan della zona, lo
attaccarono a un albero e iniziarono a torturarlo, uno di loro tirò fuori
la pistola per ammazzarlo ma proprio in quel preciso istante sbucò una
pattuglia di carabinieri, i malviventi scapparono lasciando lì
salvatore sofferente, fu liberato dai carabinieri e riportato a casa,
il destino gli diede una seconda occasione, comprò delle scarpe in via
Toledo fu servito da una commessa scambiarono due chiacchiere, ritornato a
casa scoprì che la commessa per sbaglio mise nella scatola due scarpe dello
stesso piede, lui ritornò per cambiarle e da lì iniziarono a frequentarsi, i
due si sposarono e andarono a vivere in una città del nord, trovarono
entrambi un lavoro dignitoso e così lasciarono il loro passato lì nella
città di Napoli. Ninetta ben presto scoprì di essere incinta ma le
liti tra Armando e suo padre si estesero anche all’ambito lavorativo. Un
giorno Armando cacciò via dal panificio suo padre, aveva la piena autorità
per farlo. Questo, senza batter ciglio, andò via. Ninetta e Armando si
rimboccarono le maniche mandando avanti la loro attività e senza la guida
di nessuno. I sacrifici erano tanti, ma loro non sentivano alcun peso della
loro fatica. Armando aveva sempre di più in comportamento autoritario su
Ninetta, proprio come suo padre nei confronti di sua madre, rendendola
totalmente dipendente economicamente nei suoi confronti, senza avere alcun
diritto di decidere su nulla.
A Ninetta non piaceva questo atteggiamento, ma ogni qual volta che
protestava veniva presa a botte. Ancora debole e indifesa si ritrovò di
nuovo ad affrontare momenti di sofferenza che sperava, anzi credeva, che
con la nascita di un figlio sarebbero terminati, facendo cambiare
l’atteggiamento di Armando nei suoi confronti. Era un suo pensiero
istintivo ed era convinta che ciò accadesse. Ninetta era ostile nei
confronti di suo padre, si era sentita per l’ennesima a volta abbandonata,
ma il giorno 7 febbraio del 1995 si riconciliò con lui grazie alla
mediazione di una zia. Il giorno 14 febbraio del 1995 il papà,
emozionatissimo, accompagnò la sua Ninetta all’altare. Sotto l’uscio di
casa le sussurrò: <<Sei ancora in tempo. Andiamocene io tu e il
bambino, non ti sposare. Non la vedo bene>>, Ninetta però, preferì
seguire Armando e sposarsi. Quel <<Sì>> riunì il matrimonio e
da quel giorno il papà tutte le mattine e tutte le sere telefonava la sua
figliola per sincerarsi sulle condizioni della sua gravidanza. Era molto
apprensivo e voleva che tutto procedesse nel migliore dei modi. Il loro
rapporto iniziò man mano a ristabilirsi. Ninetta sapeva bene che suo padre
non era malvagio, ma semplicemente debole. Il giorno 29 marzo 1995, di
sera, fu l’ultima volta che Ninetta sentì la candida e rassicurante voce di
suo padre. Quella sera stessa, uomini armati, per una tentata rapina lo
colpirono nel garage in cui lavorava con un’arma da fuoco. La mattina
successiva, la telefonata del papà non arrivò. Armando nel pomeriggio si
presentò al pranzo con anticipo e disse: <<Ninè vieni con me dobbiamo
andare in panificio>>. Ninetta in quel momento non sospettò di nulla,
ma nella fretta Armando dimenticò i soldi a casa. Chiese all’amico
benzinaio la cortesia di fargli credito aggiungendo <<Poi te li
porto, è perché mio suocero sta male.>> Ninetta ebbe fin da subito un
brutto presentimento, anche perché il notiziario locale parlava di un uomo
che era stato sparato in un garage. Inizialmente non aveva dato ascolto al
notiziario, ma associandolo alle parole dette dal marito percepì che
qualcosa di brutto era accaduto. La vita gli stava regalando un po’ di
serenità anche se le cose non andavano come avrebbe voluto lei; non si
lamentava mai, tutto sommato avevano una loro attività, una casa e a breve
sarebbe nato un bambino, infine si era anche riconciliata con suo padre. Le
cose sembravano andare bene. L’amore del padre verso di lei e il futuro
nipote aveva placato ogni vecchio rancore. Ma in quegli istanti la sua
mente correva più del tempo, fece di tutto per ingannare i suoi pensieri,
si aggrappò ad una piccola speranza e sperava tanto che stesse vivendo un
sogno se non un incubo, e presto si sarebbe svegliata accanto al suo papà.
Ma in panificio arrivò la chiamata di un parente, rispose al telefono
Ninetta, la parente disse: <<Ninè!>> e Ninetta replicò:
<<Adesso arriviamo subito in ospedale!>> Esordì in questo modo,
interrompendo la conversazione, per dare fretta ad Armando e convincerlo a
portarla subito lì. Arrivati all’Ospedale, Ninetta vide i parenti che
stavano piangendo e capì subito. Armando preferì riportarla a casa. Verso
le ore 14.25 richiamò zia Grazia li invitò a recarsi all’obitorio dove si
trovava il corpo del papà di Ninetta, si avvicinarono Ninetta riuscì a
vedere solo etichetta che stava attaccata al piede di suo padre, preferì
fermarsi e ritornò indietro chiudendosi nel suo dolore poco dopo ritornò
Armando e invitò a Ninetta a non entrare perché suo padre era
irriconoscibile, aveva tutto il corpo tumefatto, prima di essere colpito
con arma da fuoco fu picchiato brutalmente. Il giorno 31 marzo il corpo fu
sequestrato dalla magistratura per effettuare l’autopsia, fu consegnato ai
familiari il giorno 1° aprile. La camera ardente fu allestita in un’associazione
culturale del quartiere, essendo il 1° aprile molta gente non cedettero che
on Peppe fosse morto, credevano fosse uno scherzo del pesce d’aprile. Quel
giorno fu avvertita con molta freddezza e poca umanità anche la mamma di
Ninetta che apprese la notizia con molto dolore, i funerali eccezionalmente
furono fatti il giorno 2 aprile del 1995 era di domenica, la gente non
riusciva a capacitarsi, on Peppe era una persona mite e il modo di cui era
stato ucciso lascio tutti con forti dubbi che fosse stata una tentata
rapina, ad un certo punto si creò una forte tensione tra i familiare di
Ninetta e i colleghi del garage di cui lavorava suo padre dopo che
videro una grillanda sui scritto “gli amici del garage” Dal quel giorno
Ninetta entrò in una forte depressione, aveva perso il suo papà, il suo
punto di riferimento, non mangiava più carne e ovunque sentiva l’odore
della colla per incollare le scarpe di cui usava suo padre a lavoro.
Ninetta era in uno stato pietoso, cercava di farsi coraggio per portare
avanti la sua gravidanza nel miglior modo possibile, iniziò ad avere paura
che qualcuno la potesse uccidere, la sua mente non era più lucida era in
preda alla paura e allo sconforto. La gravidanza andò avanti con molte
complicazioni, doveva partorire il 12 luglio ma partorì il 30 luglio
del 1995 alle ore 9.20 nacque il piccolo Leonardo, durante il parto Ninetta
a gran voce gridò “Papà” La Nascita di Leonardo le diede la forza e
lo scopo di andare avanti, il giorno 30 settembre del 1995 mentre
passeggiava col passeggino per puro caso incontrò Giovanni, l’incontro fu
piacevole per entrambi, Giovanni mostrò la sua fierezza nel vederla sposata
e con un figlio e la incoraggiò ad andare avanti per il bene di suo figlio
e suo marito, poi si lasciarono andare a racconti di quant’erano scugnizzi
che fece apparire sul giovane viso di Ninetta il sorriso di un tempo, le
loro vite si erano separate ma la loro amicizia era indelebile, si
salutarono con affetto e ognuno proseguì per la propria direzione. Giovanni
aveva pensato più volte in passato di corteggiare Ninetta ma ormai era
troppo tardi e aveva perso ogni speranza invece Ninetta era una donna
spenta e completamente distaccata a suo marito, l’illusione di una vita
felice con la nascita del piccolo Leonardo svanì fin da subito. Il giorno
14 febbraio del 1996 Ninetta ebbe una febbre molto alta, si ricordò che non
le era venuto il ciclo, nel dubbio comprò un test in farmacia e quel giorno
ebbe la notizia che stava aspettando il secondo figlio a distanza di 6 mesi
dal primo. Nonostante le tante difficoltà Ninetta e Armando lasciarono la
loro casetta e fittarono un appartamento più ampio e adatto per quattro
persone e vicino al loro laboratorio. Il giorno 25 Ottobre nacque Fabio ma
le cose non cambiarono anzi peggiorarono, le loro liti si intensificarono,
il maschilismo di Armando gli faceva credere che i figlio fossero proprietà
sua e non di Ninetta, nonostante tutto Ninetta combatté con tutte le sue
forze rimaneva sempre nella posizione della donna sottomessa, le veniva
dato solo 15000 lire al giorno per comprare da mangiare e nulla più, non
era padrona di nulla e se doveva andare dal parrucchiere oltre a chiedere
il permesso doveva elemosinare i soldi da suo marito. La situazione
peggiorava giorno per giorno fino l punto che divenne insostenibile al
punto che Ninetta ingerì una quantità eccessiva di Lexodan, svenne e cadde
a terra, le grida di Leonardo attirarono l’attenzione di una vicina di casa
che avvertì l’ambulanza che la trasportarono in ospedale, le salvarono la
vita per un pelo evitarono in tempo un arresto cardiocircolatorio. I
dottori chiesero cosa l’avesse spinta a questo gesto estremo ma Ninetta
negò la verità disse che non aveva contato bene le gocce …. Ebbe
paura di dire la verità, temeva che poteva fare una brutta fine, temeva che
i servizi sociali le potessero toglierle i figli ma il dottore concluse il
discorso con una frase < Ninetta ricordati se vuoi ammazzarti buttati
dal balcone ma se vuoi vivere lotta senza mai arrenderti, a volte la vita
riserva delle sorprese> Fu dimessa e ritornò a casa, il clima era sempre
ostile, Armando stava accumulando debiti perché spendeva soldi per fatti
suoi, i debiti aumentarono sempre di più al punto che armando non riuscì
più a onorarli. Nell’estate del 1997 Armando insieme al piccolo Leonardo
partì diretto a Torino deve si trovavano i suoi parenti e Ninetta e Fabio
andarono da parenti suoi a San Benedetto del Tronto, trascorsero l’intera
estate separatamente era come se ognuno stava cercando una via di fuga dal
loro matrimonio, entrambi percepirono che non stavano bene insieme e ognuno
di loro doveva pensare a sé stesso. Dopo l’estate al loro ritorno la
situazione rimase invariata, non dormivano più insieme, una mattina di un
giorno fresco di settembre Ninetta si sveglio e vide che Armando non c’era,
ebbe una strana sensazione, andò di corsa in camera da letto e aprì
l’armadio, tutti gli indumenti di suo marito erano spariti e con esso anche
i suoi effetti personali non c’erano più, quel giorno Armando pensò bene di
abbandonare tutto e tutti e andarsene dai parenti a Torino dove trovò
ospitalità. Ninetta invece rimase lì da sola con i suoi due piccoli con il
laboratorio chiuso, senza soldi e senza lavoro, ancora una volta fece
appello a tutte le sue energie e non farsi lasciare andare dallo sconforto,
aveva il compito di superare anche questa dura prova che la vita le aveva
riservato. All’indomani si presentarono 2 uomini a casa di Ninetta, erano
alti grossi e con volti da far paura, bussarono con le mani quasi a buttare
giù la porta, Ninetta aprì i due chiesero di Armando e dissero che gli
avevano prestato del denaro che non era stato restituito, Ninetta spiegò
che suo marito era sparito senza dire nulla e non sapeva dove fosse, i due
cercarono di impadronirsi di cose in casa di valore per recuperare i soldi
che dovevano avere ma Ninetta si oppose, gridò a squarciagola e minacciò
che avrebbe chiamato la polizia se non sarebbero andati via, a quel punti i
due energumeni andarono via con un’aria rassegnata e Ninetta rimase lì
impaurita e in un pianto disperato sfogo tutta la sua tensione emotiva che
aveva dentro. Passava il tempo, Ninetta venne aiutata dalla Parrocchia del
quartiere che le davano da mangiare e pagavano le bollette , purtroppo non
riuscì a pagare il fitto di casa, tirò avanti per diversi mesi dopo che il
proprietario le intimò di pagare Ninetta preferì lasciare casa di sua
iniziativa, si trasferì in un piccolo monolocale poco distante dalla sua
abitazione con un canone d’affitto molto modico, riuscì a vendere i mobili
e letto della sua camera da letto e con quei soldi riuscì a prendere
possesso del nuovo appartamento. Trovò un lavoro presso una pasticceria
come banconista, lo stipendio le permetteva di coprire quasi tutte le spese
necessarie per tirare avanti ma era penalizzata perché fu costretta ad
assumere una badante che si occupasse dei bambini e la retta che pagava
pesava gravemente sul suo bilancio, la sera quando arrivava a casa mangiava
i prodotti di rosticceria invenduti che il suo titolare le dava, qualche
volta rimaneva digiuna per non far mancare ai suoi figli il necessario. Il
peso delle responsabilità che aveva sulle spalle era come un macigno che
pesava al punto che spesse volte rischiava di cadere e non sapeva se poi si
sarebbe rialzata, quei pensieri la tormentavano ma bisognava andare avanti
in un modo nell’altro, quel poco di energie mentali e fisiche le riceveva
dai suoi bambini che ogni giorno le regalavano un sorriso innocente che
solo loro possono donare. Un giorno Armando tornò a Napoli in incognita, si
camuffò molto bene per non farsi riconoscere da nessuno, nel quartiere alcuni
abitanti gli riferirono che Ninetta aveva un nuovo appartamento, si recò
senza esitare bussò la porta, Ninetta appena lo vide richiuse subito la
porta, scoppiò a piangere e gli disse di andare via, Armando con molta
furbizia la convinse a farlo entrare, si sedettero e Armando spiegò che fu
costretto a scappare via per i troppi debiti che ormai non poteva più onorare
e che a Torino stava lavorando e stava conducendo una vita serena, le
propose di venire da lui con i bambini, Ninetta un po’ spaventata disse che
voleva riflettere su questa decisione, Armando la persuase al punto che
quella notte dormirono insieme ma il giorno dopo Armando iniziò di nuovo
con i suoi atteggiamenti da maschilista oppressore, ebbero un altro
diverbio al punto che Ninetta lo buttò fuori casa e da quel giorno ebbe la
piena consapevolezza che era finita tra loro e che quell’uomo le avrebbe
dato solo dolore e null’altro. Per un attimo ebbe i sensi di colpa per non
aver offerto ai suoi figli una vita migliore a Torino ma quel giorno disse
basta a tutti, da oggi penso prima a me stessa. Concesse ad Armando che
poteva vedere i figli una volta al mese in un luogo pubblico con lei
presente ma il destino fu nuovamente beffardo nei suoi confronti, quella
notte che dormirono insieme Ninetta cadde di nuovo tra le grinfie seduttive
di Armando e scoprì all’indomani che era nuovamente incinta di 2 gemelli,
La parola che le suonava in testa era sempre “ora basta” prese la decisione
più cruda ma più adatta a garantire la sopravvivenza per se e i suoi figli
nativi, la nascita di altri due figli le avrebbe distrutta definitivamente
la vita e avrebbe perso quel poco che aveva, da “egoista” decise di non
dire nulla a nessuno si recò al consultorio e decise di abortire di sua
volontà, nonostante gli psicologi cercarono di farle cambiare idea Ninetta
fu più decisa che mai, ormai le troppe sofferenza che aveva ricevuto non
riusciva a sentire più dolore per nulla, voleva semplicemente vivere una
vita normale e dignitosa ma nonostante i tanti uomini che si fecero avanti
a vivere una vita con lei e occuparsi dei bimbi, Ninetta rifiutò, non
voleva l’uomo che la mantenesse era desiderosa di innamorarsi. Pensava
spesso a Giovanni voleva incontrarlo di nuovo ma ogni volta che ci pensava
poco dopo ci rinunciava, immaginava che una Giovanni avrebbe sicuramente
un'altra relazione con altra donna e non voleva essere di intralcio. Il
giorno 7 Dicembre 1997 si convinse e decise di recarsi all’officina dove
lavorava Giovanni senza farsi troppe domande, pensò che la sua era
semplicemente una visita da amica e che non doveva interferire nella vita
personale di Giovanni, alla sua presenza Giovanni spalancò gli occhi e la
salutò con molto affetto, Giovanni le disse <Ninè come mai da queste
parti?> Ninetta abbassò la testa e rispose < Giovà ti sono venuto a
trovare per darti gli auguri di Natale>, Giovanni ne fu felice e replicò
< tutto bene? Ti vedo giù di morale> Ninetta < io e Armando ci
siamo lasciati, abbiamo perso il panificio e ora vivo in un monolocale sola
con i miei due figli, ora faccio la banconista in una pasticceria come
dipendente> Giovanni spalancò gli occhi ed espresse tutto il suo
rammarico, il mondo gli stava cadendo addosso, pregava sempre al signore
che potesse dare una vita serena a Ninetta ma quella notizia lo sconvolse,
il fatto che stesse male lo faceva star male, a quel punto Ninetta prese un
pezzetto di carta segnò con penna il suo numero telefonico e disse <
Giovà ti lascio il mio numero, se nel caso vorresti fare quattro
chiacchiere con una amico io sarò felice di ascoltarti> Giovanni
apprezzò molto quell’invito, raccolse il foglietto e lo conservo con molta
cura. Dopo alcuni giorni, Giovanni cercò di chiamare Ninetta ma il
telefonino risultava sempre spento, ebbe un senso di vuoto perché non
sapeva dove abitasse e temeva di non rivederla più anche se non c’erano i
presupposti. Il giorno 15 gennaio 1998 Ninetta si ripresentò all’officina
Giovanni non esitò a dirle< Ninè ho cercato diverse volte di chiamarti
ma il cellulare risultava sempre spento> Ninetta sorrise con molto
piacere; la notizia che Giovanni aveva tentato di chiamarla per parlarle
trasmise in lei un senso di piacere che mai aveva percepito. Con un sorriso
rispose che aveva avuto il cellulare in assistenza perché si era rotto per
questo risultava sempre spento, poi aggiunse < Giovà voglio farmi
perdonare, venerdì sera sei invitato a cena a casa mia> Giovanni la
guardò perplesso, sorrise e accettò l’invito. Riflettete con molta
attenzione prima di recarsi a casa di Ninetta, Si presentò da lei con
spirito di amicizia e per darle un supporto morale, il fatto che Ninetta
fosse ancora sposata con Armando demoralizzò Giovanni nonostante le piaceva
tantissimo, ma senza farsi troppe domande quella sera entrò in casa e nella
vita di Ninetta. Il monolocale era umile ma ben tenuto, c’era una struttura
letto di cui c’erano i bambini che dormivano, poi c’era una piccola cucina
e un piccolo bagno. Al centro della stanza c’era la tavola ben imbandita
era tutto, Ninetta aveva un vestitino nero di velluto sembrava una
reginetta, Giovanni rimase abbagliato dalla sua bellezza al punto che si
senti imbarazzato, si aspettava una cena spartana; invece, Ninetta
organizzò una vera e propria cenetta romantica. Parlarono tanto e Giovanni
le disse che dopo la morte di Franco lo aveva segnato e decise di cambiare
vita e di non essere più uno scugnizzo poi le confessò che era fidanzato ma
non l’amava e aveva deciso che prima o poi l’avrebbe lasciata e
rivolgendosi a Ninetta le disse che oltre a un supporto morale era
intenzionato a darle anche un aiuto economico, Ninetta lo guardò con occhi
lucidi e in un atmosfera di pieno silenzio si diedero il loro primo bacio, Giovanni
si alzò di balzo e le disse che doveva andare via per un impegno urgente.

Scappò verso casa voleva riflettere bene,
quel bacio gli diede dei brividi che mai aveva sentito, il cuore gli
batteva forte ma l’amara realtà lo turbava, non voleva intromettersi nella
vita di una coppia seppur separati erano sempre marito e moglie, preferì
starsene qualche giorno da solo e riflettere profondamente. Dopo diversi
giorni Ninetta telefonò Giovanni e lo invitò di nuovo a casa sua per
un'altra cenetta romantica e gli confessò che aveva tanto bisogno di lui,
Giovanni nonostante non volesse andare si sentì attratto e non riuscì a
rifiutarsi, era desideroso di toccarla, di accarezzarla e di baciarla.
Quella sera mentre cenavano Ninetta appoggiò la sua mano su quella di
Giovanni e gli disse < Giovà tu lo sai che ora noi siamo una coppia?>
Giovanni la baciò intensamente e accettò con tutto il suo cuore la loro
unione, era perdutamente innamorata di lei al punto che lasciò
definitivamente la sua fidanzata e decise di costruire una vita insieme
alla sua amata Ninetta. Armando periodicamente come accordi veniva a Napoli
per vedere i suoi figli, finché un giorno Leonardo gli disse che la mamma
aveva un fidanzato, la notizia lo fece irritare al punto che il mese
successivo organizzò uno stratagemma per punire Ninetta in modo definitivo,
stavano in un parchetto insieme ai bimbi come di consuetudine alche Armando
disse a Ninetta avrebbe portato i bimbi a comprare i palloncini da un
venditore ambulante che era distante circa 300 metri, Ninetta non si oppose
anche perché anche se distanti erano a vista d’occhio, proprio quando
Armando si trovò vicino al venditore di palloncini prese con le mani i
bimbi e li portò con sé in un taxi che era fermo (già d’accordo con lui),
Ninetta fu ingannata ancora una volta, Corse più che poté verso il taxi ma
non fece in tempo a raggiungerli, la distanza era troppa, montarono e
scapparono via quasi come un rapimento, si recarono alla stazione centrale
e presero un treno Diretto per Torino. Ninetta fu colta da un malore, ebbe
giusto il tempo di avvertire Giovanni che sopraggiunse immediatamente ad
aiutarla a riprendersi, questo fu l’ennesimo forte dolore che afflisse
Ninetta sprofondò di nuovo nello sconforto, Giovanni la stette vicino a
superare quei momenti difficili al punto che si trasferì a vivere da lei.
Preferì non avvertire la polizia e né tantomeno rivolgersi a un avvocato,
in cuor suo pensò che tutto sommato i bimbi avrebbero avuto una vita
migliore a Torino e promise a sé stessa che un giorno sarebbe andata lì a
riprenderli, ora doveva ricostruire la sua vita con Giovanni, era
innamorata e si sentiva amata al punto che iniziò a non avere più paura di
nulla, la sua parola d’ordine da quel momento era “è solo questione di
tempo poi aggiusterò tutto quello che mi è stato tolto” Decise di
riscattarsi e di costruire insieme al suo amato una nuova famiglia.
Successivamente i due innamorati dovettero fare i conti con un altro
problema “i pregiudizi” i genitori di Giovanni erano contrari alla loro
relazione, non volevano che il figlio stesse con una “donna sposata”
giudicata da loro donna peccaminosa e non affidabile al punto che Ninetta
fu intimata a lasciare perdere il loro figlio e non farsi più vedere, la
notizia fu riferita a Giovanni che litigò pesantemente con i propri
genitori trasferendosi definitivamente a casa di Ninetta. Giovanni non
guadagnava abbastanza e la situazione era difficile perché non poteva più
contare su un aiuto psicologico ed economico dei suoi genitori che spinti
dalle voci di quartiere sulla reputazione di Ninetta credevano di fare una
cosa giusta per il bene del proprio figlio. A settembre del 2000 Ninetta
seppe di aspettare un bambino da Giovanni la notizia diede ai due giovani
tanta voglia di combattere, Ninetta nonostante era prena riuscì a trovarsi
un lavoro in un laboratorio di bomboniere, guadagnava ottocento mila lire
al mese che insieme a quello che guadagnava Giovanni diede la possibilità
di poter pagare le spese necessarie per tirare avanti. Si ripresentò zia
Filomena venne a vivere nel quartiere dei genitori di Giovanni, seppe che
Ninetta aspettava un bambino e non esitò a vendicarsi nei riguardi di
Ninetta, andò a trovare la madre di Giovanni le comunicò che Ninetta era
incinta ma inventò che il padre non fosse Giovanni, così indusse la signora
Anna a convincere suo figlio a far abortire Ninetta e di sbarazzarsi di lei
il prima possibile perché giudicata una poco di buono, aveva già
preorganizzato un aborto semi abusivo con un medico compiacente dietro
compenso in denaro, la signora Anna non diede retta a Filomena, sapeva bene
che era una donna malvagia e che aveva fatto molto male a Ninetta per cui
la invitò ad andare via e le disse di non venire più a casa sua. Era un
giorno del dicembre del 2000 Il papà di Giovanni si recò in officina e
disse a Giovanni di “buttare l’ascia di guerra” e ritornare a casa loro per
le feste natalizie, Giovanni stizzito rispose <Pà dì a mamma che io
verrò da voi solo se accetterete Ninetta nella nostra famiglia!> il papà
rimase perplesso non seppe cosa rispondere e gli disse che avrebbe riferito
alla mamma e gli avrebbe dato risposta il prima possibile, infatti dopo
qualche giorno on Antonio si ripresentò in officina e disse a Giovanni che
potevano venire a casa a trascorrere le feste Natalizie e che Ninetta
sarebbe stata accettata come una nuora senza alcun pregiudizio. La notizia
riempì di gioia i due giovani innamorati che acquistarono ancora più
sicurezza nell’affrontare la vita ed erano felicissimi che i genitori di
Giovanni avevano aperto la porta a Ninetta senza badare ai pregiudizi loro
e specialmente della gente del quartiere. Il giorno 11 dicembre si
presentarono, Ninetta aveva già la pancia che si vedeva, trascorsero il
Natale più bello della loro vita tutti insieme a progettare il futuro per
loro e per il nipotino. Nel gennaio del 2001 Giovanni riuscì, grazie
all’aiuto dei suoi genitori, ad affittare un piccolo locare che riuscì a
adibirlo in officina meccanica, anch’esso sprovvisto di licenza ma al
momento la priorità di Giovanni era che a breve sarebbe nato suo figlio ma
confidò che con l’aiuto delle istituzioni avrebbe trovato il modo per
regolarizzarsi e non dover lavorare in nero. Al suo fianco ad aiutarlo in
officina l’insostituibile Ciccillo che lo avrebbe seguito in capo al mondo.
Era il 6 giugno 2001, giornata calda e afosa. Giovanni era impegnato al
lavoro. All'improvviso si presentò un uomo, alto con occhiali scuri ed
entrò nella sua officina. Si girò intorno a guardare senza dire una parola.
Giovanni si avvicinò a lui e disse: <<Avete bisogno di
qualcosa?>> L'uomo rispose: <<Buongiorno. Sono on Raffaele.
Sono un uomo molto rispettato e aiuto tanti giovani a realizzare i propri
sogni. I soldi non mi mancano e per questo ti faccio una proposta che sono
certo che non rifiuterai.>> Giovanni iniziò ad insospettirsi, ormai conosceva
bene quel linguaggio: docile e vellutato ma tagliente come una lama. Si
avvicinò a "on Raffaele" con aria autoritaria e gli disse:
<<A me la vita mi ha insegnato a diffidare da chi vuol farti del bene
senza chiederti nulla in cambio.
Di cosa si tratta?>>. Raffaele sorrise e rispose: <<Molto
semplice, tu lavori in questo sgabuzzino da un po'. Hai aperto senza
chiedere il permesso a noi, ma ti voglio perdonare, perché questa non si
può considerare una attività. Finora nessun rappresentante dello stato è
venuto qui ad aiutarti per darti la possibilità di aprirti una vera
officina. Menomale che ci siamo noi, amici del popolo, grazie a noi tanta
gente riesce a sopravvivere, diamo lavoro a chi ne ha bisogno. Noi ti
aiuteremo ma ricordati che nella nostra legge tu avrai e darai.>> Giovanni
rimase lì ad ascoltarlo e capì subito che era la camorra che aveva bussato
alla sua porta. on Raffaele aggiunse: <<Io ti faccio uscire da questo
buco, apriamo una vera e propria officina con attrezzatura buona. Pago
tutto io, ma tu in cambio devi dividere gli incassi con noi per
sempre.>> Giovanni impugnò un martello e glielo puntò alla testa e
disse: <<Vattene da qua o ti spacco la testa.>> L'uomo senza
dire una parola uscì, ma prima di andare via gli disse: <<Ti do dieci
giorni per pensarci. Sono certo che accetterai per il tuo bene.>>
Giovanni buttò il martello a terra e scoppiò a piangere, non riuscì a
capire cosa lo aveva spinto a quella reazione violenta. Mai usato
quell'atteggiamento con nessuno e temeva che l'ambiente praticato gli
potesse cambiare il carattere. Ma la cosa più grave era che aveva buttato
fuori un uomo della camorra. Raccontò tutto a Ninetta spaventato
insieme per trovare una soluzione al nuovo problema che si era presentato, Ninetta
gli disse < Giovà perché non andiamo via da questa città che, a quanto
pare, ci ha dato e ci sta dando solo dolori, i miei parenti a San Benedetto
del Tronto ci aiuteranno a costruire una nuova vita lì, che né pensi
Giova?> Giovanni rimase immobile e pensieroso era molto attaccato alla
sua città e alle sue tradizioni ma questa volta la faccenda era seria e
bisognava prendere una decisione alla svelta. Così pensò di interpellare lo
stato. Ripose la sua speranza nelle istituzioni, cosa che non aveva mai
fatto in vita sua. Si presentò al commissariato di zona, dove fu accolto al
primo piano dall'ispettore di polizia Di Mauro. Gli spiegò tutta la
faccenda e che on Raffaele sarebbe tornato tra nove giorni, ma lui non
aveva nessun’intenzione di mettersi in affari con la camorra e per questo
aveva deciso di chiedere aiuto allo stato. L'ispettore gli disse che
serviva sporgere denuncia, ma lo mise in guardia nel farlo: <<Stai
attento, quelli sono feroci, agiscono senza scrupoli. denuncia nei
confronti del signor Raffaele noi agiamo e lo mettiamo in galera.>>
Giovanni al momento non spose, preferì riflettere. Uscì dal commissariato,
si recò a casa con le gambe tremolanti e gli girava la testa, raccontò
tutto a Ninetta e anche ai suoi genitori che gli consigliarono di non
denunciare altrimenti ci potevano stare delle rivendicazioni nei loro
confronti, bisognava anche tutelare il piccolo che a breve sarebbe nato.
Quel giorno crollò del tutto la fiducia nelle istituzioni. Nelle settimane
successive non ebbe nessuna visita sgradevole, continuò il suo lavoro in
modo precario, ma con tanto impegno. Stava mettendo un po' di soldi da
parte per aprire un'officina in regola e uscire del tutto dall'illegalità. Un
giorno finì di lavorare e mentre stava mettendo il lucchetto alla porta del
box, fu avvicinato di nuovo da on Raffaele e uno scagnozzo che con la sua
grossa mano strinse il collo a Giovanni.

Lo stava soffocando. Giovanni gridava:
<<Aiuto! Aiuto!>>, ma quell'uomo burbero e forzuto non mollava
la presa. Raffaele parlava con una voce bassa e modi molto eleganti, era
inimmaginabile pensare che un uomo di camorra feroce e crudele si potesse
nascondere dietro a tali atteggiamenti. Nell'immaginario popolare era la
figura dell'uomo grezzo vestito un po' trasandato. Non era così, chi stava
al vertice era dolce, educato e ben vestito. Si presentava al suo
interlocutore come una persona per bene e pronta ad aiutare il prossimo. Ma
Giovanni conosceva bene le loro metodiche, conosceva bene il loro
linguaggio subdolo. Aveva sempre alta la guardia e non voleva avere nulla a
che fare con loro, ma ormai lo scontro fu inevitabile. La camorra aveva
allungato le sue possenti braccia contro quel giovane ragazzo indifeso. Riuscì
a liberarsi dalla morsa dello scagnozzo e gridò: <<Cosa volete da
me?>> Raffaele rispose: <<Una farfalla è venuta al mio orecchio
a dirmi che tu sei stato alla polizia. Sappi che mi dicono tutto in questo
quartiere.>> Giovanni prese un po' di fiato, alzò la testa e notò che
di solito a quell'ora nel vicolo c'era tanta gente affacciata ai propri
balconi e finestre, ma proprio quella sera non c'era nessuno. Il vicolo era
deserto, era incredibile che tanta gente potesse girarsi dall'altra parte
davanti a scene di violenza inflitte a persone per bene da parte di un’organizzazione
criminale. Giovanni gridò: <<Lasciatemi in pace. Andatevene!>>
Raffaele lo prese per i capelli e gli sussurrò nell'orecchio
<<Guagliò. Non denunciarmi o farai una brutta fine. Ormai la gente
del quartiere ha saputo che ti sei rivolto alla polizia, da domani in poi
nessuno ti parlerà più e nessuno verrà da te ad aggiustare il motorino. Sei
un infame!>> Dopo pochi secondi salì in auto, che stava ferma a pochi
metri, e andò via insieme al suo scagnozzo. Giovanni ormai aveva la piena
consapevolezza di essersi messo contro qualcuno più forte e contro il
popolo solo perché voleva vivere in modo onesto e sereno. Rappresentava un
pericolo perché stava scuotendo la coscienza di tanti giovani che come lui
avevano lasciato la vita da scugnizzo per studiare o lavorare. La parola
riscatto era scomoda, e bisognava estirpare questo pensiero in modo
radicale. Il giorno dopo uscì da casa e vide che tutte le persone del
quartiere solite a salutare, appena incrociavano il suo sguardo,
abbassavano la testa. Sembrava fosse un appestato, era stato isolato da
tutti proprio come aveva detto Raffaele. Si recò al commissariato ed ebbe
un lungo colloquio con l'ispettore Di Mauro. Giovanni era disperato, voleva
che lo stato lo difendesse. Purtroppo, l'ispettore gli disse che la
faccenda si era aggravata e la sua vita era in pericolo, gli disse di avere
fiducia nello stato e che avrebbero cercato di fare qualcosa. Gli consigliò
di sparire per un bel pezzo nella speranza che potessero calmarsi le acque
o che Raffaele potesse venire arrestato o assassinato da un clan
avversario. Giovanni batté i pugni sulla scrivania e disse:
<<Scusate, ma come è possibile? Per condurre una vita serena dovrei
sperare che quegli assassini si calmino, o che vengano uccisi da altri
assassini come loro? E voi? Che fate? Lo stato dov'è?>> L'ispettore
gli offrì una camomilla e gli spiegò che non era semplice arrestare
Raffaele anche perché al momento non c’era nessuna denuncia nei suoi
riguardi. Gli diede una pacca sulla spalla e gli disse: <<Giovanni,
per un mese ti consiglio di stare a casa e non uscire, non affacciarti dal
balcone.>> Giovanni seguì il consiglio dell'ispettore e se ne tornò a
casa a fare la vita da segregato nella speranza che qualcosa potesse
accadere a suo favore. Stava in mezzo tra il bianco e il nero, tra l’acqua
e il fuoco, tra la paura e l’inganno, ormai non aveva nessuna posizione
sociale il quel momento. Il giorno 25 giugno nacque il piccolo Antonio che
riempì di gioia i loro cuori, ebbero momenti che dimenticarono la loro
triste situazione ma ben presto si ripresentò e bisognava risolverla al più
presto. I giorni non passavano mai. Era in preda alla paura, aveva i sensi
di colpa nei riguardi dei suoi genitori che, oltre a dargli tante
preoccupazioni anch'essi erano stati isolati da tutti. Ormai nessun
commerciante gli faceva credito. Tutti volevano essere pagati subito, e
questo creò grossi problemi alla famiglia, perché con il loro misero
stipendio il credito gli permetteva di arrivare a fine mese. Era quel poco
di ossigeno che serviva a prendere tempo per poi prendere lo stipendio del
mese successivo. Giovanni senza esitare mise a disposizione tutto il suo
denaro che aveva da parte. I genitori a malincuore accettarono, non c'era
alternativa. L'isolamento li aveva messi in difficoltà e sapevano bene che
quel denaro era sufficiente per tre o quattro mesi. Una sera di luglio ci
furono degli spari d’arma da fuoco rivolti verso la loro abitazione,
sembrava essere un gesto intimidatorio. Il giorno successivo Giovanni
comunicò all’ispettore Di Mauro che sarebbe partito per lasciare la città e
probabilmente non sarebbe più ritornato. L'ispettore lo abbracciò stretto e
gli disse: <<Giovanni, mi dispiace che una brava persona come te
debba andare via. Purtroppo, questa città è malata ed è impossibile
cambiare le cose. Qui c'è la camorra, lo stato e la brava gente. Hai scelto
di stare dalla parte della legalità, e questo ha messo in pericolo le
vostre vite.>> Gli disse che sarebbe stato inutile Aspettare la morte
o la detenzione di on Raffaele, sarebbe stato sostituito immediatamente da
un altro magari più feroce, e come tagliare l’erba senza rendersi conto che
poi ricresce anche più lunga di prima. Nell’agosto del 2001 Ninetta tirò
fuori tutta la sua energia interiore che aveva, convinse Giovanni a
lasciare Napoli e andare a San Benedetto del Tronto dai parenti propensi a
ospitarli anche per lungo periodo per far sì che Giovanni potesse decidere
di trasferirsi definitivamente lì e trovarsi un lavoro che lì non mancava
di certo. Giovanni accettò partirono e con loro portarono anche Ciccillo. La
Mattina del 9 agosto 2001 decisero di partire mentre si avvicinavano
all'auto, Giovanni alzò la testa e notò che dai balconi e finestre del
vicolo c'era tanta gente che lo guardava con aria di sfida in un silenzio
surreale. Ad un certo punto si fermò, guardò negli occhi i suoi genitori
poi rivolse lo sguardo in alto, gridando con tutta la sua voce: <<Noi
andiamo via per vivere una vita migliore! Voi resterete qui prigionieri di
un sistema. Liberatevi tutti! Lottate per la vostra libertà e i vostri
diritti!>>
Entrarono in macchina e sfrecciarono tra i vicoli. All'angolo di un vicolo
c'erano alcuni suoi amici ex scugnizzi stavano lì fermi con gli sguardi
rivolti verso di lui senza alcuna espressione.
Forse volevano dire: <<Bravo>>, ma non avevano nemmeno la
libertà di esprimere le proprie emozioni. Ancor più avanti riuscì ad
intravedere il Vesuvio, quel vulcano gigante che osserva la città nel bene
e nel male senza mai giudicarla. Sembrava fosse finita una vita e ne stesse
per iniziare un'altra, come una resurrezione. Le lacrime bagnavano i
sediolini dell'auto che li stava portando in un'altra realtà dove usanze e
abitudini erano diverse. Più si allontanavano e più nel loro animo cresceva
un senso di pace. Era tutto diverso, la gente era discreta e silenziosa.
Erano tutti ben vestiti, parlavano l'italiano, nessun’automobile bussava il
clacson, non c'erano i panni stesi dalle finestre. Furono ospitati con
amore e li misero subito a loro agio, Matteo il cugino di Ninetta spiegò a
Giovanni che lì c’erano molte possibilità di lavoro che oltre al meccanico
avrebbe avuto un’ampia scelta anche in altri settori, con inquadramento e
paga sindacale e in più lo omaggiò di una settimana di vacanze in un
villaggio turistico a Rimini che fu bene accetto, anche se non sapevano
neanche che fosse un villaggio turistico. Il giorno 13 agosto 2001
Giovanni, Ninetta, Ciccillo e il piccolo Antonio si presentarono al
villaggio turistico, fecero il check-in e aspettarono che il loro bungalow
venisse pulito, pochi minuti dopo si presentarono due signore addette alle
pulizie, una era giovane e magra l’altra era di mezza età corpulenta,
iniziarono a pulire era una giornata caldissima che quando le due donne
sfinite e sudate uscirono fuori a prendere un po’ di fiato Giovanni le
invitò ad accomodarsi e chiese a Ninetta si offrire acqua fresca alle
signore che avevano bisogno anche di dissetarsi, le donne rimasero
incredule davanti a questo nobile gesto, accettarono ben volentieri
nonostante la scena si presentò alla rovescia gli ospiti di un villaggio
stavano servendo gli inservienti, la signora più anziana disse a Giovanni
< Voi siete di Napoli vero?> Giovanni rispose < si certo, ma
perché mi fate questa domanda?> La signora sorridendo rispose < Siete
state le uniche persone in questo villaggio che ci avete offerto dell’acqua
e un sorriso, donandoci un po’ di dignità> Giovanni sorrise con
gioia ma il suo fu felice delle parole dette della signora. In serata
Ciccillo rivolse a Giovanni una domanda < giovà ma è una fortuna o una
sfortuna nascere Napoletani?> Giovanni si mise a ridere e non rispose al
che Ciccillo si irritò < e allora me la dai questa risposta? Ho bisogno
di saperlo?> Giovanni rispose < Ciccì io una risposta non
riesco a dartela ma forse te l’ha già data la signora delle pulizie> Quella
sera Ninetta abbracciò fortemente Giovanni, disse che voleva divorziane con
Armando e diventare sua moglie, questa notizia riempì di gioia il cuore di
Giovanni, e infine gli disse < Giovà ora dovrai decidere se vuoi restare
a San benedetto del Tronto per iniziare una nuova vita o ritornare a Napoli
per lottare per un futuro migliore, sta a te decidere, io ti seguirò
ovunque tu vada amore mio>
Dedicato a tutti i ragazzini della plebe napoletana che hanno vissuto nella sofferenza e lontano dai propri diritti.




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