Gli ultimi scugnizzi

 



Storia tratta da avvenimenti realmente accaduti

- Massimo Brandi -

Gli ultimi scugnizzi

 

Napoli, anni '80. Una città che fatica a rialzarsi, dove la polvere del terremoto ha lasciato il posto a un dolore più profondo. È qui che il destino di Giovanni si lega a quello degli scugnizzi del suo quartiere. I suoi genitori, convinti che quella sia l'unica via per un futuro, lo spingono verso un mondo fatto di stenti e difficoltà, lontano dai loro sogni.

​Ben presto, l'apparente libertà si scontra con una realtà brutale. A guidarlo c'è Franco, il più grande e saggio; a fargli compagnia c'è Ciccillo, senza una guida familiare, e la povera Ninetta. Insieme affrontano gli anni più difficili, fino a quando una tragedia inaspettata segna per sempre il loro cammino. Giovanni sarà costretto a cambiare, a voltare pagina, e a cercare Ninetta in una periferia difficile, per dimostrare che anche tra le macerie può nascere una nuova vita.


Capitolo I -
La vita a Napoli

C’è un detto che dice “vedi Napoli e poi muori” un detto estremo per ribadire che Napoli è unica e affascinante, già per la sua posizione sul magnifico golfo. Napoli è bella ma piena di contraddizioni con il suo ritmo di vita si differenzia enormemente dalle città del nord. Rappresenta il mezzogiorno d’Italia, qui prevale un modo di vivere del tutto diverso, amata dai suoi cittadini più di ogni altra cosa, ha aspetti bizzarri e duri, grotteschi e gentili. I Napoletani sono un popolo allegro, riescono a essere ironici anche nei momenti più critici. Ci sono 2500 anni di storia che la città di Napoli può raccontare. Una Caratteristica del Napoletano medio è che è molto amichevole e aperto a socializzare con chiunque senza badare a nulla. La lingua Napoletana parlata in città è diversa da quella parlata nelle cittadine periferiche, ogni cittadina si distingue dall’altra che a sua volta si distinguono dalla città di Napoli, la base linguistica è simile ma la cadenza e alcune parole sono diverse. I Napoletani non prendono mai sul serio nulla, anche la cosa più drammatica viene presa con leggerezza e ironia, non si sa se è un pregio o un difetto. Non manca l’arte di improvvisare e improvvisarsi con molta creatività e istinto i Napoletani riescono in tante cose, l’istinto della sopravvivenza li porta a essere molto creativi e ingegnosi, si fanno furbi in tutto. Nel contesto Popolare Napoletano la famiglia è il valore assoluto della propria esistenza, è un amore smisurato che va oltre ogni cosa, i genitori non negano nulla ai figli, la negazione viene percepito come un gesto di non affetto e per questo gli si permette tutto crescendo i figli in modo errato.
Le figure più emblematica sono Pulcinella, Partenope e gli scugnizzi questi ultimi hanno rappresentato l’anima della città. Lo scugnizzo è un monello di strada; il termine risale al 1895, proviene dal latino "execuneare" (rompere con forza). Nella cultura popolare napoletana, nonostante sia spesso impertinente e ineducata, viene ricevuta come simpatica e positiva. Oggi lo scugnizzo non esiste più, è solo inteso come inno alla napoletanità, all'arte di arrangiarsi e soprattutto di riuscire a divertirsi sempre e comunque. La Napoli che vi raccontiamo è quella dal post terremoto (1980) in poi con usanze e stile di vita del popolo Napoletano e degli scugnizzi. In quegli anni, tra gli adulti c'era un alto livello di analfabetismo e c'erano ragazzi che non andavano a scuola e di conseguenza non sapevano né leggere né scrivere. Gli unici organi che cercavano di spingere i giovani allo studio erano i parroci. Con le loro parrocchie organizzavano giochi ricreativi e doposcuola gratuiti. Oltre a loro vi erano anche associazioni culturali che facevano cose analoghe senza alcuno scopo di lucro, indirizzando i ragazzi verso iniziative sportive e sociali. Cercavano di ricreare regole sociali basate sul rispetto reciproco e sull'onestà. L'attaccamento alla vita da scugnizzo era alto; più si andava avanti e più in loro cresceva un vero e proprio odio per lo studio e per la scuola. Era un odio dettato dal fatto che rappresentava un qualcosa che avrebbe potuto toglierli dalla strada e portarli in una dimensione ignota o inadeguata. I ragazzi che andavano a scuola a studiare venivano presi in giro e bullizzati perché giudicati inferiori e incapaci di affrontare la "strada". Erano terrorizzati, appena incontravano gli scugnizzi scappavano, cercavano di mettersi in salvo, venivano inseguiti da un branco finché non venivano raggiunti e picchiati.
Quando un genitore di un povero ragazzo preso a botte andava a lamentarsi dai genitori degli scugnizzi, gli veniva risposto con la solita frase: <<Invece di lamentarti insegna tuo figlio a difendersi, questo è un mondo crudele.>> Queste parole rafforzavano il loro credo, anche il povero genitore era costretto ad andarsene senza nemmeno replicare. È un po' come la legge della giungla: il debole soccombe al cospetto del più forte. Da piccoli già fumavano la sigaretta, era un modo per crescere più del tempo e mostrare la loro maturità. Non si chiamavano tra di loro per nome, ad ognuno era dato un soprannome con un criterio di carattere estetico e non solo. Il soprannome era un marchio che veniva impresso a ciascuna persona che lo accompagnava fino all'ultimo

giorno della propria esistenza, addirittura anche sui manifesti del defunto veniva inserito seguito dal nome e cognome.
Per questo bisognava essere svegli e prepotenti per poter ricevere un soprannome che rappresentasse forza e coraggio, mentre per gli altri meno svegli i soprannomi erano spesso ridicoli. A volte il soprannome veniva anche dato come eredità, ad esempio, se un genitore avesse avuto un soprannome a volte sarebbe stato ceduto al proprio figlio. Oppure veniva dato in base ad un episodio capitato, o alla somiglianza con un personaggio famoso, o per mestiere, addirittura anche la somiglianza ad un animale. Quelli più noti erano: 'o nasone (dal naso pronunciato), 'o russ (dai capelli rossi), 'o cines (dagli occhi a mandorla), 'o luong (dall'altezza) oppure 'o curt (dalla scarsa altezza). Bisognava in ogni modo evitare il soprannome ridicolo per non essere derisi da tutti per tutto il resto della vita. Per questo gli scugnizzi si davano da fare per compiere azioni dove potessero ostentare la propria cazzimma e prepotenza, sì la prepotenza era quello che serviva per garantirsi il rispetto quando ci si rivolgeva a qualcuno, il tono della voce doveva essere alto e deciso e mai gentile. Non tutti riuscivano a fare ciò, quelli meno capace finivano per vivere un'esistenza sottomessa nei confronti degli altri scugnizzi. C’erano alcuni che per puro caso non gli venivano dati i soprannomi ma venivano usati i vezzeggiativi tipo (Enzo Enzuccio, Franco Francuccio, Pino Pinuccio ecc.) Per questo solo quelli più svegli potevano recarsi agli incroci delle grosse arterie stradali per pulire i vetri delle auto ferme ai semafori. Quello che oggi vediamo fare spesso da extra-comunitari o mendicanti, prima veniva fatto dagli scugnizzi. Ci si organizzava con secchi e tergi vetri. Era abbastanza redditizio; le persone in auto erano più propense a dare una moneta da 100 o 200 lire a quel ragazzino tutto sporco e spettinato che magari potesse essere un proprio figlio o nipote. Sapevano bene che quel denaro serviva alle famiglie per mangiare, quindi l'offerta era più spontanea. Il Natale per i Napoletani era un periodo magico, era l'attesa della nascita di Cristo che veniva celebrata con molto interesse dalle proprie famiglie. Per gli scugnizzi era finalmente il momento di ricevere abiti nuovi e i tanti attesi giocattoli dalla Befana, insieme alle calze colme di dolciumi. In quel periodo a tavola c'era abbondanza di cibo, si potevano mangiare gli struffoli, i mustaccioli, i roccocò, le cassatine e tante altre cose. Il tutto veniva consegnato da un signore che già un anno prima faceva il giro per le abitazioni che per loro volontà aderivano a questa iniziativa. Raccoglieva 1000 lire al giorno e accumulava 365 000 lire. Questo denaro veniva speso da questa persona per acquistare generi alimentari per Natale e Pasqua come salame, prosciutto, panettone e spesso aggiungeva a questi un regalo come una tovaglia natalizia o una coperta. Questa persona si dotava di tanta pazienza e ogni sera faceva il giro di tutte le abitazioni. Purtroppo, c'erano famiglie che non avevano la disponibilità economica per fornire le 1000 lire, per cui nonostante non si arrivasse alle 365000 lire, ricevevano ugualmente i generi alimentari, ovviamente in proporzione minore. In ogni quartiere popolare della città questa figura non mancava, ovviamente quest'ultima ci guadagnava perché riusciva a comprare grosse quantità e otteneva sconti. I prodotti non erano tutti industriali: il prosciutto, le uova, le salsicce, la carne e tante altre cose venivano acquistate da agricoltori, masserie e caseifici della provincia. Erano piccole attività spesso a conduzione familiare che producevano nelle loro aziende questi prodotti con passione e professionalità. Anche il vino, non era quello industriale, era vino messo in una bottiglia vuota, magari di acqua minerale riciclata, e chiusa con un tappo di plastica con nessuna etichetta. Non c'era bisogno di scrivere nulla, bastava un sorso per capire che era vero vino. Di solito questo signore veniva a consegnare per Pasqua, in un giorno casuale, mentre a Natale con precisione il 23 dicembre sera. Ogni famiglia si faceva trovare al completo: era un evento emozionante e tanto atteso. Insomma, era l'unico momento dove una famiglia popolare napoletana poteva nutrirsi in modo adeguato. Si dava importanza al presepe, l'albero di Natale non era molto di usanza, o meglio: veniva fatto ma messo in secondo piano. Spesso accadeva che le lucine dell'albero di Natale non funzionassero correttamente, e contrariamente a quanto fatto oggi, non venivano immediatamente buttate e sostituite, ma anzi venivano controllate una ad una e si individua la luce difettosa: veniva acquistata e sostituita.
Ciò che aveva priorità assoluta era il presepe. Ogni anno con grande passione e dedizione si aggiungevano pastori nuovi oppure qualche casetta o, meglio, veniva allargato aggiungendo un altro pezzo. Si metteva il muschio, il sughero e i pastori.

Anche questi non erano industriali, ma artigianali. Si andava a San Gregorio Armeno e si sceglieva quello che serviva. Avevano costi abbastanza elevati, ma erano di buona fattura e duravano tantissimi anni. Ogni scugnizzo aiutava i propri genitori o nonni a preparare il presepe e l'albero. Era bello farlo, si sentiva un'atmosfera natalizia, una vera e propria magia che incantava tutti sembrava di vivere in un sogno fatato, quel clima che mai dimenticheranno lo sentivano profondamente nello spirito e nell’anima. Una volta completato il presepe si poneva sul mobile in bella mostra, senza il bambin Gesù, che poi veniva aggiunto la sera della vigilia. Tutta la famiglia aspettava quel momento per commemorare la nascita di Cristo. Nel giorno dell'epifania venivano aggiunti i Re Magi. Di Babbo Natale si parlava poco, non c'era l'usanza del regalo sotto l’albero o, meglio, non tutti la praticavano: il Natale era un evento religioso dove la famiglia si riuniva e festeggiava. Per i doni ci pensava la befana: la notte del 5 gennaio uno dei due genitori si copriva con coperte e fingeva di essere la befana per deporre i doni accanto al letto dei propri figli con le calze. Spesso i genitori chiedevano ai propri figli un po' di tempo prima quale giocattolo preferissero. Se la spesa fosse stata sostenibile si sarebbe potuto esaudire la richiesta, altrimenti si passava a dei giochini che oggi sembrerebbero ridicoli. Ma quel poco era tanto, come una bambolina, un orsacchiotto, un peluche o un set di scopa e paletta in misura ridotta. Le famiglie si recavano al mercato, lì c'erano negozianti che avevano dei prezzi migliori rispetto ai negozianti di zona. Solo chi poteva permetterselo acquistava dai negozianti di zona. A Natale non potevano mancare gli zampognari, erano pastori che risalivano fin dalle epoche antiche, si recavano a piedi in città dal proprio paese di montagna e con addosso una giacca di montone, un mantello nero, un cappello di velluto decorato con nastri e le zaricchie ai piedi. Andavano in giro per le strade durante il periodo della novena dell'Immacolata (29 novembre al 7 dicembre) e della novena di Natale (16 al 24 dicembre) intonando melodie con la propria zampogna in cambio di offerte di denaro.
Oppure stipulavano accordi con famiglie che allestivano i presepi per suonare ogni sera davanti alla rappresentazione della natività. A volte si vedevano suonare vicino alle cappelle, ovvero piccoli altarini situati nei vicoli popolari di Napoli.  All'interno di esse ci sono figure sante come il volto santo di Cristo o quello della madonna. Spesso, attorno a queste figure venivano aggiunte immagini dei defunti del quartiere. La cappella viene gestita dagli abitanti e commercianti del quartiere che tramite una raccolta di fondi pagano le spese di manutenzione e utenze.
Le cappelle sono sacre, hanno un alto valore spirituale per i napoletani. Agli scugnizzi era proibito avvicinarsi: guai se uno di loro avesse rubato qualche candela o altro, avrebbe ricevuto una dura punizione dai propri genitori. Il fascino degli zampognari li lasciava incantati e stavano lì ad ascoltare i loro suoni e a seguirli in tutte le loro tappe. Oggi gli zampognari sono quasi estinti, qualcuno se vede ancora, ma non suscitano più l'interesse delle persone di un tempo.

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Un altro momento tanto atteso erano i botti di Capodanno, un momento bellissimo perché sparare i botti piaceva a tutti e questa passione veniva trasmessa anche ai propri figli. Oltre ai botti legali come i "bengala", le candele elettriche e i razzi c'erano anche quelli illegali come i "tricchi tracchi", le cipolle, i rendini, le botte a muro e le batterie napoletane. Tutti questi articoli venivano prodotti in laboratori abusivi e a volte anche in casa.
Agli scugnizzi ignari di tutto non veniva raccontato che erano botti illegali e cioè pericolosi, ma anzi venivano esaltati, sembrava quasi che chi li utilizzasse avesse un qualcosa in più e per questo allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre tutte le famiglie sparavano, anche quelle più bisognose, a costo di chiedere soldi in prestito. Bisognava mettersi in competizione con altre famiglie del quartiere, bisognava sparare più fuochi di tutti, forse per dimostrare di essere i migliori, forse per coprire una condizione economica disastrosa, chissà. Ma alla fine erano sempre i più facoltosi che finivano per ultimi di sparare i botti, di solito, fino all'una di notte. C'erano famiglie che spendevano anche milioni di lire per quest'evento. I botti venivano comprati alle tante bancarelle abusive realizzate in legno con tettoia disseminate in tutta la città, in quel periodo i napoletani si organizzavano a rivendere botti. Si sentivano rumori assordanti nei vicoli stretti, venivano sparati veri e propri ordigni. E già dopo 15 minuti si iniziavano vedere ambulanze o automobili che trasportavano i propri cari all'ospedale. Purtroppo, le persone perdevano le dita, alcuni la mano intera o altri addirittura un occhio: una vera e propria strage, ma nel nome della tradizione bisognava sparare tanto e a lungo. Agli scugnizzi veniva insegnato a sparare la "cipolla", che è pari ad un ordigno. L'adrenalina era tanta. C'erano famiglie che si disfavano di cose vecchie in quest'occasione: lanciavano dalle finestre mobili, tavoli, sedie e addirittura sanitari, direttamente su strada. La mattina successiva i vicoli sembravano campi di battaglia, c'era di tutto a terra. I piedi affondavano nei botti e qui iniziava un'altra pratica molto pericolosa: quella di recuperare botti inesplosi per poi riutilizzarli. Spesso erano botti che non erano esplosi perché difettosi, e nel tentativo di recuperarli venivano feriti. Gli scugnizzi pensavano di giocare ma non si rendevano conto che era una cosa pericolosa. Nessun adulto proibiva questa pratica, anzi, spesso incitavano i propri figli a cercare quanti più botti possibile. A Napoli non è raro vedere uomini di una certa età con articolazioni mancanti, questi sono testimonianza degli scugnizzi di un tempo. Sì, perché uno scugnizzo si porta con sé le conseguenze della propria vita, di tante pratiche errate compiute da ragazzino.  Un'altra pratica pericolosa era lo scippo: a Napoli erano molto frequenti, c'erano famiglie che per mancanza di lavoro e anche per una concezione distorta della vita, imponevano ai propri figli scugnizzi di compiere furti, borseggi o scippi. Bisognava portare qualche soldo a casa. Così si passava all'azione: cioè, tra gli scugnizzi c'erano quelli più estremisti e quelli più tranquilli. I più estremisti rubavano, mentre i più tranquilli si limitavano a rubare una bottiglia di gassosa al vinaio sotto casa. Si organizzavano e si organizzano tutt’oggi le “tombolate” di solito in una abitazione oppure in un locale, si raggruppavano un certo numero di persone principalmente anziane giocavano a tombola, per creare i tasselli da puntare i numeri usciti dal Panariello si rompevano vecchi piatti in ceramica in tanti pezzettini, ogni cartella aveva un costo e chi faceva tombola vinceva un premio in denaro, chi organizzava la tombolata riusciva a guadagnare qualche soldo trattenendo una piccola somma sulla vincita, vendevano sigarette di contrabbando e la tazza di caffè a prezzo modico. Era un micro-commercio che faceva comodo a chi organizzava e anche a chi giocava perché con piccole somme avevano un posto dove trascorrere ore liete e in inverno un posto caldo. Il giorno di San Giuseppe (19 Marzo) nel piazzale ai piedi del castello  “Maschio Angioino” si organizzava la fiera degli animali, i venditori mettevano in mostra i loro animali, cani, gatti, pulcini, papere, uccelli ecc. i Napoletani si recavano lì per comprare il proprio animale di compagnia a buon prezzo, oggi questo mercato non avviene più perché molti animali venivano trattati male, alcune pratiche erano quelle di accecare gli uccelli per farli cantare di più e quello di verniciare con bombolette di pittura i pulcini per renderli più piacevoli agli occhi degli acquirenti.
Ai tempi come oggi si usava che il nipotino nato doveva avere il nome del nonno paterno, era un usanza tramandata in generazione era un segno di rispetto nei riguardi del nonno, la mancata assegnazione del nome significava un affronto gravissimo che difficilmente si risanava, rimaneva un marchio indelebile. Anche se il nonno avesse un nome poco piacevole il figlio e la nuora o la figlia e il genero dovevano per forza rispettare questa tradizione.
Anche la musica ha la sua importanza a Napoli, come ben sappiamo le canzoni Napoletane sono famose in tutto il mondo, canti d’amore e melodie favolose, poi c’erano i giovani cantanti dell’epoca quelli emergenti e più famosi erano Nino D’Angelo, Carmelo Zappulla, Gigi Finizio, e Patrizio, quest’ultimo mori per droga nel 1984, le canzoni di questi cantanti erano d’amore e spesso strazianti, il pubblico piaceva commuoversi e aveva bisogno di parole di speranza, il terremoto del 1980 trascinò il popolo napoletano nel baratro per cui c’era voglia di ascoltare musica del genere per cui i cantanti si adattarono subito ai gusti del momento. Il corteggiamento era di gran voga ai tempi, la donna piaceva essere corteggiata con lettere d’amore, con sguardi e con gesti dimostrativi, l’attesa era lunga per poter organizzare una prima uscita era come un test per vedere se l’uomo era veramente innamorato, più c’era attesa e più la dimostrazione d’amore era palese. La prima uscita avveniva in luogo pubblico e spesso la ragazza veniva accompagnata da un fratellino o sorellina piccolo che controllavano i loro atteggiamenti che dovevano essere sobri e composti. Il primo bacio avveniva dopo un altro lungo periodo d’attesa e il primo rapporto sessuale spesso avveniva dopo le nozze. Nella cultura popolare Napoletana c’è un rapporto molto distante al “lavoro”, infatti, per questo il termine “a fatic” che vuol dire il lavoro tradotto in napoletano. La fatica è già da sé la vera espressione di come i napoletani considerano il lavoro e proprio per questo si va alla ricerca dei lavori abusivi e non, dove bisogna stare seduti a non far nulla, alcuni lavori del genere sono: parcheggiatori, garagisti, portinaio, custode ecc.

sono i lavori più ambiti dai Napoletani, il fatto di guadagnare soldi seduti a una sedia è il loro obiettivo primario. Anche il linguaggio è cambiato, molti termini dialettali sono andati persi nel tempo. Sono termini che quotidianamente si pronunciavano in famiglia, per strada, nei bar o a scuola. Essere uno scugnizzo è una condizione imposta dal ceto sociale al quale si appartiene. Diventa come una divisa. Sì, una divisa della quale si era orgogliosi, non se ne poteva fare a meno. La strada insegnava anche a difenderti e a non fidarti di nessuno, ad agire d'istinto solo allo scopo di garantirti la sopravvivenza. Gli scugnizzi erano organizzati in bande, di solito c'era l'appartenenza ad un vicolo o ad un raggruppamento di vicoli che si definiva zona. Ogni banda era rivale ad altre bande e spesso non era possibile entrare nella loro zona altrimenti si rischiava di essere picchiato o inseguito fino al proprio territorio. Ogni banda aveva il proprio “Capobanda” era quello più sveglio o quello più grande di età, comandava e disponeva di ordini verso i suoi scugnizzi, aveva sempre due o tre seguaci stretti, stavano sempre insieme e prendevano decisioni importanti insieme. Gli scugnizzi furono protagonisti nel 1943 contribuirono a scacciare i tedeschi da Napoli nelle famose 4 giornate mostrarono tutto il loro coraggio si batterono con mezzi di fortuna e armi per questo nella città di Napoli c’è un monumento in loro onore.

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Lo scugnizzo degli anni 80 non era molto differente da quello di fine 800, anch'egli aveva abiti lacerati, le scarpe in cattive condizioni e non avevano le coppole sul capo.

Le famiglie erano numerose, si arrivava fino ad un numero di tredici o quattordici persone; tante bocche da sfamare per il capo famiglia che solitamente non riusciva a portare abbastanza soldi poiché spesso costretto a fare lavori saltuari o sottopagati. Non era consentito chiederei propri diritti perché nella cultura napoletana il padrone che offriva un lavoro, anche se misero, era considerato un benefattore e il lavoratore doveva ringraziarlo ogni giorno, a volte anche costretto a baciargli le mani tutti i giorni, quasi come un Dio. Molti commercianti e artigiani avevano atteggiamenti camorristici nei riguardi dei propri dipendenti, i quali subivano inconsapevoli di essere sfruttati e malpagati. L’omertà è sempre regnata sovrana nel contesto popolare Napoletano, tutt’oggi è ancora in parte praticata.  Per questo molti scugnizzi lasciavano la scuola per vivere per strada, alcuni sceglievano di andare a lavorare laddove serviva manodopera da sfruttare ma rischiavano di essere espulsi dalla banda perché era proibito lavorare. Avevano come primo comandamento la libertà, sì quella libertà vissuta per strada senza dover avere un padrone o un’istituzione che potesse limitarla. C’erano famiglie che vivevano in piccoli bassi, sono piccole abitazioni a pian terreno, parliamo dai venti ai quaranta metri quadrati e in qualche caso ci vivevano fino a quindici persone in piena promiscuità. Le condizioni igienico-sanitarie erano precarie, la carta igienica veniva usata solo per chi poteva permetterselo, gli altri usavano quotidiani oppure pezzi di stoffa,  qualcuno non aveva l'energia elettrica e a tanti mancava l'acqua calda e il riscaldamento: si lavavano in acqua scaldata in cucina e utilizzavano il sapone solido e in inverno per riscaldarsi utilizzavano i loro stessi corpi oppure il "rasiero" ovvero un attrezzo in lamina di ferro al quale interno si lasciavano bruciare dei pezzetti di legno per poter diffondere il calore necessario. Le famiglie che abitavano nei “bassi” nel periodo estivo erano costrette a tenere la porta aperta tutta la giornata perché unica apertura, ed erano costretti a mettere una tavoletta di legno a terra per impedire che qualche topo potesse intrufolarsi in casa.

C’erano persone che riuscivano a pettinarsi con le mani perché non avevano un pettine, con la loro abilità riuscivano a sistemare la loro capigliatura, In estate il caldo era insopportabile, esistevano i ventilatori, ma solo per chi se li poteva permettere. C'era gente che dormiva distesa su sedie a sdraio fuori dalla propria abitazione, cioè per strada. Lì c'era quel poco di venticello che dava la possibilità di dormire e di respirare. C'erano anche persone poste di fronte alla loro abitazione su sedie che guardavano il televisore messo sull'uscio della porta direttamente dalla strada. La mattina non si faceva la colazione o, meglio, si beveva una tazza di caffè e per chi era più fortunato, mangiava pezzi di pane avanzati del giorno prima inzuppati nel latte o addirittura nell'acqua. Di solito si pranzava verso le ore 13. Si mangiava un piatto di pasta con il pane. Il pane era importante perché permetteva di saziarsi totalmente, a sostituto del secondo e della frutta. Alcuni venivano sfamati dal proprio datore di lavoro, detto "'o mast". Per cena di solito si mangiava la "marenna"; ovvero un panino farcito con un contorno. Si beveva acqua dal rubinetto e non esistevano prodotti monouso come oggi. I tovaglioli monouso non esistevano, c'era un solo strofinaccio che veniva condiviso con tutti i familiari. Spesso le posate non erano sufficienti per tutti i membri della famiglia. La bruschetta, quella che oggi si magia per piacere, allora era un modo per non buttare il pane stantivo del giorno prima ormai indurito, veniva tagliato a fette messo nel forno per renderlo croccante con pomodorini e uno spicchio d’aglio veniva una vera e propria squisitezza. Il frigorifero era presente in quasi tutte le case, ma solitamente era quello piccolo che non era dotato di congelatore. I negozianti per far fronte alle condizioni economiche della gente vendevano i prodotti sfusi, era l’unico modo che permetteva di vendere i propri prodotti, i prodotti sfusi più venduti erano, sigarette, legumi, dolciumi, olio ecc. La domenica si rispettava la tradizione napoletana: i più fortunati potevano fare un pasto decente, tutta la famiglia si sedeva a tavola dalle ore 14 in poi e spesso fino alle ore 21. Parliamo di circa 7 ore dove tutti si raccoglievano attorno alla tavola: si faceva un abbondante antipasto, primo piatto (solitamente ragù), frutta, dolce, caffè e noccioline e si ascoltavano le partite di calcio dalla radio. Le pietanze di cui i Napoletani amano sono la zuppa di cozze, la zuppa di carnacotta. Nella credenza popolare Napoletana si evince il fatto che bisogna mangiare tutto e tanto ed essere in carne, cioè in “salute” erroneamente i Napoletani credono che chi è grasso stia bene in salute e che è magro non stia bene mentre in realtà e il contrario, chi è grasso rischia la vita tutti i giorni. Gli adulti giocavano le schedine e anche le "bollette", chiamate così, erano giocate clandestine che permettevano di scommettere anche su poche squadre. Grazie ad una quota si sceglievano le proprie squadre in base a delle percentuali di probabilità. Per poter effettuare queste scommesse non esistevano punti di riferimento, si andava nei bassi o negli androni dei palazzi. Si andava da una persona che aveva un blocchetto e una penna, gli si dicevano le squadre e quest'ultimo le scriveva. Il blocchetto era in carta autocopiante in triplice copia: una copia andava al giocatore, una rimaneva all'addetto e l'altro andava all'organizzazione che gestiva il gioco. Il tutto era gestito dalla camorra e spesso quando il banco andava sotto con troppe vincite, non veniva saldato alcun pagamento facendo valere la loro forza. La trovata geniale per evitare il sequestro dei blocchetti dalla parte delle forze dell'ordine era quella di stampare pane e vino. Pane significava pareggio e vino significava vittoria. C'erano anche i "bancolotti": numeri al lotto che uscivano il sabato. Il cosiddetto "popolino" ci giocava molto in quanto molto superstizioso, e paradossalmente l'addetto alla compilazione delle schede (chiamate anche "bollette" o "viglietti") era spesso una persona analfabeta.  A volte lo scommettitore era costretto a scrivere personalmente la scheda, in quanto l'addetto era incapace. Il fatto che la camorra si servisse di queste Persone Analfabete era dato dal fatto che queste ultime erano ignoranti e bisognose per cui erano più semplici da sfruttare e sottopagare. La gente preferiva non sottoporsi a visite mediche preventive, si affidavano alle preghiere ai santi (Madonna, Gesù, San Gennaro, San Giuseppe Moscato, Madre Flora) chiedendo protezione o grazia ma spesse volte quando si sentivano male e andavano in ospedale ormai era troppo tardi. C’era una forte devozione per San Giuseppe Moscato, il medico che aiutò il popolo Napoletano vendendo tutti i suoi beni. C’era e c’è tutt’oggi la cultura di appropriarsi degli spazi e delle cose comuni quasi come se fosse una cosa normale; infatti, nei vicoli si possono vedere paletti in ferro che vengono fissati a terra in strada pubblica e bloccati con un lucchetto per occupare il proprio posto auto, ovviamente in modo abusivo. Gli scugnizzi usavano abiti in cattive condizioni. I vestiti spesso venivano condivisi e tramandati tra fratelli e sorelle oppure a parenti, nulla veniva buttato. C'era la cultura della riparazione: il pantalone bucato veniva rattoppato, la scarpa rotta veniva aggiustata grazie ai ciabattini che con la loro arte riportavano a nuovo le scarpe. Si faceva attenzione a non rompere e non sporcare nulla. Il rapporto con i genitori era diverso da quello di oggi: il genitore era una figura autoritaria, e guai contraddirli. C'era ancora qualcuno che dava del "voi", come si usava anni prima. Agli uomini, al raggiungimento dei 50 anni, veniva posto davanti al loro nome l'appellativo di "On". Ad esempio: "Onn’Antonio". Invece alle donne veniva posto "Onna", ad esempio: "Onna Carmela". Il saluto è importante e segno di “rispetto” il più giovane d’età deve per prima salutare quello più grande e come il caffè, nelle case Napoletane viene sempre offerto a chiunque e mai “rifiutare” viene percepito come gesto di mancato rispetto. Non era di certo un titolo nobiliare, era semplicemente un segno di rispetto nei confronti della persona adulta. Guai a non chiamarli in questo modo, il giovane veniva rimproverato per il fatto che non avesse mostrato rispetto. Prendeva la cosiddetta "cazziata" (rimprovero) o addirittura uno schiaffo. Questo affronto veniva comunicato ai genitori del giovane che a loro volta provvedevano a richiamare il ragazzo. L'uomo adulto era quello che insegnava la vita agli scugnizzi; insegnava tecniche di combattimento corpo a corpo, cosa molto importante. L'adulto spiegava in modo molto chiaro come e con quale tecnica affrontare l'avversario nel caso di una rissa e tutte le tecniche di sopravvivenza. Durante un combattimento era vietato tirare i capelli, definito un atto da femmine. Chi lo faceva, anche se avesse avuto la meglio, sarebbe stato punito anche dagli stessi amici. Quando due scugnizzi si affrontavano, nessuno doveva intervenire: si guardava, si incitava ma guai ad intromettersi. C'era un vero e proprio codice di vita che bisognava rispettare, altrimenti si veniva esclusi. La strada imponeva delle regole e bisognava osservarle con scrupolosità. Queste regole avevano in sé omertà, violenza e sopraffazione. Quando arrivava il carnevale c'era una vera e propria guerriglia tra i vicoli. C'era l'usanza di rompere le uova in testa all'avversario. Chi non aveva la possibilità di comprare le uova, che costavano 100 lire cadauno, era costretto a restare chiuso in casa per almeno un paio di giorni per non rischiare. Agli scugnizzi non mancava la voglia di vivere nonostante i tanti disagi. Ogni giorno era un'avventura, come la "guainella". Consisteva in lanci di pietre tra due bande di scugnizzi, ovviamente per strada o in luoghi isolati.
Le due bande si trinceravano indietro a qualsiasi cosa. Lanciavano pietre verso i propri avversari. Quelli che venivano colpiti andavano in ospedale o a casa loro per farsi medicare. Gli scugnizzi più piccoli lavoravano in seconda linea, tipo guerra. Fornivano le pietre a quelli della prima linea. Alla fine, vinceva la banda più numerosa. I pochi perdenti scappavano.
Purtroppo a volte venivano colpiti malcapitati che si trovavano a transitare nella zona della guerriglia ignari di tutto ciò. Spesso queste guerriglie si svolgevano per imporre la propria forza, per dire "siamo più forti noi", oppure per contendersi un vicolo o un pezzo di strada. Il 17 gennaio avveniva, e ancora oggi in scala molto ridotta, il "Cippo di Sant'Antonio". Era un vero e proprio rito di origine borbonica fatto per onorare il santo protettore degli animali e per purificare l'anima degli spiriti maligni. Tra fede e storia e culto sacro, ogni anno a Napoli e provincia si accende la fiamma della tradizione. Si utilizzavano tutti gli alberi di Natale naturali della quale le persone si disfavano dopo le feste natalizie. In quest'occasione gli scugnizzi andavano a ritirare già dal 6 gennaio gli alberi presso le abitazioni. Ogni banda si organizzava come meglio poteva nella propria zona per raccogliere il maggior numero di alberi possibile perché bisognava a tutti costi accendere "il cippo" più grande di tutti per affermare la propria forza sul territorio. Spesso gli alberi venivano accantonati in case abbandonate o luoghi incustoditi e durante la notte a volte avveniva il furto e venivano sottratti tutti gli alberi conservati con grande dedizione e sacrificio. Anche se il luogo era segreto c'era sempre la spia che comunicava alla banda avversaria dove si trovavano. A volte venivano spostati in fretta e furia un altro luogo considerato più sicuro perché avvenivano notizie di un'avvenuta "spiata". In qualche caso si ricorreva a mettere dei piantoni, cioè due scugnizzi a trascorrere tutta la notte a garantire la custodia degli alberi. Lo spostamento avveniva a piedi, tirando l'albero per la punta facendolo toccare terra, oppure sul motorino: la persona davanti guidava e quella seduta dietro trascinava l'albero lasciando le foglioline a terra quasi a formare una scia che permetteva alle bande avversarie di capire dove si trovava il posto segreto. Il 17 gennaio tutti gli alberi venivano portati nello spiazzato più largo della propria zona. Con grande soddisfazione e orgoglio gli scugnizzi li trasportavano dopo averli difesi con qualsiasi mezzo e dopo gli attacchi di guainella. Gli alberi venivano messi uno sopra l'altro e poi si dava inizio alla fiamma. Gli scugnizzi meno abili delle altre bande, che non avevano la forza nè di difendere i propri alberi né di impadronirsi degli altri, si arrangiavano a bruciare mobili vecchi, producendo ovviamente una fiamma piccola, simbolo della loro forza sul territorio. Una volta accesi tutti i cippi, ogni banda mandava un emissario a spiare i cippi delle altre zone. Il cippo veniva guardato non solo dagli scugnizzi, ma anche da tante persone nelle vicinanze. Insomma, tutti guardavano questa enorme fiamma che, oltre a dare spettacolo dava anche un po' di caldo che mancava nelle proprie abitazioni. Esistevano abitazioni adibite a botteghe, dei "bassi", dove veniva venduto di tutto: dalle sigarette alle merendine, passando per i giocattoli fino ad arrivare al vino. Si vendevano addirittura le caramelle sfuse. C'era anche la possibilità di comprare una singola sigaretta al modico prezzo di 200 lire. quando si entrava in questi bassi, si immaginava di essere in un mondo magico. C'erano tantissime cose buone poste con estremo ordine. Ogni piccolo spazio veniva sfruttato al meglio, considerando che le abitazioni non superavano i 40 metri quadrati. Spesso i proprietari erano donne, vedove o zitelle, che non avevano altre fonti di sostentamento. Indossavano sempre quei grembiuli e non gli mancava mai il filo di barba sul volto e qualche dente mancante, accompagnato dai capelli grigi.
Vendevano anche i celebri "numeri dalla cartella", ovvero un cartellone con sopra stampati i novanta numeri della smorfia napoletana e c'era una linea accanto ad ogni numero c'era uno spazio con il nome dell'acquirente. Una volta raggiunta la vendita dei novanta numeri si aspettava l'estrazione del lotto che avveniva il sabato. Il primo numero estratto sulla ruota di Napoli era quello del vincitore. Ovviamente, il premio era in denaro, ma a volte "arriffavano" oggetti utili per la casa come coperte e set di pentole. I numeri spesso venivano scelti dai clienti secondo la logica scaramantica. Come tutti sappiamo, i napoletani sono molto scaramantici: associano ogni evento ad un numero tramite la smorfia. La smorfia napoletana è una sorta di dizionario nel quale a ciascun vocabolo corrisponde un numero da giocare. C’erano anche persone che nel proprio “Basso” lavoravano e vendevano pizze fritte era una vera e propria bottega. Il giuramento era sacro chi giurava su qualcuno o su defunti doveva dire la verità, non poteva mentire, il giuramento era una cosa che veniva osservato con molta serietà e per nessuna cosa al mondo si giurava il falso, se si fosse stato scoperto si sarebbe rischiato di essere emarginato. Alcuni scugnizzi venivano reclutati dalla camorra, solo quelli più svegli, coraggiosi e interessati potevano bussare alle porte di quel mondo apparentemente bello, lussuoso, ma in realtà con delle regole spietate. Quelli interessati non erano altro che la versione infantile di un camorrista, adoravano imitarli e assumere i loro stessi atteggiamenti da "guappi" e anche il loro modo di gesticolare. Perfino il linguaggio era simile. La camorra interveniva su qualsiasi atto ritenuto ingiusto da parte di chiunque, ad esempio se un uomo abusava di una donna o, meglio, la "sverginava" e successivamente rifiutava di sposarla, erano sempre loro che lo obbligavano a sposarsi. In qualche caso pagavano anche le spese di matrimonio, fornendogli un posto di lavoro. In ogni quartiere della città anche il vento soffiava con il loro permesso. Avevano il pieno controllo di tutto e godevano del massimo rispetto della gente e degli scugnizzi. Quando li incontravano gli facevano le reverenze, dovevano essere sempre i primi a salutare e spesso il saluto non veniva corrisposto, solo per mantenere quella distanza e per mostrare la loro autorità. E se un camorrista rivolgeva la parola ad uno scugnizzo, la parola doveva sempre essere pronta ed esaustiva. Non era difficile riconoscerli, giravano sempre a bordo di belle moto ed auto, sempre ben vestiti con capi firmati. Mentre gli scugnizzi, al contrario, erano trasandati, sporchi e spettinati. Avevano la convinzione che questi uomini fossero la perfezione ed esempi di vita.
Alcuni scugnizzi, tra i più svegli, venivano utilizzati dalla camorra per piccoli lavoretti, come trasportare un'arma o droga da un posto all'altro. Essendo di giovanissima età non erano imputabili, quindi faceva comodo averli al loro servizio. A volte venivano anche usati come sentinelle. Ai tempi, era quasi normale vedere persone girare armate. Agli scugnizzi facevano paura i poliziotti e i carabinieri perché venivano raccontati come cattivi: quelli che ammazzavano i padri di famiglia colti a rubare. Per una donna popolana era impossibile innamorarsi di un uomo in divisa: se lo avesse fatto sarebbe stata esclusa dalla propria famiglia. C'era un totale distacco verso le istituzioni. Gli scugnizzi quando vedevano auto della polizia o dei carabinieri ferme in un vicolo, scappavano e qualcuno andava ad avvertire i camorristi della loro presenza. Questo gesto veniva ricompensato con un premio che spesso si trattava dell'utilizzo di un'arma da fuoco. Per mancanza di giocattoli, si utilizzava molto la fantasia per divertirsi. Alcuni bambini raccoglievano tavole di legno gettate nell'immondizia, non difficili da reperire in quanto in quel periodo non era presente la raccolta differenziata e neanche i raccoglitori dell'immondizia: veniva accumulata in sacchetti su marciapiedi e angoli di strada, tutto mischiato. Persino scarti di cibo che in estate emanavano un cattivissimo odore. Queste tavole venivano poste a terra su una strada ripida in discesa, e vi ci scivolavano a tutta velocità fino alla fine della discesa per poi risalire in cima e fare un nuovo giro.
Gli scugnizzi di quegli anni amavano tantissimo giocare a calcio per strada. Spesso venivano interrotte dagli abitanti dei bassi che infastiditi costringevano gli scugnizzi a spostarsi in un altro vicolo per giocare. A volte qualche abitante prendeva la cosiddetta "cannola", ovvero una spartana pompa d'acqua, per bagnare la strada e costringere gli scugnizzi ad andare via. Per rimediare qualche soldo, a volte, si faceva il giro delle abitazioni del quartiere per raccogliere le bottiglie vuote di birra e Coca-Cola. Ai tempi esisteva il cosiddetto vuoto a rendere: per ogni bottiglia di vetro restituita al commerciante veniva data indietro la cauzione pagata in precedenza che si aggirava tra le 100 e le 150 lire. Quelle numerose bottiglie davano la possibilità di racimolare circa mille lire che gli permettevano di acquistare un gelato, delle patatine o un pallone per giocare a calcio. Inoltre, si girava tra i salumieri a raccogliere le ossa di prosciutto ormai spolpate che avevano però ancora dei pezzetti residui che venivano mangiati. L'osso alla fine veniva dato ai cani randagi, come i gatti erano molto presenti tra i vicoli di Napoli che addirittura bloccavano il transito di alcune strade, impedendo il passaggio ai non residenti, quasi come se fosse un sistema di sicurezza proveniente dall'istinto del cane stesso. Si faceva anche il giro delle pizzerie in tarda serata per raccogliere gli avanzi delle pizze invendute che venivano regalate agli scugnizzi, ai figli di Napoli, figli di una città sofferente e piena di problemi di natura sociale ed economici. Alcuni genitori trascorrevano le loro giornate all'interno delle cantine, cantina non intesa come locale di conservazione di vino, ma come locale commerciale dedito alla consumazione di vino sfuso. Il cliente vi si recava e poteva ordinare un bicchiere di vino o un quarto di vino sfuso. Il vino veniva raccolto direttamente dalle botti tramite un tubo, veniva aspirato dall'esercente chiamato "cantiniere". L'igiene di questi locali era molto precaria. Molti uomini adulti passavano in questi luoghi le giornate intere per ubriacarsi, forse per dimenticare o per sfuggire dai tanti problemi quotidiani. Nei loro occhi c'era un'aria di rassegnazione, erano persone che vivevano in sofferenza con la loro esistenza e non era raro vedere le mogli di questi ultimi che venivano a recuperarli per riportarli a casa ormai ubriachi fradici. Poco propensi a lavorare. Alcuni venivano inghiottiti invece dal vortice della droga. All'epoca la cocaina veniva utilizzata solo da persone facoltose perché troppo costosa, i napoletani usavano l'eroina in siringa, costava molto meno ma aveva effetti devastanti. Per procurarsi i soldi per comprarla commettevano furti, rapine e borseggi. A volte rubavano a persone anch'esse bisognose. Questi venivano chiamati "'e drogat". Era facile riconoscerli: avevano sempre un colorito pallido e appena gli scugnizzi rilevavano la loro presenza scappavano via.  Veniva raccontato dai propri genitori che i drogati potevano anch'essi drogare inserendo le loro pericolose siringhe in ogni parte del corpo, trasformandoli in persone come loro. Questo fantasioso pensiero creava molta paura. Nei pressi di alcuni luoghi dove era possibile giocare tranquillamente a calcio per strada, vi erano veri e propri ritrovi di consumatori di droga che si riunivano e lasciavano in giro diverse siringhe. Qualche volta purtroppo gli scugnizzi assistevano a scene inquietanti come vedere una persona morta a terra con ancora la siringa conficcata nel braccio. L'ambulanza arrivava e gli scugnizzi restavano impietriti a guardare la raccapricciante scena. C'era un senso di pietà per quegli uomini che magari avrebbero potuto avere una vita diversa se qualcuno non gli avesse offerto quel veleno. La droga era un nuovo business per la camorra e più drogati c'erano, più i loro affari andavano bene. Per guadagnare più clienti, la prima dose veniva regalata, e poco dopo si presentavano le crisi di astinenza che portavano la preda a ritornare ad acquistare la sostanza. Le prede più ambite erano proprio le persone con disagi di diverso tipo. Tra le tante sfaccettature della città di Napoli emergeva una figura detta "l'omm ‘e miez’ ‘a via"(l’uomo di strada) inteso come uomo autonomo non essendo alle dipendenze di nessuno. Queste persone, molto carismatiche, erano totalmente autonome e non facevano parte di nessun gruppo camorristico, ma avevano ugualmente un ruolo subalterno nei loro confronti. Vivevano di furti e rapine, ma gli veniva proibito di compierle nel proprio quartiere. Di solito saccheggiavano appartamenti o negozi.  A volte si spostavano in altre città dove la camorra non aveva controllo e quindi non poteva sapere quanti soldi venissero realmente ricavati. Avevano ancora un look degli anni 70, capelli lunghi, jeans a zampa d'elefante, camicia con colli lunghi e tre bottoni sbottonati che davano vista su una grossa collana d'oro con annesso crocifisso. Si spostavano su moto di grossa cilindrata e passavano la maggior parte del loro tempo nei "biliardi". Ovvero sale dove era possibile giocare a carte o a carambola.  Questi personaggi erano molto amati all'interno del quartiere in quanto spesso aiutavano le persone bisognose senza chiedere nulla in cambio. Avevano la piena consapevolezza di aver scelto una vita sbagliata e per questo incitavano i giovani ragazzi a non prendere il loro esempio. Spesso questi richiami venivano fatti di nascosto perché contro la dottrina camorristica, che al contrario di loro incitavano i giovani a stare per strada e delinquere per poi selezionare i nuovi affiliati. Avevano un fascino irresistibile e tutte le donne al suono delle loro moto che sfrecciavano nei vicoli, si affacciavano per poterli guardare. Non erano prepotenti, ma molto svegli. Sapevano bene come vivere per strada. La maggior parte di loro possedeva una pistola che utilizzavano solo per rapine o per difendersi. Nelle loro abitazioni quando si sedevano a tavola spesso si mettevano di fronte alla porta di entrata mai alle spalle, un gesto che apparentemente sembra innocuo; invece, loro facevano ciò perché dicevano se qualcuno entra in casa mia per ammazzarmi lo devo guardare in faccia per conoscere chi fosse il suo omicida. Avevano sul loro corpo diversi tatuaggi.  L'unica cosa in comune che avevano "l'omm ‘e miez’ ‘a via" e i camorristi erano i tatuaggi. Il tatuaggio, ai tempi, era segno indelebile di chi aveva trascorso del tempo in carcere: più tatuaggi erano presenti, più c'era testimonianza di anni di galera vissuti. Spesso i tatuaggi erano nomi di mogli, figli e genitori. Quello più comune era il nome della madre. Venivano fatti stesso in carcere, mentre a chi non era stato in carcere non era consentito tatuarsi. Non era una legge scritta, ma una legge morale. Quella legge che nei vicoli di Napoli si osservava più del Vangelo. Il camorrista pretendeva l'esclusiva anche in questo: li tenevano d'occhio perché temevano che il loro carisma potesse attirare consensi a loro discapito. Il consenso delle persone del quartiere era molto importante, era la loro linfa vitale che gli permetteva di beneficiare di favori, omertà e sottomissione. Era tutto sotto controllo, anche il traffico di sigarette di contrabbando, più vendute perché avevano un costo inferiore rispetto a quelle ufficiali, sotto il monopolio dello stato. Tantissimi napoletani vivevano di sigarette di contrabbando, c'erano i "contrabbandieri", erano uomini che con gli scafi raggiungevano le navi fornitrici di sigarette provenienti dai paesi dell'est. Le navi erano ferme fuori dalle acque territoriali, una volta avvicinati caricavano le casse a bordo e le riportavano a terra.  Gli scafi avevano motori potentissimi per poter sfuggire nel caso venissero intercettate dalla guardia di finanza. Spesso durante lo scontro nasceva un conflitto a fuoco, a volte sfuggivano, ma a volte qualcuno ci rimetteva e purtroppo qualche famiglia napoletana piangeva il proprio caro. Spesso il mare faceva la sua parte, le grosse onde strappavano la vita di molti uomini che si avventuravano in acque per una mansione molto rischiosa. Quando le sigarette venivano portate a terra, venivano velocemente smistate e distribuite alle tantissime bancarelle presenti in tutta la Campania. La maggior parte dei contrabbandieri proveniva dal borgo Santa Lucia. Era un vero e proprio mestiere e per poterlo fare bisognava essere svegli e conoscere bene il mare insieme all'uso delle armi. Questo "lavoro" veniva tramandato di padre in figlio. Tante persone ambivano a diventare contrabbandieri, perché c'era un ingente guadagno ma i rischi erano elevati. Purtroppo, la mancanza di lavoro spingeva sempre più persone a cercare questo tipo di attività. Quando si definiva una persona malvagia, c'era la credenza popolare che il nostro signore avesse punito le persone malvagie con difetti fisici, punendoli per la loro cattiveria. Queste venivano definite "persone segnalate". Nel contesto popolare napoletano il pettegolezzo regna sovrano in ogni luogo: casa, botteghe, negozi. A Napoli il pettegolezzo si chiama "inciucio". Si tende ad esagerare per rendere il racconto più interessante o per screditare una persona o addirittura si inventano racconti grazie all'aiuto dell'interpretazione distorta delle parole. Il racconto man mano che si estende da persona a persona muta. Tutti sanno, ma nessuno deve sapere. Un tempo c'erano le "capere", donne che sistemavano i capelli alle loro clienti e raccoglievano gli sfoghi e i pettegolezzi per poi distribuirli alle altre clienti. Quelle che erano immuni ai pettegolezzi erano le prostitute. Negli anni 80 queste donne svolgevano la propria attività nelle proprie abitazioni a pian terreno (bassi) nei Quartieri Spagnoli, a ridosso di via Toledo. Ce n'erano tantissime e per farsi riconoscere dipingevano la lampadina esterna alla propria abitazione di colore rosso. Era il segno tangibile che in quel punto ci fosse una prostituta. Se la luce era spenta, significava che fosse occupata, quindi bisognava aspettare e non disturbare. Se la luce era accesa, era libera per accogliere i propri clienti. La prostituta napoletana era una donna molto sveglia, abile nei combattimenti, autoritaria ed imponente. Per questo si evitava di fare pettegolezzi nei loro confronti. La loro clientela era prevalentemente locale, ma c'erano anche militari che facevano servizio all'ospedale militare dei Quartieri Spagnoli che usufruivano dei loro servizi. Ma non solo, anche i soldati Americani che arrivavano dal porto, spesso accompagnati dagli scugnizzi facevano visita a queste ultime. Si lavorava col passaparola, e ovviamente, trattandosi di un'attività illecita, le condizioni igienico-sanitarie non erano delle migliori. Le prostitute, per esigenze erano costrette a compiere questo lavoro. Solitamente perché avevano perso i mariti, o per accumulare tanti soldi in poco tempo per poi sistemarsi per tutta la vita. Con una decina di anni di prostituzione, molte donne avevano investito nel settore immobiliare per poi vivere di rendita.
La prostituta che esercitava il proprio lavoro dopo la morte del marito, veniva giustificata perché secondo l'opinione pubblica, era l'unico modo che gli rimanesse per vivere una vita normale economicamente. La bellezza era un punto di forza, più erano belle e giovani e più lavoravano, chiedendo tariffe maggiori. Gli scugnizzi a volte curiosavano e sbirciavano all'interno dei bassi in cui venivano esercitati questi lavori. Le prostitute avevano contatti con la malavita, ma non lavoravano per loro. Erano delle vere e proprie imprenditrici che vendevano il loro corpo dalle 20 alle 50 mila lire per un'ora d'amore. Non potevano fare a meno dell'uomo protettore, detto "'o ricuttar"(ricottaro) Il termine descrive un uomo che vive sulle spalle di un'altra persona. Era una figura indispensabile, in pratica veniva pagata per garantire assistenza morale e sicurezza per la prostituta. Come una sorta di body-guard. Il ricottaro era una persona che risolveva in poco tempo qualsiasi tipo di questione. Questa figura era solitamente una figura sveglia, di misura imponente. Non aveva un lavoro vero, veniva pagato in percentuale dalla prostituta. Qualche volta capitava che una prostituta si innamorasse del proprio cliente, e decideva quindi di lasciare il proprio lavoro per la vita di coppia. Una vita di coppia spesso travagliata perché ricca di pregiudizi della gente, per cui spesso capitava che queste lasciassero il quartiere per spostarsi in un altro o addirittura lasciassero la città. C'erano donne che rimanevano vedove molto giovani e preferivano chiudersi nel loro lutto; era una vera e propria regola sociale che imponeva alla donna di vestirsi di nero per circa due anni dalla scomparsa del proprio marito. Erano inoltre obbligate a praticare la chiesa tutti i giorni e ad andare al cimitero almeno una volta a settimana, senza aver alcun rapporto confidenziale con alcun uomo. Bisognava camminare con lo sguardo rivolto verso il basso e rispettare tutte queste regole per mostrare di essere una buona donna. Allo scadere dei due anni, la donna tornava libera di vestirsi come volesse ed era autorizzata a frequentare un altro uomo per rifarsi la propria vita, ma sempre con la dovuta calma. C'erano donne che rimanevano legate a vita al proprio lutto fino alla loro morte. Erano quelle donne di età avanzata, nate nei primi del 900, con valori ben diversi dalle giovani donne nate negli anni 60. Il Rapporto con i defunti al cimitero per i napoletani è molto sentito, non mancano mai a fare visita propri cari e a riservargli un posto speciale nei loculi migliori. Negli anni 80 le donne avevano grossi limiti sociali: non potevano lavorare, né truccarsi, se non in presenza dei loro mariti. Non potevano dare confidenza ad altri uomini, dovevano uscire solo per necessità e stare sempre in casa a badare ai figli. Potevano votare, ma solo su indicazione del marito. Dovevano vestirsi ben coperte, senza mostrare nulla. Erano sottomesse e spesso erano costrette a perdonare il tradimento dei propri mariti. Non potevano in nessun modo gestire il denaro, le donne sposate ricevevano dai propri mariti il denaro che serviva per fare la spesa giornaliera e spesso non era sufficiente, dovevano fare i miracoli per far quadrare i conti. Tutto ciò era dovuto dal fatto che la mentalità maschilista imponeva alle donne la totale sottomissione, anche in rapporti amichevoli c’era l’usanza che gli uomini anche in giovane età offrivano le donne un caffè, un gelato ecc. non era solo un atto di galanteria ma anche un inizio di sottomissione.  Infatti, nella cultura popolare napoletana, l'uomo che tradiva veniva guardato come un "predatore", un "playboy". Mentre la donna veniva punita severamente, e a volte presa a botte perché ritenuta una “poco di buono”, una sgualdrina. C'era una forte mentalità maschilista che sopprimeva le giovani donne napoletane popolari. I genitori alla loro figlia femmina fin da piccola d’età iniziavano a farle il “corredo da sposa” le possibilità economiche erano molto limitate così periodicamente compravano cose per il futuro matrimonio della figlia (coperte, pentole, piatti, bicchieri ecc.) in 10/15 anni a pezzettino alla volta con tanti sacrifici compravano il necessario per la propria figlia che da sposa doveva avere tutto il necessario. Era l’unico modo per arrivare a ciò. La verginità per la donna era una cosa sacra, era doveroso salire sull’altare in chiesa per sposarsi ed essere vergine cioè mai avuto rapporti sessuali con nessuno,  infatti alla prima notte di nozze il mattino successivo venivano in camera a preparare il letto dove avevano consumato la loro prima notte gli sposi, la prova tangibile della perdita della verginità era la presenza di macchie di sangue sulle lenzuola, la mamma della sposa mostrava alla mamma dello sposo che la figlia era realmente vergine e pura. Negli ambienti criminali la donna che aveva il marito o fidanzato in prigione era costretta ad aspettare che usciva da galera. Non poteva essere corteggiata e non poteva rifarsi una vita in alcun modo, ovviamente gli uomini stavano alla larga dalle donne con mariti in carcere per non avere problemi. Tante donne hanno vissuto la loro esistenza al fianco dei loro mariti con atroce dolore: non potevano andare via anche perché i loro familiari le avrebbero respinte e ritenute svergognate. Non potevano nemmeno andare a vivere per conto loro per mancanza di risorse economiche, in questo ambito erano totalmente dipendenti dai mariti. Non gli era permesso guidare né automobili né motorini, cosa che veniva però permessa agli scugnizzi. Loro imparavano già da ragazzini a guidare, come se fosse una condizione obbligata. Bisognava andare in motorino o in vespa per adempiere a varie mansioni di carattere familiare. La maggior parte degli scugnizzi era di corporatura esile per cui non trovavano quasi mai difficoltà a guidare motorini, facendo addirittura slalom tra le persone che passeggiavano.
Giravano senza casco, anche perché ai tempi non esisteva l'obbligo di quest'ultimo, inserito nel 1986. Inoltre, non era necessaria né la patente di guida né la targa per guidare il cosiddetto cinquantino. Era diffuso "truccare" i motori dei motorini per renderli più potenti. C'era una distinzione tra chi lo faceva per passione e chi per compiere atti illegali, come gli scippi. Le vittime di scippi difficilmente andavano a fare denuncia alla polizia perché ritenuto inutile. Anche perché rischiavano di essere isolati dal contesto. Lo scippatore era un vero e proprio mestiere e ci volevano vari mesi di addestramento per poter colpire. La camorra dava licenza di scippare agli scugnizzi ovunque, l'importante è che non dovessero agire sulla cosiddetta "povera gente", cioè persone del popolino.
Quelle persone che andavano avanti a stento e che credevano nella camorra come unica istituzione. Per uno scippo si usciva in due persone, e il bottino veniva quindi diviso in due.
Il denaro veniva spartito immediatamente, mentre gli oggetti di valore venivano venduti a ricettatori compiacenti che non si facevano alcuno scrupolo a pagare al di sotto del proprio valore l'oggetto proposto. Ovviamente era un "mestiere" pericoloso: c'era chi nello scappare ha battuto la testa e non è più ritornato a casa, chi veniva ammazzato da colpi di arma da fuoco da un poliziotto presente sul luogo e chi veniva acciuffato, arrestato e mandato nel carcere minorile (Il carcere Filangieri). C'era una regola ben precisa che doveva essere rispettata a qualunque costo: se uno dei due scugnizzi fosse stato arrestato e l'altro fosse riuscito a farla franca, per nessuna cosa al mondo avrebbe dovuto rivelare alla polizia chi fosse stato il suo complice, anche a costo di essere torturato. La sua fedeltà veniva ricambiata già dal giorno dopo: il suo amico dava la sua parte dei proventi ai suoi familiari. Era un patto di amicizia ed equivaleva ad un patto di sangue.
Bisognava aiutarsi, per sempre. Erano solidali tra loro. C'erano famiglie che aspettavano i propri figli scippatori che portassero qualche soldo a casa per poter cucinare. Capitava che lo scugnizzo inconsapevolmente compiesse reati e cattive azioni credendo di star facendo qualcosa di giusto. Era una vera e propria dottrina che gli veniva insegnata fin da piccoli. C'erano quelli più moderati, che erano anche più propensi ad innamorarsi. Non erano di questo avviso però, altri ragazzi con valori diversi, anche grazie alle loro condizioni economiche più agiate. Si pensava molto al futuro per un avvenire migliore, erano considerati "bravi ragazzi". Questi, raramente si trovavano per strada a giocare, spesso in estate. Facevano solo giochi innocui. Il loro linguaggio era più orientato all'italiano, con un ridotto numero di parolacce. Avevano un vestiario molto più curato, capigliature più in ordine e in tanti godevano di due o più mesi di villeggiatura in estate perché la regola in famiglia era: o studi o impari il mestiere.
Una parte continuava gli studi fino all'ambito diploma, mentre c'era un'altra parte che decideva di imparare il mestiere, inteso come l'arte di fare. Negli anni 80, di mestieri ce n'erano tanti, molti dei quali oggi sono scomparsi. Si iniziava a soli 14 anni come garzone di una bottega. A volte erano i genitori che pagavano i titolari per permettere i propri figli di imparare il mestiere. Era un vero e proprio investimento per il futuro. C'era chi proseguiva l'arte del proprio genitore, ovviamente parliamo di mestieri onesti. Veniva scartata sul nascere ogni proposta di lavoro disonesta, ritenuti come lavori rischiosi, non stabili e non duraturi. Alcune zone della città avevano come caratteristica l'insieme di molte attività che svolgevano lo stesso mestiere, ad esempio: il Borgo Orefici caratterizzato da tutte le attività dell'arte orafa. C'erano molte botteghe di autocarrozzeria in Via Carrozzieri a Monteoliveto. Nella zona del Rione Sanità e a Materdei c'erano le fabbriche di guanti in pelle, una vera e propria arte della fabbricazione di alta qualità. Al centro storico c'erano le tipografie dove si vedevano uomini vestiti eleganti con il camice lungo come i linotipisti, i compositori i macchinisti, mentre a Capodimonte le ceramiche. Ai Quartieri Spagnoli, invece, fabbriche di scarpe e borse realizzate con maestria artigianalmente. Sul lungomare c'erano i pescatori che rifornivano i pescivendoli napoletani. C'erano i calzolai, ovvero i ciabattini, i macellai, i salumieri, i meccanici, gommisti, pasticcieri, tappezzieri, elettrauto, carburatoristi, radiatoristi, sarti, restauratori di mobili, idraulici, muratori, imbianchini, letteristi, vetrai, tornitori, cromatori, lustrascarpe detti "sciusià", incisori, chianchieri ovvero i macellai, i falegnami, parrucchieri. C'era l'imbarazzo della scelta nello scegliere il proprio mestiere. Il mestiere permetteva di condurre una vita dignitosa e mettere su famiglia. Era un investimento su sé stessi per garantirsi un futuro. Molti antichi mestieri che ormai erano scomparsi uno di questi era “o Pazziariello” O pazzariello era un’artista di strada, figura molto diffusa e caratteristica della Napoli di fine Settecento, Ottocento e prima metà del ’900, una specie di giullare di piazza che attirava i passanti con i suoi strampalati spettacolini. Di solito lo si poteva trovare per le strade, vestito in modo molto vistoso, mentre impugnava del vino o altri prodotti (solitamente pane e pasta) che gli venivano affidati da una vicina cantina o bottega per farsi pubblicità. Infatti, con balli, danze e filastrocche, era solito annunciare l’apertura di nuovi negozi accompagnato anche da una piccola orchestrina composta da tamburino, eputipù, scetavajasseetriccheballacche. Inoltre, non era raro trovarlo a qualche festa paesana o sagra in cui tentava di attirare un numero più alto possibile di avventori per vendere all’asta qualche oggetto ricevuto dagli organizzatori per aumentare il ricavato dell’evento. Nell’arte di arrangiarsi a Napoli c’erano anche persone che venivano pagate per piangere ai funerali per far credere alle persone del quartiere che il defunto era stato molto amato da tutti in vita, ovviamente cosa non vera. I ragazzi che intraprendevano questa via erano molto umili, la gavetta era dura, bisogna avere passione, dedizione e tanta pazienza per imparare il mestiere. C'era chi non riusciva ad impararlo per sua in incapacità, ma c'era anche chi diventava più bravo del titolare. Il titolare non era un maestro di scuola, non spiegava nulla. Stava al ragazzo avere l'intelligenza e la scaltrezza di "rubare" il mestiere. I familiari con i loro risparmi avviavano un'attività al proprio figlio. Questi ragazzi frequentavano spesso le parrocchie del quartiere e si adoperavano come chierichetti. Nel pomeriggio stavano in aree ricreative a giocare a carte, a dama o a biliardino. Si mantenevano lontani dalla strada, ritenuta pericolosa. Nei vicoli di Napoli, dove non arrivava la voce, arrivavano i gesti. A Napoli per determinate circostanze, la gente comunica con i gesti delle mani: una testualità delle mani di tipo simbolico. Sono tutte espressioni di stati d'animo che solo a parole non avrebbero lo stesso peso. Attraverso il movimento delle braccia o delle mani, spesso è anche possibile capire il tema di discussione senza conoscerne le parole. Ogni napoletano gesticola quando parla: il "gesto" è un modo di esprimersi, un contributo al discorso che si sta portando avanti. I gesti venivano insegnati fin da piccoli a tutti gli scugnizzi, e tutti riuscivano ad impararli in modo rapido. Bisognava essere rapidi nella comunicazione, in qualche situazione, un solo gesto ha salvato la vita ad un altro scugnizzo. Lo scugnizzo non doveva piangere per alcun motivo, in quanto indicava un segno di debolezza. Bisognava sempre mostrarsi forte e indifferente davanti a qualsiasi dolore emotivo. Se uno scugnizzo si commuoveva o piangeva veniva deriso e considerato un perdente, uno che non sa affrontare la vita. Lo scugnizzo è forte e riesce ad affrontare la strada, non si piega davanti a nulla. bisognava imparare la cazzimma. È un neologismo dialettale: significa essere furbi, sfruttare ogni evento a proprio favore, raccontare bugie all'occorrenza.
Questa veniva insegnata per strada, dovuta al crescente istinto di sopravvivenza. Il popolo napoletano pone da parte la cazzimma, davanti agli oracoli e santi, ha sempre affidato le proprie preghiere a San Gennaro, santo patrono di Napoli. Nel proprio animo, il napoletano sente una voce che dice: "sei sfortunato, non ce la farai mai a porti un obbiettivo". Per cui non resta che pregare e sperare che qualcuno dal cielo potesse compiere un miracolo o una grazia. Va bene anche poco, l'importante è che arrivi nell'immediato.
Napoli è una città che per secoli ha dovuto lottare sempre con le unghie e con i denti per tirare avanti. La mancanza di sviluppo ha creato mancanza di lavoro, tanta gente stenta ad andare avanti e si ritrova costretti a chiedere dei prestiti. I prestiti a Napoli non si facevano in banca, poiché spesso chi li richiede non ha garanzie da offrire. Ci si rivolge all’antistato: ai "rammari" o mercanti che offrono denaro in prestito sulla parola, senza chiedere alcuna forma di garanzia o documento. I tassi di interesse sono molto alti. La camorra ha sempre preferito finanziare le attività: c'è più remunerazione e più garanzia. In mancanza di pagamento, l'attività veniva "requisita". I mercanti invece, sono persone che possiedono del denaro che gli permette di concedere piccoli prestiti a persone, mentre il "rammaro" è una figura che acquista la merce per il cliente e richiede che il pagamento sia saldato a rate, ovviamente con un enorme tasso di interesse.
Negli anni 80 vi era facile accesso al credito: la stretta di mano valeva più di un documento firmato. Ad esempio, veniva chiesto un milione di lire per rifare il bagno o per acquistare un’automobile usata. i scontava il debito a rate di centomila lire al mese per tredici mesi. Appena finito vi era nuovamente la possibilità di chiedere un prestito. Tutti pagavano e tutti onoravano la parola data nel restituire il denaro ricevuto. Se qualcuno aveva avuto problemi nel restituire il denaro, si trovava un accordo per abbassare la rata mensile. C'erano i mercanti più onesti e quelli meni onesti che senza scrupolo aggiungevano altro interesse, oltre a quello già richiesto. Intere famiglie venivano schiacciate da questo fenomeno, ma questi prestiti facevano girare molto l'economia ma nello stesso tempo impoverivano le famiglie. Gli scugnizzi venivano utilizzati per andare a raccogliere il denaro a casa dei clienti per conto dei mercanti in cambio di una modestissima mancia. Bisognava essere veloci nel riportare il denaro, se qualcosa andava storto però, il denaro doveva restituito dalla famiglia dello scugnizzo. Era una mansione che richiedeva molta responsabilità, per cui bisognava stare attenti e soprattutto non dire a nessuno di quest'ultima, perché il tradimento era dietro l'angolo. La camorra riusciva a trasmettere agli scugnizzi un messaggio diverso da quello reale: chi moriva per mano loro era un traditore, un uomo cattivo, uno che non meritava di vivere: bisognava eliminarlo, altrimenti avrebbe fatto del male a tutti. Insomma, era raccontata come un'azione di giustizia. Ovviamente era un messaggio distorto, riuscivano a farsi credere grazie al loro potere di seduzione. C'erano notizie che venivano nascoste agli scugnizzi per evitare che qualcuno potesse farsi delle domande, come ad esempio la morte del giornalista Giancarlo Siani per mano della camorra, nel 1985. Ucciso solo perché raccontava la verità così come accadeva, tramite il giornale di cui era impiegato.

 

 

Capitolo II - La vita degli scugnizzi

Giovanni era un ragazzo nato nel 1974, esile e con i capelli castani e lisci, aveva sempre un viso pallido. Era unico figlio di umile famiglia: suo padre lavorava come operaio in una fabbrica di scarpe mentre sua madre era una casalinga. abitava ai Quartieri Spagnoli, vicoli stretti panni stesi botteghe, negozietti e bassi popolavano in modo armonioso il proprio quartiere. Sua Madre era Nativa dei quartieri spagnoli mentre il padre era di Capodimonte. I genitori di Giovanni decisero di iscriverlo ad una buona scuola, l'Istituto Rossi. Era un istituto privato che solo i ragazzi di ceti sociali più abbienti potevano frequentare. L'iscrizione e la retta mensile erano fuori dalla portata, ma il papà di Giovanni pignorò la sua fede nuziale e riuscì a ricavare i soldi necessari per coprire le spese. La scelta particolare di questo istituto fu guidata dai genitori di Giovanni, speravano che un istituto privato potesse fornire un ambiente migliore per la crescita del loro figlio. on Antonio il papà di Giovanni era stato anch’egli uno scugnizzo, nato nel dopo guerra aveva patito la fame più assoluta e dopo essersi sposato era entrato nel mondo del lavoro, stava e anche se non guadagnava tanto aveva acquistato la giusta serenità per lui e i suoi cari.  Il responsabile dell'istituto, prima di iscrivere Giovanni, volle conoscerlo. Si presentò accompagnato dalla madre. Fu fatto entrare in una stanza dove erano presenti tre persone adulte sedute dietro ad una grossa scrivania. Lo fissavano e gli chiesero di avvicinarsi. Gli posero delle semplici domande del tipo: come ti chiami, come si chiamano i tuoi genitori, quanti anni hai. Insomma, lo fecero parlare. Giovanni con decisione e rapidità rispose. Non aveva la consapevolezza di cosa fosse quell'istituto, voleva solo rendere felice i suoi genitori.

Ad un certo punto vide che quelle persone lo guardavano in modo strano, come se fosse una persona sgradevole. Giovanni non riusciva a capire perché avessero cambiato atteggiamento all'improvviso nei suoi riguardi. Solo successivamente seppe dai propri genitori il perché proibirono la sua iscrizione: le domande venivano poste in lingua italiana mentre Giovanni rispondeva in lingua napoletana. Gli chiesero se sapesse parlare in italiano e Giovanni rispose che sapeva dire solo qualche parola. Questa fu la motivazione della sua esclusione. Veniva dal basso e doveva rimanere lì, nel basso, senza nessuna possibilità di poter imparare l'italiano. Questa notizia creò molta amarezza tra i genitori. Quel piccolo spiraglio di speranza si era chiuso. Sua madre onn’Anna era più orientata a inserire Giovanni in strada tra gli scugnizzi, si era già scontrata con suo marito nella scelta e il rifiuto dell’istituto Rossi le diede ragione, onn’Antonio dovette accettare la scelta di sua moglie senza replicare. Aveva la convinzione che fosse la strada giusta o, meglio, l’unica strada percorribile. Nel luglio del 1979 Giovanni anche se piccolo d'età, iniziò a sentire l'esigenza di stare per strada insieme agli altri bambini della sua età. Un giorno, sua madre gli disse: <<Giovà, da domani ti faccio scendere per strada, però devi sapere che ci sono delle regole che devi rispettare. Ti faccio uscire con tuo cugino Luigi che ti inserirà tra gli scugnizzi.>> Giovanni la osservò e rispose: <<Mammà, ma che cos'è uno scugnizzo?>> La mamma, con un sorriso replicò: <<Lo scugnizzo è l'emblema di Napoli. Sono persone speciali ed è venuto il momento che tu ne faccia parte.>> <<Io?>> rispose Giovanni incredulo. <<Sì, a Napoli è importante esserlo, sennò rischi di abbuscare>> replicò la mamma. Giovanni era entusiasta della situazione, non vedeva l'ora: pensava fosse un gioco e nient'altro. Ormai si era scocciato di passare le intere giornate a guardare i cartoni animati giapponesi come Mazinga e Goldrake. Arrivò quel giorno che aprì un nuovo mondo a Giovanni: un mondo a lui sconosciuto di cui non aveva idea del funzionamento e non ne conosceva le regole. Insieme a Luigi si recarono in un’abitazione a pian terreno (Basso), bussando alla porta in una maniera criptica. Alla porta aprì una simpatica signora che accolse i due. Entrarono e in una stanza vi erano cinque ragazzi dagli otto ai quindici anni, tutti intorno ad un tavolo rotondo. Luigi si avvicinò al capobanda degli scugnizzi, Mario, chiamato "Mariolino" e disse: <<Mariolì, ecco mio cugino di cui ti avevo parlato. Lui vuole essere uno scugnizzo e oggi vuole la tua benedizione per farlo stare insieme a noi. Come ti avevo avvisato è sveglio, tenace e combattente anche se è piccolo, ma vuole imparare ad essere uno scugnizzo.>> A quel punto, Giovanni si fermò e gli sussurro all'orecchio: <<Ma io non ho mai chiesto di essere uno scugnizzo, voglio prima capire che significa.>> Luigi lo prese con il braccio e lo invitò ad avvicinarsi al tavolo e gli rispose a bassa voce: <<Mo' è tardi, non si torna indietro. Oggi sarai battezzato scugnizzo. Accetta tutto quello che ti diranno e non opporti, è per il tuo bene>>. Giovanni fu quasi portato con forza a quel tavolo: al c'entro c'era Mariolino, alla sua destra Franco, alla sua sinistra Enzo, ai lati Salvatore e Rosario. Pronunciarono alcune parole "rituali" che spiegavano che essere uno scugnizzo era un onore e gli dissero che restando tra loro avrebbero imparato tante regole. Si giocava, ma bisognava anche fare le cose serie per il bene comune. Mariolino e l'intera banda era composta da circa una quarantina di ragazzi. Erano pochi rispetto alle bande rivali, e bisognava reclutare nuovi ragazzini per aumentare il numero di persone per non permettere a nessuna banda avversaria di impadronirsi del loro territorio. Cantarono alcune canzoni ad alta voce e un inno che suscitarono in Giovanni tanto entusiasmo. Quei dubbi iniziali passarono in un attimo, quel nuovo mondo lo stava affascinando. Ora faceva parte di quella piccola organizzazione, e da quel momento ne fu parte: era diventato uno scugnizzo. Appena uscirono dall’abitazione di Mariolino, Giovanni e Luigi si incamminarono verso casa, Giovanni era silenzioso e stava già pensando alle prossime giornate. Una volta giunti al portone di casa Luigi lo guardò e disse <Giovà sentimi bene sei ancora piccolo d’età non hai esperienza, sta sempre vicino a me e non prendere mai iniziative. Quando ricevi ordini, consulta me prima di eseguirli.> Luigi aveva creato un nuovo scugnizzo. Giovanni non aveva ancora capito cosa fosse essere uno scugnizzo, e per questo temeva che si potesse cacciare in qualche guaio. Luigi voleva proteggerlo, era troppo piccolo. Poi aggiunse < Giovà ricordati con chiunque ti troverai a parlare in modo ravvicinato non abbassare mai lo sguardo, fissalo dritto negli occhi sia quando ti parla lui e sia quando parlerai tu, mi sono spiegato?!> Giovanni < Va bene certo lo farò anche se non ho capito il perché> Luigi < Lo capirai col tempo vedrai> Il giorno successivo tutti gli scugnizzi si radunarono nel piazzale di fronte all'abitazione di Mariolino, era solito raggrupparsi lì. Mariolino presentò a tutti il nuovo arrivato e ordinò di procurare mazze e pietre perché di lì a poco sarebbe iniziata una guainella contro una banda avversaria e bisognava attrezzarsi e prepararsi a combattere. Giovanni chiese a Luigi cosa fosse la guainella, ed egli gli spiegò che era una guerra caratterizzata dal lancio di pietre. Giovanni esclamò: <<Wow! Ci divertiremo.>> Luigi gli diede uno schiaffetto e gli disse: <<Questo non è un gioco, noi giochiamo solo quando non c'è niente da fare.>> Si divisero in vari gruppi alla ricerca di pietre. Giovanni stette con Luigi. Ammassarono le pietre in un sacco posto all'angolo di un piazzale. Intanto Mariolino, Franco ed Enzo andarono dal capobanda avversario per definire il giorno e l'ora dello scontro. Si accordarono per il giorno dopo alle ore 16. Il giorno successivo, Giovanni insieme a suo cugino si recò sul luogo dove sarebbe avvenuta la guainella: era un vicolo con due file di auto parcheggiate, una fila lungo il margine destro e l'altra lungo il margine sinistro della strada. Ai loro lati c'erano i marciapiedi lunghi circa un metro. Giovanni, non appena girò l'angolo, vide una scena mai vista: la sua banda era già schierata lungo le macchine poste sul margine sinistro e la banda avversaria dietro le macchine parcheggiate del margine destro.
Proprio in quel momento, i residenti di quel vicolo chiusero porte e finestre delle loro abitazioni e nessun’altra persona transitò lì: come se già sapessero cosa stesse per accadere. C'erano i due schieramenti che si contrapponevano: trincerati dietro le macchine parcheggiate, armati di pietre e sbarre come una vera e propria guerriglia. Luigi disse a Giovanni: <<Giovà, tu e gli altri piccolini starete dietro l'angolo al riparo. Andate a prendere altre pietre e rifornitele a noi. Lasciatele a terra, ce le veniamo a prendere noi.>> Giovanni tremava, in sè c'era un senso di paura. Luigi gli ricordò di non girare l'angolo della strada per non rischiare di essere colpito: dovevano agire nelle retrovie senza esporsi. La loro mancanza di esperienza li avrebbe messi in pericolo. Ad un certo punto si aprirono le ostilità: gli avversari più numerosi iniziarono con un massiccio lancio di pietre anche di grosse dimensioni. Mariolino diede ordine di rispondere con un lancio di poche pietre, lanciandole a "pallonetto", ma restando al riparo il più possibile. Le pietre si scagliarono sulle auto parcheggiate, rompendo i vetri dei finestrini. Giovanni riuscì a procurare molte altre pietre, ma di piccole dimensioni, e le ripose a terra. Non resistette però alla curiosità: si affacciò per guardare lo svolgimento della guainella. Rimase stupefatto, sembrava un gioco di soldatini, ma non lo era. Corse e si rifugiò dietro ad una delle auto, rannicchiato come gli altri, accanto a Luigi, il quale gli disse: <<Ma tu cosa fai qua? Ti avevo detto di restare al riparo.>> Giovanni rispose: <<Voglio combattere pure io.>> Raccolse un paio di pietre e le lanciò verso gli avversari senza alcun esito positivo. Gli avversari sembravano avessero un numero considerevole di pietre: sembravano non finire mai. Mariolino proseguì nel contrattacco: tutti gli scugnizzi si alzarono ed iniziarono a lanciare tante pietre. Giovanni non si risparmiò, ma essendo piccolo lanciò le pietre con poca energia, e quindi con pochi risultati. Due dei suoi amici furono colpiti alla testa e cominciarono a perdere sangue. Furono portati immediatamente all'ospedale. Anche tra gli avversari vi furono feriti: cinque.
La lotta fu feroce, arrivavano pietre da tutte le direzioni, sembravano proiettili. Giovanni fu sfiorato diverse volte alla testa. Ormai le pietre stavano per esaurirsi sia per gli uni che per gli altri. A quel punto Mariolino gridò: <<Addosso!>>. I suoi scugnizzi uscirono allo scoperto, correndo verso gli avversari. Fu un combattimento corpo a corpo, con mazze e spranghe. Intanto volavano ancora pietre. Giovanni rimase abbassato dietro una Fiat 128 e assistette ad una vera e propria guerra: c'erano ragazzi a terra e altri che combattevano. Gli avversari, nonostante fossero in superiorità numerica, furono costretti a scappare. Lo scenario era surreale: auto rotte, vetri sfondati, ragazzi a terra feriti. Una violenza che Giovanni aveva visto solamente nei film. Luigi, Rosario, Franco, Enzo e Mariolino rimasero illesi, erano quelli più esperti, ma dieci scugnizzi furono feriti dai colpi delle pietre e dalle spranghe. Si ritirarono al piazzale per fare il conto della situazione. Gli avversari, oltre a scappare avevano avuto dodici feriti. Mariolino entusiasta disse: <<Bravi guagliù, eravamo di meno ma abbiamo vinto, grazie alla nostra forza e alla cazzimma.>>. Tutti esultarono, grati di aver portato al compimento quella vittoria tanto desiderata. Luigi si avvicinò a Giovanni, dandogli uno schiaffo e dicendo: <<Devi fare quello che dico io. Non fare più di testa tua, mi sono spiegato?>> Mariolino si avvicinò e disse: <<Il piccolo Giovanni oggi si è dimostrato coraggioso, è grazie anche a lui che abbiamo vinto. Come un vero e proprio scugnizzo non ha paura di nulla.>> Iniziarono di nuovo tutti insieme a cantare quegli inni che glorificavano le loro azioni. Giovanni cantava a squarciagola, orgoglioso di essere uno di loro e quel giorno ebbe la piena consapevolezza di cosa significasse essere uno scugnizzo. Franco si avvicinò a Luigi e disse: <<Ho visto il tuo cuginetto.
Mi sembra una persona valida, vorrei prenderlo sotto la mia ala per insegnargli tante cose. Che ne dici?>> Luigi che conosceva bene Franco, un ragazzo nato nel 1970, i suoi genitori vendevano le sigarette di contrabbando per strada per sfamare otto figli. Era un tipo molto sveglio, deciso e orientato ai furti, meno interessato ai giochi. Accettò la sua proposta, dandogli in custodia il piccolo Giovanni. I due passeggiarono per diverse ore. Franco raccontò diversi aneddoti suscitando in Giovanni molto entusiasmo. Giovanni incuriosito gli chiese lo scopo delle guainelle, ed egli rispose: <<È un duello tra due bande per imporre la propria forza. Oggi abbiamo vinto noi, da domani gli avversari ci porteranno rispetto. Potremmo transitare nel loro territorio mentre loro non potranno farlo nel nostro, dovranno chiedere il permesso e ci sarà la possibilità che qualcuno di loro lascerà la sua banda per unirsi a noi.>> I genitori di Giovanni non erano di questo avviso, la signora Anna conosceva bene Franco e sapeva di che pasta era fatto. Lei desiderava che il figlio diventasse uno scugnizzo, ma moderato, vivace, ma non un ladro o un aggressore. Nei mesi successivi Giovanni prese parte a diverse guainelle, ebbero tante vittorie grazie all'audacia del proprio capo indiscusso, Mariolino. Vi era un numero sempre crescente di scugnizzi che si univa alla banda. Giovanni pose una domanda a Franco: <<Perché i miei familiari volevano che diventassi uno scugnizzo?>> Franco si girò e guardandolo con un sorriso smagliante rispose: <<Giovà, sei ancora piccolo e non sai come funziona il mondo, il figlio dell'avvocato farà l'avvocato, il figlio del farmacista farà il farmacista, il figlio del panettiere farà il panettiere e il figlio dello scugnizzo farà lo scugnizzo.>> Giovanni rispose: <<Lo scugnizzo è un mestiere?>> Franco replicò: <<No, è una condizione di vita che ti permette di guadagnare soldi in piena libertà senza dover stare alle dipendenze del padrone.>> Giovanni aggiunse: <<E se io mi rifiutassi?>> Franco insistette: <<Ormai sei uno scugnizzo, indietro non si può più tornare.>> A Giovanni piaceva essere uno scugnizzo, l'unica cosa che gli creava disagio era il fatto che gli altri avessero già deciso per lui, senza permettergli di riflettere, come se non ci fossero alternative e la sua vita fosse già decisa. Franco con una risata disse: <<Ti insegnerò io ad essere un vero scugnizzo, da domani sarai sempre con me.>> Giovanni tornò a casa e raccontò com'era andata ai suoi genitori che si mostrarono orgogliosi di lui, ma allo stesso tempo gli raccomandarono tanta prudenza e gli intimarono di restare sempre vicino a Franco e Luigi. Nei giorni successivi, Giovanni allacciò una forte amicizia con Pietro, Gigino e Marco: erano anch'essi ragazzini come lui, senza alcuna esperienza di strada. Crearono un rapporto di solidarietà tra loro. Erano ragazzi molto disagiati, Pietro era l’ultimo di una famiglia di 12 figli, aveva i genitori anziani e con problemi di salute, Gigino aveva anch’egli problemi di salute e necessitava di controlli periodici che non avvenivano sempre, Marco aveva i genitori separati, suo padre se n’era scappato con la migliore amica della mamma lasciandola con 3 figli, c’era una forte necessità di guadagnare soldi da dare a sua madre che con il suo misero lavoro non riusciva a sostentare tutti. Nelle ore meno impegnative, giocavano fino allo sfinimento. Furono giornate intense in cui Giovanni imparò nuovi giochi praticati in strada, pericolosi ma al contempo affascinanti. Facevano una colletta per racimolare 2000 lire per comprare il pallone super Santos, organizzavano partire a calcio nel piazzale d’innanzi all’abitazione di Mariolino, erano giorni lieti, Giovanni si sentiva a suo agio con alcuni dei suoi amici ma ben presto si scontrò contro la prepotenza di altri scugnizzi della stessa banda che imponevano la loro prepotenza nei riguardi dei più piccoli, Vincenzo era uno di loro, quelli più prepotenti giocavano in attacco e quelli più piccoli e indifesi venivano posti per forza in difesa, quel giorno prima di iniziare la partita si rivolse a Giovanni < tu vai in difesa!> Giovanni gli rispose < non ci penso nemmeno, io gioco dove mi pare> Vincenzo lo prese per il collo della maglietta e lo scaraventò a terra e disse < tu fai quello che dico io altrimenti non giochi> Giovanni si rialzò malconcio e se ne andò, non poteva affrontare Vincenzo era più grande di lui e poi era uno dei seguaci di Mariolino, preferì andare via e lasciare la partita. Non accettò l’imposizione che gli era stato impartito, questo fu il secondo gesto di imposizione che aveva subito e in sé stava iniziando ad accrescere un senso di ribellione. In serata, quando faceva ritorno a casa, era tutto sporco e con le ginocchia sbucciate. La mamma lo sgridava e gli ordinava di lavarsi. Una sera Giovanni disse a sua mamma < Mà mi sento fortunato che papà lavora e ogni giorno riusciamo a mangiare, ci sono altri scugnizzi della banda che sono veramente poveri, hanno fame!, gli manca tutto anche le cose più necessarie, Hanno i pidocchi, Mammà perché hanno sempre fame?> Giovanni si commosse, sua madre lo strinse a sé disse < Giovà questo è un mondo crudele, ce ne dobbiamo fare una ragione> Prese un pettine stretto e lo passò tra i capelli di Giovanni, anche lui aveva i pidocchi, gli erano stati trasmessi da altri scugnizzi. Giovanni fu stretto tra le braccia della madre piangendo. Giovanni fu attratto in modo profondo dalla vita da scugnizzo, il senso di libertà e le giornate avventuriere lo rendevano felice e desideroso di far parte della propria banda non aveva la più pallida idea di cosa fosse “la strada” e i suoi rischi, ben presto si trovò ad avere a che fare con la dura realtà.

Era l’estate del 1980 la vita a Napoli scorreva come sempre i vicoli erano frequentati dai tanti venditori ambulanti che proponevano merce di varia natura, le vecchiette sedute fuori dai bassi sulle sedie trovavano sempre un posticino all’ombra per poter fare pettegolezzi con le vicine, le botteghe artigiane erano aperte e si lavorava a pieno ritmo nonostante il caldo, le giovani mamme andavano a fare la spesa nelle botteghe o al mercato e gli scugnizzi stavano lì per strada a organizzare in modo autonomo la loro vita, i genitori di Giovanni che iniziarono ad avere delle preoccupazioni nei riguardi del loro piccoletto, non lo vedevano abbastanza adeguato alla vita da scugnizzo, da un lato speravano che col tempo si sarebbe adattato e da un lato volevano che frequentasse un ambiente diverso, la loro indecisione li indusse ad iscrivere Giovanni ad un altro istituto privato, ma di calibro molto più basso che permetteva l'accesso anche ai ceti meno abbienti. Era un istituto cattolico con delle regole molto ferree e gli scugnizzi non erano visti di buon occhio. L'approccio fu difficile, le regole non facevano parte del DNA degli scugnizzi. Infatti, alcuni degli amici di Giovanni furono subito espulsi. I restanti inizialmente vennero sempre puniti, ma pian piano iniziarono a adeguarsi almeno in parte alle regole scolastiche. La voglia di non apprendere rendeva sempre più precaria la loro permanenza in quella scuola: veniva tutto raccontato attraverso la parola di Dio, ma i fatti erano molto differenti. Le punizioni erano dure e all'ordine del giorno: subivano bacchettate sulle mani, venivano fatti mettere negli angoli con le braccia alzate rivolte verso il muro per ore e ore e se qualcuno non avesse fatto i compiti, la maestra gli avrebbe costruito un grosso orecchio di asino di carta che grazie ad una fenditura veniva applicato all'orecchio dell'alunno punito, veniva messo in un angolo e tutta la classe era obbligata a puntargli il dito contro al grido di <<Vergogna, vergogna, vergogna!>>. In tanti scoppiavano a piangere, era una scena umiliante che spesso subiva anche Giovanni. Lui era taciturno perché non voleva che si sapessero le sue lacune linguistiche: fu praticamente traumatizzato dalla questione dell'Istituto Rossi.
Ciò perduro fino a quando la maestra, sospetta di questo comportamento, lo richiamò. Giovanni si avvicinò alla cattedra e guardò gli occhi della maestra: aveva uno sguardo penetrante e pieno di malvagità. Giovanni si sentì spaventato. La maestra gli disse: <<Giovanni, parlami un po' di te visto che non conosco ancora la tua voce...>> Giovanni, con un filo di voce, pronunciò alcune parole in napoletano e poi si fermò, non volle più continuare, aveva timore di essere cacciato anche da qui. La maestra si infuriò e disse: <<Non sai nemmeno parlare? Vergognati.>> Gli applicò l'orecchio di carta e gli fu inferta un'umiliazione. Successivamente, Giovanni notò che la maestra nei giorni successivi lo puniva anche per motivi futili. Addirittura, gli proibì di uscire di casa nel pomeriggio con gli amici, in pratica non doveva farsi vedere per strada. La maestra chiese la collaborazione di due alunne che abitavano nello stesso quartiere che facevano da sentinelle, dovevano riferire nel caso lo avessero incontrato per strada. Da quel momento iniziò un vero e proprio incubo per Giovanni, riusciva ad accettare tutto, anche le più umili punizioni, ma non il fatto di dover restare chiuso in casa. La maestra detestava gli scugnizzi, non gli dava vita facile e in nessun modo si adoperava per recuperarli. Pensava solo a reprimerli, li guardava come appestati. Il suo metodo però era inefficace, il suo comportarsi negativamente nei confronti degli scugnizzi li rendeva solamente più ribelli. Giovanni seguì il suo istinto da scugnizzo, non diede ascolto alla maestra. Infatti, un pomeriggio stava passeggiando per strada e ad un certo punto incontrò la maestra. Lei lo guardò con un'aria sorpresa perché credeva Giovanni avesse obbedito ai suoi ordini. Giovanni avvertì nel suo sguardo un'aria oscura; si fermò per un attimo, la guardò e scappò via. Preferì non dire nulla a sua madre perché era convinto che il problema fosse lui. Giovanni raccontava solo gli avvenimenti più lievi a sua madre, preferì nascondere quelli più gravi. Sua madre decise infatti di non fare nulla, forse perché non credette totalmente nelle parole di Giovanni. Il giorno successivo Giovanni si recò a scuola. La maestra disse che quel giorno sarebbe stata attuata un’ispezione degli alunni per verificare lo stato di pulizia personale. Fecero mettere tutti i bambini in fila indiana fino ad arrivare alla bidella che fungeva da esaminatrice improvvisata. Questa guardava tra i capelli per verificare che ci fossero pidocchi e nelle orecchie. Accanto alla bidella c'era proprio lei, la maestra, che non vedeva l'ora che la bidella controllasse Giovanni. A Giovanni venne voglia di scappare e non tornare più in quell'inferno. Quando arrivò il suo turno, la bidella gli guardò tra i capelli e riferì che non c'erano pidocchi, disse però che erano sporchi e bisognava lavarli. Guardando nelle orecchie, richiamò l'attenzione della maestra per mostrare che erano sporche di cerume. Al che Giovanni fu spinto e tutti gridarono: <<Tu sei sporco!>>. Tutti gli alunni fissavano Giovanni, si sentì umiliato e fu costretto a stare in un angolo con le braccia alzate per diverso tempo. Quella punizione scaturì in lui un odio profondo verso le istituzioni. Ebbe la forza di non piangere e più soffriva e più cresceva in lui l'odio. Senza dire nulla, quando finirono le lezioni, raccolse tutte le sue cose e andò via. Ad un certo punto si girò, guardò la maestra con un'aria da sfida, quasi a trasmettergli un silenzioso <<Tu la pagherai>>. Quando arrivò a casa, scoppiò a piangere e finalmente trovò la forza di raccontare tutto a sua madre, che questa volta non esitò a credergli. Lo fece sedere e lo tranquillizzò, gli disse che l'incubo sarebbe finito e che la maestra avrebbe dovuto fare i conti con lei. Il giorno successivo, Giovanni fu accompagnato dalla mamma a scuola. All'entrata la bidella proibì l'ingresso a sua madre in quanto non aveva fissato alcun appuntamento. La madre però le se avvicinò e con una voce sottile le disse: <<Fatti da parte, altrimenti ti prendo a calci in culo>>. La bidella rimase lì ferma e li lasciò entrare. Ogni passo che faceva sua madre sembrava rimbombare nella testa di Giovanni. Percorsero un corridoio e in fondo c'era la porta dell'aula. Man mano che si avvicinavano, il cuore di Giovanni batteva sempre più forte, aveva sete di vendetta e desiderava più di ogni altra cosa che la maestra pagasse per le cattive azioni inflitte a lui e a tutti gli scugnizzi appartenenti a quella classe. La madre non bussò, aprì la porta e si scagliò contro la maestra come un ariete. Era infuriata; le mise le mani addosso e gli disse numerose parolacce. La maestra subiva inerme gli attacchi d'ira. Il tutto accadeva davanti ai bambini che rimasero lì ad osservare. Le urla forti attirarono la direttrice che si recò velocemente in classe per placare gli animi. Dopo pochi minuti, la madre di Giovanni fu calmata e la direttrice, pur di non perdere un alunno (cliente), promise di fargli cambiare sezione, così da non avere più rapporti con quella maestra. Il trasferimento avvenne immediatamente. La mamma si girò guardando la maestra e gli disse: <<Mio figlio è uno scugnizzo non un animale. Solo se proverai a guardarlo, io verrò qui e ti butterò giù dalla finestra>>. La maestra annuì. La direttrice accompagnò Giovanni nella nuova sezione. I compagni lo guardavano con aria meravigliata. La direttrice bisbigliò all'orecchio della nuova maestra e Giovanni fu fatto sedere in un banco infondo alla classe, del tutto isolato. Da quel giorno a Giovanni non fu mosso neanche un capello, ma fu emarginato. Giovanni si abituò a questi atteggiamenti. Andava a scuola a testa alta e orgoglioso di essere scugnizzo e inalterando i suoi sentimenti di disprezzo verso gli organi istituzionali. L'unico luogo dove si sentiva a suo agio era la strada. Giovanni si recava spesso da onna Carmela: una donna zitella, aspettava sempre il suo fidanzato americano che ai tempi di guerra le promise che sarebbe ritornato per sposarla, ma ciò non avvenne mai. Abitava in un basso adibito a bottega. Un giorno Giovanni stava entrando nel basso e incontrò una ragazzina, intenta ad acquistare mezzo chilo di pasta e una scatoletta di salsa. Era molto esile, dai capelli neri e corti e due occhioni. Sembrava essere molto sveglia. Giovanni vi si avvicinò e disse: <<Ciao io mi chiamo Giovanni. Sono uno scugnizzo del quartiere.>>. Lei fece un grosso sorriso e disse: <<Ciao io sono Ninetta, abito anche io nel quartiere ma non sono una scugnizza>>. Rideva, sapeva bene che ad una ragazza non era permesso essere una scugnizza. Poteva anche avere atteggiamenti simili, ma non sarebbe mai potuta entrare nella banda. La forza apparteneva solo agli uomini, la donna era considerata inferiore e doveva limitarsi a "fare la donna". A Giovanni piacque fin da subito e le chiese di giocare insieme. Ninetta rispose: <<Sai bene che non possiamo giocare insieme, tu sei un maschio e io sono una femmina. Ma non si sa mai. Ciao>>. Con un sorriso lo salutò, prese le sue cose e scappò via. Giovanni rimase incantato dalla vivacità di Ninetta. onna Carmela si mise a ridere e disse: <<Guagliò, ti piace la piccolina Ninetta vero? Sappi che è una fanciulla che ha molti problemi. Suo padre lavora saltuariamente in una fabbrica di scarpe e sua madre ha problemi psichici. Insomma, non se la passano bene, che dio li aiuti.>> Giovanni prese le sue cose e si incamminò verso casa. Pensò molto a Ninetta, voleva fare qualcosa per lei, così pensò di inserirla nella banda. Ne parlò con Franco che fu contrario all'iniziativa. Successivamente si recò da Mariolino: sapeva bene che il capo era saggio e che avrebbe preso la giusta decisione. Spiegò che Ninetta era una ragazzina, ma i suoi capelli e i suoi atteggiamenti erano considerati da maschio. Chiese se potesse unirsi alla banda, ma lui rispose: <<Giovà, ma lei sa di questo?> Giovanni < No, ma sono certo che lo vorrebbe. È una ragazza fantastica, ma ha gli occhi tristi, la voglio aiutare.>> Mariolino replicò: <<Ascolta, sai bene che una femmina non può stare con noi, dobbiamo anche dar conto alla nostra reputazione. Pensa cosa penserebbero le altre bande... hanno messo una femmina perché sono deboli.>> Nonostante ciò, volle ugualmente conoscerla: <<Portala qui, la voglio vedere.>> Giovanni si appostò per diversi giorni nei pressi del basso di onna Carmela, era l'unico luogo in cui avrebbe potuto incontrarla. Finalmente la incontrò: Giovanni si fece avanti e fece fatica a parlare. Era molto entusiasta dell'incontro e disse: <<Ninè, hai da fare?>>. Lei rispose: <<Devo solo comprare alcune cose e tornare a casa>>. Giovanni aspettò che comprasse le sue cose e poi la accompagnò a casa. Abitava in un basso molto modesto che lasciava trasparire le condizioni economiche disastrose. Guardò sua madre: era una signora magra dallo sguardo inespressivo e rivolto verso il vuoto. Giovanni rimase perplesso e si convinse sempre di più di aiutare Ninetta per permettere di guadagnare qualche soldo insieme a loro, magari poteva aiutare la sua famiglia. La condusse da Mariolino che le pose alcune domande, quasi come un interrogatorio. Rispose con decisione. Mariolino le disse: <<Potrai stare con noi solo per giocare o per guadagnare qualche soldo mentre per le cose più importanti dovrai stare fuori.>> La decisione fu accolta con gioia da Giovanni e Ninetta che senza pensarci neanche un istante non esitò a buttarsi tra gli scugnizzi, nonostante il suo ruolo marginale. Giovanni presentò Ninetta ai suoi amici più stretti: Marco, Gigino e Pietro che accolsero la nuova arrivata con gioia, poi si recò da Enzo e Luigi, anch'essi soddisfatti. Franco non mostrò molta felicità, era il suo carattere, anche se in realtà faceva piacere anche a lui. Giocavano tutti i giorni insieme fino all’arrivo del padre di Mariolino on Carmine, era un venditore ambulante di scarpe. Allestiva ogni giorno per strada la sua bancarella dove esponeva scarpe per uomo e donna. Si serviva di un triciclo Ape Piaggio per trasportare le proprie scarpe da casa fino alla strada. Faceva il proprio lavoro con molta allegria nonostante le tante difficoltà a dover sfamare cinque figli. Un giorno, al ritorno a casa, parcheggiò momentaneamente il furgone fuori casa. Stava iniziando a scaricare le scatole per rimetterle nello sgabuzzino quando all'improvviso due moto di grossa cilindrata con quattro uomini a bordo percorsero il vicolo rapidamente, finché il loro passaggio non fu ostacolato dal furgone. Questi uomini indossavano dei Jeans, occhiali neri, giubbotti in pelle e avevano barbe folte. Accelerarono fortemente per far capire che volevano passare senza perdere tempo, sembrava che andassero di fretta.
Giovanni, Ninetta e Franco si trovavano a pochi metri, rimasero lì fermi ad osservare senza muoversi. Capirono subito che On. Carmine stesse correndo un grosso pericolo e avvertirono subito Mariolino che andò immediatamente da suo padre ad intimarlo di spostare rapidamente il furgone per dare la possibilità a quegli uomini di passare. Mariolino corse, arrivò vicino casa sua, al che fu chiamato da uno dei due uomini: <<Guagliò digli al proprietario di questo catorcio di spostarlo velocemente, che andiamo di fretta>>. A quel punto, anche Mariolino intuì che erano uomini di Camorra mai visti in giro, venivano dalla periferia. E quando venivano in città, era solitamente per effettuare esecuzioni. Suo padre, proprio in quel momento, uscì dal portoncino di casa. Era arrabbiato, perché erano due giorni che non aveva venduto nemmeno un paio di scarpe, non aveva guadagnato nemmeno i soldi per comprare il latte ai propri figli. Si rivolse a quegli uomini con decisione: <<Se andate di fretta, fate il giro del vicolo successivo che qui abbiamo da fare. Oggi non è giornata>>. All'improvviso uno di quegli uomini scese dalla moto, si avvicinò ad On Carmine e gli diede un grosso schiaffone, che gli provocò la caduta degli occhiali e la fuoriuscita di sangue dal naso. Tirò fuori una pistola e gliela puntò alla fronte: <<Stai a sentire, se non ci fai passare oggi ammazziamo anche a te>>. Mariolino, piangendo, implorò suo padre di farlo alla svelta. On. Carmine rimase per pochi secondi stordito, realizzò che stava rischiando la vita e immediatamente spostò il furgone lasciando un varco laterale per permettere il passaggio delle due moto. Gli uomini andarono via sfrecciando e Mariolino in lacrime abbracciò suo padre.  In quel momento Giovanni vide che il capo degli scugnizzi, colui che era coraggioso ed invincibile e risolutore di ogni questione, si era rivelato fragile e impotente contro una forza maggiore. Rivolse lo sguardo a Franco e disse: <<Franchetié hai visto? Il nostro capo si è dimostrato debole, doveva reagire!>> Franco rispose: <<Se avesse reagito, sarebbe stato ucciso senza pietà, ricordati che sono loro che comandano, i camorristi, e a loro bisogna sempre chinare la testa>>. Ninetta, spaventata, scappò via. Giovanni quel giorno scoprì che non erano gli scugnizzi che avevano la città in mano, venne a conoscenza che esisteva la camorra. Credeva che gli scugnizzi fossero le uniche persone che gestivano la strada, ma non si rese conto che erano solo ragazzini. Gli adulti, quelli della camorra, girano quasi con gli stessi principi, ma con mezzi ben diversi. Il giorno successivo, Giovanni si recò da Mariolino e volle sapere di più sulla camorra. L'interpretazione di Mariolino fu totalmente a loro favore e spiegò che bisognava obbedirgli da qualunque parte arrivassero e di non contraddirli mai. Ma a questa risposta Giovanni avvertì solo un senso di sottomissione. Nel settembre del 1980 mancavano pochi giorni alla festa del santo patrono di Napoli San Gennaro. È celebrato il culto ogni anno: gli scugnizzi si radunavano per assistere al miracolo di San Gennaro, considerato il protettore della città, salvò Napoli dall'eruzione del Vesuvio. Il rito liturgico veniva seguito con attenzione.

Il vescovo innalzò davanti a tutti i fedeli l'ampolla al cui interno vi era il sangue di San Gennaro. Il giorno 19 settembre 1980, Giovanni si recò anch'egli, insieme alla sua banda, al Duomo per assistere alla funzione. L'evento era molto atteso, vi era una mole enorme di persone. Ad un certo punto vi fu un silenzio surreale: Corrado Ursi, il vescovo di Napoli si presentò davanti ai fedeli, alzò l'ampolla, la ruotò, ma il sangue non si sciolse. La gente invocava al miracolo. Giovanni era vicino a Franco e Ninetta: non aveva la consapevolezza dell'importanza del miracolo, era avvilito e in mezzo a tra tutta quella gente chiese a Franco: <<È così importante questo miracolo?>> ed egli replicò: <<Certo, è importantissimo, se non lo fa succederà qualcosa alla nostra città. San Gennaro è colui che ci protegge.>> Giovanni teneva la mano stretta a quella di Ninetta, per evitare che si potesse perdere tra la gente. Il vescovo, dopo vari tentativi annunciò al pubblico che il sangue nell'ampolla non si era sciolto, e di conseguenza il miracolo non era avvenuto. Piombò nuovamente un silenzio tombale: la gente era incredula e spaventata. Alcune persone iniziarono a scappare, provocando un panico generale. La paura si calò tra il popolo napoletano. Sapevano bene che quello era un presagio di qualcosa di brutto che sarebbe accaduto di lì a poco, senza però sapere cosa. La banda si separò tra la gente, alcuni seguirono Mariolino, mentre Giovanni e Ninetta furono messi al sicuro da Franco che li portò con sé mano nella mano in un vicoletto adiacente a via Duomo. Si incamminarono per l'Anticaglia per dirigersi ai Quartieri Spagnoli. C'era gente che urlava per strada e dai balconi. Qualcuno preparava i bagagli per allontanarsi da Napoli. Giovanni era spaventato e teneva stretta la mano di Franco contemporaneamente a quella di Ninetta, anch'essa spaventata. Rientrarono al piazzale dove trovarono tutti gli scugnizzi radunati. Giovanni accompagnò Ninetta a casa e le raccomandò di uscire il meno possibile. Ritornò al piazzale dove Mariolino annunciò quello che ormai sapevano tutti, il miracolo non era avvenuto e qualcosa di brutto doveva accadere.
Bisognava stare in allerta e rimanere uniti. Mariolino fece visita ai capi banda rivali e propose una tregua per rimanere uniti ed affrontare la sciagura che San Gennaro aveva preannunciato. Aderirono tutte le bande a questa iniziativa, c’era molta preoccupazione e le giornate trascorrevano velocemente. Il popolo Napoletano era lì ad aspettare rassegnato e in silenzio, ma non mancavano le guerre tra i clan camorristici. Loro non si risparmiarono e le feroci faide lasciavano a terra cadaveri morti uccisi da arma da fuoco, erano momenti difficili. Gli scugnizzi cercarono di distrarsi occupando il loro tempo a giocare e svagarsi, la tregua li trasformò in fanciulli. Nonostante fosse il mese di settembre, faceva ancora caldo e approfittavano per passare le giornate sugli scogli del lungomare Caracciolo a fare i bagni e prendere il sole.

Giovanni si improvvisò pescatore: trascorreva intere giornate con on Peppe, il papà di Ninetta. Dati i tempi, bisognava distrarsi il più possibile. Gli scugnizzi facevano il bagno in mutande, si giocava e scherzava quasi a esorcizzare la paura che incombeva nei loro animi. Non esistevano territori, né avversari né nemici, c’erano gli scugnizzi uniti sotto lo stesso destino. La domenica Giovanni e Franco andavano allo stadio S. Paolo a vedere gli ultimi 15 minuti di partita del Napoli, aprivano i cancelli ed era possibile entrare gratis. Incitavano il loro idolo Ruud Kroll: era un giocatore fuoriclasse olandese considerato l’idolo dei Napoletani, con lui i Napoletani speravano di vincere lo scudetto, che purtroppo non fu mai vinto. Venne l’inverno e con esso il periodo Natalizio. Quel giorno del 23 novembre del 1980, Giovanni con la sua famiglia e altri parenti fecero una “scampagnata” ovvero una gita al Santuario di Montevergine nella zona Irpina. Il destino fu clemente con loro: appena fecero ritorno a Napoli iniziò a tremare la terra. Giovanni stava insieme a suo cugino Luigi per comprare un ovetto Kinder, inizialmente ebbe la sensazione di avere un malore, si trattava invece del violento terremoto. I due furono caricati in macchina da alcuni passanti che li portarono in un piazzale lontano dagli edifici.  Giovanni piangeva e al contempo chiedeva dei suoi genitori che arrivarono in secondo momento. C'erano feriti, persone che si disperavano, alcuni edifici crollarono come se fossero fatti di carta, per fortuna distanti dalla gente. C’erano grida di giubilo, il panico creò una situazione fuori controllo, le persone scappavano ma non sapevano dove andare, ognuno cercava riparo e le piazze erano gremite di gente. Uomini in pigiama, donne in vestaglia, bambini seminudi cercavano di mettersi in salvo.  Finita la prima scossa calò un silenzio assordante. Gli edifici che restarono in piedi avevano delle enormi crepe, alcuni piangevano perché non vedevano i loro cari. Quel giorno era giunto, San Gennaro aveva colpito, Napoli aveva subito anch’essa il terremoto che partiva dalla zona Irpina, il santo lo aveva preannunciato ma nonostante tutto solo i più facoltosi riuscirono a lasciare la città, il resto della popolazione invece rimase lì ad aspettare il proprio destino. Ninetta, insieme a sua sorella e i suoi genitori riuscirono a mettersi in salvo. Mariolino era tutto sporco di polvere, ma per fortuna in salvo. Fece un rapido giro tra i vicoli per ritrovare i suoi compagni. Incontrò Enzo che gli riferì che c’erano persone ancora nelle proprie abitazioni, che si rifiutavano di uscire: avevano la convinzione che fossero al sicuro e soprattutto volevano difendere quelle poche cose materiali che ancora gli rimanevano. Bisognava convincerli ad uscire e a metterli in salvo. La maggior parte delle persone tornarono nelle loro abitazioni solo per recuperare sedie, coperte e brandine, faceva freddo e bisognava passare la notte in piazza ad aspettare che le autorità venissero ad aiutarli. Fu la notte più lunga per i Napoletani: Piazza del Plebiscito era un dormitorio a cielo aperto, qualcuno girava con la macchinetta del caffè per offrirlo a tutti e per fornire un po’ di conforto, un po’ di legna accesa dava quel po’ di calore.

Giovanni trascorse la notte nella macchina di suo padre, era una Fiat 127, i sediolini in pelle gli davano un senso di nausea. Mariolino riuscì a incontrare tutti gli scugnizzi, ne mancavano solo tre all’appello e venne a sapere successivamente che si trovavano all’ospedale dei Pellegrini, per fortuna però in buone condizioni. Arrivarono notizie che dalla zona dell’Irpinia c’erano tanti morti e gli aiuti tardavano ad arrivare, lo sgomento e la rassegnazione calò tra la gente, quella luna piena quella notte sembrava piangere e osservare quella povera gente sofferente lì al freddo senza sapere cosa fare, ma bisognava pensare alla sopravvivenza e null’altro, il popolo Napoletano già abituato a vivere di stenti e ad arrangiarsi fece appello a tutta la propria esperienza. Il giorno successivo arrivarono le autorità che distribuirono viveri e coperte, alcune famiglie andarono da parenti fuori città che riuscirono ad ospitarli, altre famiglie furono sistemate provvisoriamente in container costruiti in fretta e furia, alcune riuscirono a prende possesso delle proprie abitazioni giudicate agibili dalle autorità, alcune furono sistemate in edifici pubblici, scuole, uffici, etc.  Erano luoghi chiusi e giudicati sicuri, sicuramente migliori della strada. Il terremoto aveva colto impreparato le autorità che con mezzi limitati cercava di arginare il più possibile la catastrofe. Non esisteva la Protezione civile, ci fu bisogno dell’esercito; i “Fanti” dell’esercito italiano insieme ai Vigili del Fuoco e alle forze di Polizia si adoperarono al meglio. La situazione era disperata ancor più in Irpinia che contava circa 200.000 morti. Tanti alloggi rimasero disabitati e con essi denaro ed oggetti. Franco non perse l’occasione per approfittare di questa situazione, si organizzò insieme a Enzo e Luigi, formarono una squadretta all’oscuro del loro capo Mariolino con l’intento di introdursi nelle abitazioni abbandonate e portare via denaro e oggetti di valore. Questa iniziativa fu portata avanti anche da altri scugnizzi e persone adulte, era un’occasione da non perdere, volevano a tutti costi uscire dalla miseria derubando altra povera gente. Il giorno 8 Dicembre 1980 per strada c’era poca gente, Franco, Enzo e Luigi individuarono un’abitazione al primo piano con il balcone con le ante aperte, Franco si arrampicò aggrappandosi al tubo delle condutture idriche e balzò nell’abitazione portando via con sé 300.000 lire e un orologio di valore, nel frattempo Enzo e Luigi facevano da vedette. Il bottino fu cospicuo tanto che spinse i tre a commettere altri furti, ignari del fatto che la Prefettura era stata già avvertita dei ricorrenti furti nelle abitazioni. Ci fu un’intensificazione di controlli da parte di Poliziotti in “borghese” con abiti civili in modo da non essere facilmente individuati. Giravano nei vicoli fingendosi abitanti. Oltre a proteggere i beni delle persone bisognava anche salvare la vita dei ladri in quanto si trattava di edifici dichiarati non agibili e pericolanti. Questa volta Franco aveva mirato all’abitazione di un noto commerciante del quartiere, per cui si ipotizzò un cospicuo bottino. I tre si incamminarono ma furono presto intercettati da due poliziotti in borghese, i quali li seguirono senza farsi notare. Franco si arrampicò e si introdusse in casa, Luigi e Enzo furono bloccati dai Poliziotti e intimarono Franco a scendere e a consegnarsi, Franco non accennò a nessuna fuga: si consegnò alla legge in silenzio, i suoi sogni di uscire dalla miseria in tempi rapidi si era infranto, non immaginava cosa lo stesse aspettando e non riusciva a pensare.

L’amarezza e la delusione lo ammutolì. Luigi e Enzo piangevano; forse perché già consapevoli di cosa gli aspettasse. Furono portati in Questura e subito trasferiti nel carcere minorile “Filangieri”. La notizia fece subito il giro del quartiere e arrivò presto a Mariolino che apprese con tristezza. Rimase deluso soprattutto dal fatto che il tutto era stato svolto di propria iniziativa senza aver chiesto il permesso e senza aver diviso i proventi con la banda. Franco era uno scugnizzo fortemente assetato di denaro: credeva che rubare fosse l’unico modo per ottenere il riscatto. Tanti altri scugnizzi di diverse bande furono acciuffati dai poliziotti: il carcere era pieno. Le istituzioni riuscirono ad arginare il fenomeno dei furti, il quale era in forte espansione in quanto i guadagni erano alti.  Un giorno tre poliziotti bloccarono due scugnizzi, ma furono assaliti dagli abitanti del quartiere che permisero ai due scugnizzi di mettersi in fuga. La gente era stremata ed esausta, aveva perso fiducia nelle istituzioni; li giudicavano nemici e il distacco tra loro si evidenziò ancora di più. La repressione da parte dello stato non fece bene alla popolazione. Il Natale del 1980 portò solo fame e disperazione, gli aiuti arrivavano ma erano insufficienti alla popolazione, mancava tutto; i pochi beni alimentari distribuiti quali pasta e pezzi di formaggio andavano prelevati recandosi con mezzi propri al piazzale adiacente allo stadio S. Paolo, spesso con file lunghe ed estenuanti. La befana non portò nessun dono agli scugnizzi la notte del 5 gennaio 1981, i genitori non lavoravano da mesi, la maggior parte svolgeva lavori in nero privi di tutele e di conseguenza non c'erano soldi per poter esaudire i piccoli desideri dei propri figli. Giovanni ai tempi frequentava le scuole elementari nella chiesa del quartiere; il prete aveva messo a disposizione la chiesa per far sì che le lezioni continuassero in modo da portare avanti, in parte, una vita quotidiana apparentemente normale. Giovanni con la sua famiglia si trasferì nel quartiere di Capodimonte presso l'abitazione di sua nonna Paterna. La loro abitazione era stata dichiarata non agibile. Tutti i giorni sua madre prendeva l’autobus e lo portava in chiesa a fare lezioni ai Quartieri Spagnoli. In una piccola stanza c'era un grosso tavolo e tutt'intorno tanti ragazzini seduti poco distanti l'uno dall'altro. Era uno scenario surreale, vedere Napoli ridotta in quelle condizioni. Un giorno, uscendo dalla chiesa, Giovanni incontrò Ninetta che gli riferì che la sua famiglia era stata sistemata nell'edificio della vicina scuola elementare. Inoltre, gli riferì che Franco, Luigi ed Enzo erano stati rinchiusi nel carcere minorile Filangieri per furto. Questa notizia turbò Giovanni, al punto che nei giorni successivi incontrò Mariolino per chiedergli quando sarebbero usciti dal carcere. Mariolino replicò: <<Devono fare almeno sei mesi. Praticamente, usciranno ad agosto.>> Così si organizzarono per scrivere una lettera da inviare al carcere. Strapparono alcuni fogli da un quaderno di scuola, comprarono il francobollo e scrissero la lettera, che fu successivamente imbucata. Per acquistare i francobolli, Giovanni spese circa l'equivalente di due paghette, che ammontavano a mille lire a settimana. La lettera non mancò di risposta: anche Franco scrisse, e riferì che Luigi ed Enzo erano in sofferenza, mentre Franco riferì del suo sentimento di vendetta nei confronti delle istituzioni, evidenziando l'assenza di pentimento. La sua rabbia era dovuta dal fatto che la sua reclusione non gli permetteva di aiutare la famiglia, la quale pativa la fame. Il giorno 15 agosto 1981 la banda si riunì, la crisi del terremoto sembrava stesse "andando via": molti edifici furono riparati o dichiarati agibili. I venditori ambulanti affollavano i vicoli di Napoli, sembrava stesse tornando l'ambita normalità. Mariolino e una decina di scugnizzi, tra cui Giovanni, si recò dinanzi al portone del carcere. Alla sua apertura, uscirono Franco, Enzo e Luigi. Erano anche presenti i rispettivi genitori, ma non quelli di Franco. Mariolino gli si avvicinò e disse: <<Bentornati scugnizzi, bentornati tra noi.>>. Ci furono abbracci di commozione. I tre avevano appena lasciato quella che doveva essere una struttura rieducativa, per tornare ad essere scugnizzi. Si incamminarono, e lungo la strada, i commercianti donavano i loro prodotti in segno di solidarietà, quasi a dire <<Noi siamo con voi, non con lo Stato.>> L'abbraccio tra Giovanni e Franco fu intenso, Giovanni tra le lacrime disse: <<Nun m'lassà chiù!>>. (non mi lasciare più) Franco fece un piccolo sorriso e disse: <<Noi diventeremo grandi scugnizzi, vedrai.>> Fu un giorno indescrivibile. Lungo la strada incontrarono Ninetta, che era lì ad aspettarli. Tornarono nel piazzale, era una giornata calda. Mariolino si rivolse a tutti gli scugnizzi e disse: <<Che questo ci serva come lezione, da adesso in poi cercate di non fare troppi guai! Altrimenti fate la fine loro.>> Franco espresse la sua ribellione in merito e disse: <<Non dobbiamo accontentarci delle briciole: bisogna fare cose grandi per guadagnare tanto, abbiamo le famiglie che hanno bisogno!>> Mariolino lo affrontò senza indugi: <<Bisogna fare quello che dico io. Non si discute.>> Ci fu uno sguardo di sfida tra loro. La cosa più triste fu che altri giovani che erano stati reclusi in quel carcere pentiti delle loro azioni decisero di andare a lavorare e lasciare la vita da strada, ma appena sentivano che avevano precedenti penali nessuno offrì a loro un lavoro stabile e serio, furono abbandonati a se stessi e a ritornare a fare la vita da strada contro la loro volontà, spazzati via dalla società civile senza nessuna possibilità di integrazione, gli unici che offrirono lavori furono i piccoli commercianti di quartiere ma erano lavoretti saltuari e provvisori, purtroppo era quello che riuscivano ad offrire a quei poveri ragazzi ormai marchiati per sempre.

Durante l'estate del 1982 erano in corso i mondiali di calcio in Spagna, la nazionale italiana iniziò nel peggio dei modi con tre pareggi contro la Polonia, il Perù e il Camerun, riuscì a qualificarsi con soli tre punti grazie alla differenza reti. L'Italia si accingeva ad affrontare nel girone successivo Argentina e Brasile, le squadre più forti al mondo. A Napoli c'era uno spirito diviso tra quelli che erano a favore della nazionale e quelli che non se ne sentivano parte. Giovanni era invece entusiasta: comprò un album di figurine e si fece cucire da sua madre una bandiera italiana con tre pezzi di stoffa riciclati, uno bianco, uno rosso e uno verde. Un giorno Giovanni incontrò Franco, che alla vista della bandiera gli diede uno schiaffo e disse: <<Giovà, sei un cretino, tu devi tifare solo Napoli non l'Italia. Tu sei napoletano non italiano, ricordalo.>> Giovanni replicò: <<Ma che dici? A scuola non hai imparato che Napoli è una città italiana?>> Franco rispose infastidito: <<Innanzitutto io non sono mai andato a scuola e poi Tu lo sai che in quella squadra che stai tifando non c'è un solo napoletano, e nemmeno uno che gioca nel Napoli? È vero che hanno scelto i migliori, ma ricorda che il Napoli nel campionato si è classificato al quarto posto, possibile che non ci sia un giocatore all'altezza? Potevano portare Bruscolotti, invece lo hanno lasciato a casa. Almeno uno, invece niente. Quasi a dire non vi vogliamo, non fate parte dell'Italia. Noi non siamo italiani: sappilo.>> Giovanni lo guardò, gli cadde la bandiera a terra. Valutò con attenzione il ragionamento di Franco che rappresentava il pensiero di tanti napoletani. Si ricordò che l'attore Bud Spencer in un’intervista dichiarò di essere Napoletano e non Italiano. C'era un po' di confusione, a scuola venivano insegnate cose contrapposte a quelle della strada. Un po' indeciso, Giovanni si recò da onn’Umberto, un uomo nato nel 1915 che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale in Africa. Quest'ultimo non aveva un avambraccio. Era un uomo molto chiassoso, simpatico e folcloristico, ma allo stesso tempo saggio. Abitava in un umile basso ai Quartieri Spagnoli. Raccontava sempre agli scugnizzi intenti ad ascoltarlo seduti in casa sua a terra con le gambe incrociate le sue avventure di guerra, affascinanti racconti che lasciavano senza fiato tutti. Raccontava i fatti in un modo così reale da sembrare di averli vissuti davvero. La vera guerra, quella vissuta, quella cruda. Aveva visto arti volare in aria, gente piangere. A volte i suoi racconti non combaciavano con ciò che veniva raccontato dai libri di storia.

Giovanni bussò alla sua porta ed egli lo accolse con felicità come sempre. Gli pose il dubbio che lo turbava, bisognava essere italiani o Napoletani? Onn'Umberto fece un sorriso e disse: <<Tu vai a scuola. Cosa ti hanno insegnato sui briganti dopo la cosiddetta unità d'Italia?>> Giovanni rispose che erano banditi e delinquenti. Onn'Umberto si alzò dalla sedia e disse: <<Sbagliato! Mio nonno, nato nel 1855 mi ha sempre raccontato la verità, quella che non c'è scritta in nessun libro di storia. I briganti erano patriottici che lottavano contro gli oppressori e invasori Savoia che occuparono la nostra terra portando via le nostre ricchezze, uccidendo innocenti e stuprando donne. Ecco la verità. Quella raccontata dalla gente, non quelle fesserie che si leggono sui libri stampati da case editrici del nord vendute ai corrotti!>> Giovanni chiese un po' di acqua e zucchero che gli fu offerta con un sorriso da onn'Umberto che aggiunse: <<Vivi con libertà la tua vita, ricorda!>> Giovanni rispose: <<Io sono libero!>> onn'Umberto rispose: <<Tu sei giovane, vedrai l'anno 2000, il mondo cambierà. Saremo schiavi della tecnologia, tutto questo limiterà la nostra libertà. La paura sarà la loro arma e con la paura vi renderanno schiavi, vi metteranno contro l’uno con l’altro creando concorrenza tra di voi senza nemmeno che ve ne accorgiate>>
Giovanni disse: <<Cosa ci aspetta?>> Si alzò di balzo dalla sedia e scappò via, senza raccontare a nessuno di quanto ascoltato. Quasi rassegnato, sposò il pensiero di Franco, prese la bandiera italiana, la strappò e si fece realizzare un’altra bandiera con un pezzo di stoffa azzurro e con un pennarello scrisse: <<Forza Napoli per sempre>>. Affisse la bandiera alla finestra di sua nonna, per dimostrare di non essere italiano, ma bensì napoletano. In quel periodo, finalmente il loro edificio ricevette il certificato di agibilità e riuscirono fare rientro nell'abitazione. La casa aveva qualche crepa, ma nulla di grave. Nel luglio del 1982 l'Italia vinse i mondiali di calcio. Parte della popolazione scese per strada per festeggiare, mentre un'altra porzione rimase a casa per dimostrare la propria contrarietà. Franco profittò anche di quest'occasione per intrufolarsi tra i festeggiamenti e sfilare i portafogli dalle tasche delle ignare vittime. Proprio in quell'occasione il padre di Giovanni vinse al Totoamici (era un gioco che ogni concorrente giocava la sua schedina, chi accumulava più punti a fine campionato vinceva un monte premio in denaro) una somma di tre milioni di lire che gli permisero di ristrutturare il bagno di casa. Con il restante denaro affittarono una casa al mare a Castel Volturno per tutto il mese di agosto. Giovanni convinse suo padre a portare con loro in vacanza anche Gigino, il suo caro amico. Quest'ultimo era molto povero e non era mai stato al mare. Aveva delle piaghe sotto i piedi dovute alla scarsa igiene e alle scarpe scadenti indossate. Onn'Antonio, il padre di Giovanni non esitò ad accettare e a sue spese decise anche di curargli i piedi e comprargli un paio di scarpe adeguate. A Giovanni fu impedito di portare con sé Franco in vacanza, i suoi genitori non lo vedevano di buon occhio. Prima di partire, Giovanni salutò tutti i suoi amici scugnizzi, tra cui Ninetta. Il primo di agosto, tutti nella macchina, partì. Era un luogo dove tutti i parenti ed amici della famiglia dei genitori di Giovanni andavano. Affittavano un appartamento in una palazzina a due piani, al primo piano c'era la palazzina di Giovanni, mentre al secondo quella di Mariolino, insieme alla sua famiglia. Giovanni portò con sé la sua bicicletta, che suo padre aveva acquistato al costo di cinquemila lire. Giovanni era molto eccitato, il fatto di fare le vacanze con il capobanda era motivo di vanto, gli dava lustro. Una volta arrivati, onn’Antonio disse a Giovanni e Gigino: <<Ragazzi, c'è una sola bicicletta e voi siete in due. Giovà, anche se è tua dovrete condividerla, anche lui ha il diritto di giocare.>> Per suddividere equamente il tempo di gioco, i ragazzi si ingegnarono e costruirono una clessidra artigianale con una bottiglia riempita d'acqua attaccata alla bicicletta, che cominciava a gocciolare alla partenza di quest'ultima. Il completo svuotamento della bottiglia indicava la fine del turno.
Furono giornate belle e spensierate, l'aria d'estate metteva di buon umore e quel luogo faceva dimenticare i tanti problemi che c'erano a Napoli. Gigino, dopo una settimana manifestò un senso di nostalgia nei confronti della sua famiglia, anche se si stava in realtà divertendo. Giovanni ne parlò con suo padre, che si adoperò per accompagnarlo a Napoli nel caso in cui volesse tornare. Un giorno, Giovanni e Gigino stavano facendo ritorno a casa dal mare a piedi. Si incamminarono in un viale colmo di gente, perdendosi successivamente di vista. Giovanni cercò Gigino ma non lo vide, pensò che stesse facendo ritorno a casa per cui decise di incamminarsi. Notò però che fu il primo ad arrivare. Dopo due ore; Gigino non fece ritorno, per cui decise di avvisare i suoi genitori che non esitarono a prendere l'auto e a cercarlo tra i viali di Castel Volturno. Lo ritrovarono in un viale che piangeva, si era perso. Lo recuperarono e lo portarono a casa. Gigino in lacrime e dispiaciuto, disse che sarebbe voluto tornare a Napoli, non riusciva a stare lontano dalla sua famiglia. Il giorno successivo, i genitori di Giovanni lo accompagnarono a Napoli. Oltre alla nostalgia della sua famiglia, a Gigino mancava anche la sua vita da scugnizzo. Giovanni trascorse il resto delle sue vacanze da solo. Il suo occhio attento notò che ad alcuni edifici mancavano le ferriate dei balconi, la sua curiosità lo portò a chiedere in giro la motivazione di ciò. Un passante gli rispose: <<Qui occupano le case. Il ferro poi se lo vendono>> Castel Volturno non era il massimo: mancavano molti servizi, non c'erano le fogne, l'acqua potabile non era disponibile e la delinquenza era dilagante. Purtroppo, però, per gli stessi motivi era anche molto economico, ed era quindi accessibile ad una buona parte dei napoletani. La famiglia di Giovanni non sapeva se avrebbe potuto permettersi una vacanza, ma erano certi che non sarebbero tornati a Castel Volturno, per quanto i prezzi fossero economici, la paura li tenne lontani dal luogo di villeggiatura a lungo. In quei tempi, ripresero la guainelle tra gli scugnizzi. C'erano molti palazzi con le "sopponte", ovvero dei muri costruiti per sostenere gli edifici, che restringevano ulteriormente i già stretti vicoli facilitando scippi e rapine. Si avvicinava il periodo natalizio. Giovanni e Ninetta stavano passeggiando in un vicolo quando all'improvviso sbucò un uomo sulla quarantina che correva, alle sue spalle vi era un altro uomo che lo inseguiva gridando: <<Sono un poliziotto!>> con una pistola in mano, intimandogli di fermarsi. L'uomo continuò a scappare, fino a quando il poliziotto non gli sparò un colpo alla gamba. Il tutto davanti ai due bambini, spaventati. Si posizionarono con le spalle al muro, indecisi sullo scappare a destra o a sinistra. Preferirono rimanere fermi, mano nella mano, ad assistere alla scena. Il poliziotto raggiunse l'uomo, che era ormai a terra immobilizzato e in sofferenza. Fu ammanettato e fu portato via da un'ambulanza chiamata dal poliziotto stesso. Appena andò via, Giovanni e Ninetta notarono che poco più avanti c'era una pistola. Evidentemente quell'uomo se n'era sbarazzato per evitare ritorsioni. La raccolsero e la consegnarono a Mariolino, che rispose: <<Me la vedo io per farla sparire.>>. Ovviamente, come è tipico dello scugnizzo, Mariolino la vendette al miglior offerente. La vita da scugnizzo riservava anche aspetti poco piacevoli, quella paura che bisognava reprimere a tutti i costi quando ci furono sanguinose lotte per contendersi gli alberi di Natale per il cippo di Sant'Antonio previsto per il 17 gennaio 1983. Ninetta trascorse le sue giornate in casa, lontana dai combattimenti in strada. Nella sua famiglia i ruoli erano invertiti, era lei a tenere d'occhio sua madre, in quanto le sue condizioni psichiche erano in netto peggioramento. Ormai non avevano più energia elettrica, perché non avevano pagato le bollette. Un giorno, suo padre On Peppe andò a trovare dei parenti a Ceccano per un lutto, lasciando Ninetta e sua moglie a casa da soli. La madre di Ninetta fu vittima di uno dei suoi attacchi di panico che la portarono ad abbandonare la casa senza dare spiegazioni, lasciando la piccola da sola, che al momento stava dormendo. Al suo risveglio, Ninetta realizzò che sua madre non c'era più. Si affacciò alla finestra ed iniziò a piangere, gridando. La sua voce attirò l'attenzione di una vicina di casa, che aprì la porta e porto con sé Ninetta. La fece dormire con loro al sicuro. Il giorno successivo, al ritorno del papà, vide che in casa non c'era più nessuno. Chiese alla vicina dove fossero andate sua moglie e sua figlia, e quest'ultima gli spiegò la situazione. On Peppe si arrabbiò e disse che ormai aveva chiuso con sua moglie. Stava portando diversi problemi e non ne poteva più, questo suo gesto portò alla rottura definitiva al rapporto tra i genitori di Ninetta. Ninetta fu portata dalla sorella di suo Padre: una donna molto magra, bassa e cattiva. Dalla stessa zia stava sua sorella. Andò in contro al suo destino in un appartamento di periferia destinato ai terremotati. La casa andò persa in quanto la lasciarono tutti, e fu ceduta ad un’altra famiglia. On Peppe lavorava in un garage vicino all'Ospedale San Gennaro nel Rione Sanità. In quello stesso garage c'era anche un piccolo stanzino munito di branda e bagnetto dove riusciva a passare anche la notte. Pochi giorni dopo, Giovanni si recò presso l'abitazione di Ninetta, ma notò che era chiusa da diversi giorni. Iniziò a preoccuparsi e si rivolse alla vicina chiedendogli dove fosse andata, quest'ultima gli rispose: <<Guagliò, Ninetta sta con sua sorella da una sua zia in periferia. Suo padre vive in garage e sua madre e andata via di casa e vive per strada. Purtroppo, la famiglia si è sfasciata, ma per fortuna Ninetta sta bene.>> Giovanni temeva di non poter più rivedere Ninetta, quel pensiero lo tormentava. Chiese conforto a Franco che non fu molto delicato e rispose: <<Giovà pensa che ora lei sta bene, qui con noi non stava bene.>> Giovanni era triste, ma allo stesso tempo era contento del fatto che Ninetta aveva un luogo sicuro dove stare. Purtroppo, la realtà era ben diversa, sua zia Filomena trattava molto bene sua sorella, ma disprezzava Ninetta. Sosteneva che lei non fosse la figlia di suo fratello, On Peppe e che la mamma la avesse concepita con un parente che la corteggiava. I tanti pettegolezzi spinsero la zia a credere a questa storia, e non riconoscere Ninetta come sua legittima nipote. Filomena era vedova e viveva con i suoi genitori. Aveva un figlio di nome Claudio. Tutti insieme vivevano con la pensione dei vecchi. I restanti si avvalevano di espedienti per poter arrotondare, la pensione dei genitori non era sufficiente a sostentare tutti, e la situazione peggiorò notevolmente con l'arrivo di Ninetta. Ninetta trovò subito un clima ostile nei suoi riguardi; sua zia gli fece subito pesare il fatto che rappresentava una bocca in più da sfamare. Non perdeva occasione per ricordargli il fatto che suo padre non contribuisse al suo sostentamento. Ninetta era carina e docile, sua zia Filomena era brutta già questo le rese ostile perché gelosa. I nonni tacevano davanti a queste azioni. Gli unici interventi erano del nonno, che saltuariamente diceva: <<Un giorno pagherai per tutto il male che stai facendo a questa piccola!>> Un giorno, arrivarono al punto che non c'era nulla da mangiare, neanche i soldi per acquistare del cibo. Zia Filomena guardò Ninetta e disse: <<Qua non c'è niente da mangiare, ci dobbiamo inventare qualcosa. La pensione arriva tra dieci giorni e non possiamo aspettare.>> Non perse tempo per organizzare una truffa con la collaborazione di Ninetta e Claudio; si spostarono in un paese periferico con la loro auto e individuarono una salumeria, vittima. Ninetta e Claudio si recarono in un portone nei pressi della salumeria, presero un cognome a caso dai citofoni e fecero un grosso conto a credito del cognome scelto. Una volta presa la spesa, sparivano. Era comune fare credito per comprare, soprattutto a causa delle diverse difficoltà economica; quindi, questo tipo di truffa aveva una buona possibilità di riuscita. A volte capitava che il cognome non coincideva con il cliente, in quei casi lasciavano i prodotti sul bancone e scappavano. Compirono diverse truffe presso diversi esercenti. Zia Filomena comprese subito che la piccola Ninetta era molto sveglia e capace e pensò subito a farle commettere azioni più eclatanti. Non si accontentò del cibo; mirò al denaro. Aveva trovato la gallina dalle uova d'oro. Utilizzò il ricatto per indurla a vendere sigarette di contrabbando da mendicante. Ninetta, da sola, era costretta ad incamminarsi con dieci stecche di sigarette nella Zona Industriale di Napoli, ricca di attività e con numerose persone intente ad acquistare sigarette.

La giovane età di Ninetta le permetteva di vendere più sigarette, in quanto non ci si limitava al semplice acquisto ma veniva anche considerata come una sorta di elemosina. Ninetta si trovò a sostenere una situazione più grossa di lei, soffriva, si sentiva sola ed abbandonata, ma non aveva nessuna intenzione di mollare. Nell'estate del 1983, le temperature raggiunsero quasi i 40 °C. Ninetta, sempre più affaticata, svolgeva il suo giro di vendita di sigarette. Si spingeva anche al porto e al mercato, ormai era conosciuta ovunque e a volte si recava nei "bigliardi" dove si incontravano gli uomini "'e miezz a vij" che erano propensi a dargli banconote di grosso taglio per invitarla a lasciare il luogo in quanto malfamato e considerato pieno di insidie per una piccola fanciulla. Gli veniva detto: <<Nennè, via via da qua. Questo posto non è per te.>> Ninetta a volte riceveva anche cinquantamila lire, somma sufficiente per lasciare tutto e tornare a casa con il bottino. Non riusciva a capire perché fosse stata abbandonata dai suoi genitori, suo padre promise che quanto prima sarebbe venuta a prenderla, ma sua madre decise di andare via senza più tornare. La sera, in silenzio, senza farsi sentire da nessuno, piangeva. Il periodo invernale, Ninetta guardava tanti fanciulli ben
coperti dal freddo che insieme ai propri genitori andavano a comprare i doni per l'epifania. Lei aveva abiti leggeri e scarpe sottili, soffriva il freddo, ma doveva comunque compiere il suo giro per portare i soldi a casa. Un giorno, il nonno gli disse che sua madre aveva deciso di fare la vita da barbona, la sua esistenza in piena povertà la faceva sentire libera da ogni pregiudizio, da ogni accusa e da ogni ordine. Era una donna mite, di poche pretese, nessuno gli aveva insegnato nulla della vita. Gli serviva solo che qualcuno glielo insegnasse, invece trovò solo cattiveria da parte dei suoi parenti, che non facevano altro che giudicarla. Suo padre usava atteggiamenti maschilisti: la umiliava in diversi modi, a volte gli chiedeva di avvicinarsi solo per dargli uno schiaffo, per poi ritornare alle faccende di casa. Zia Filomena vietò a Ninetta di frequentare la scuola e gli amici. Le tolse tutto ciò che la faceva sentire femmina. Gli concesse solo due umili vestitini. La spogliò di ogni diritto, ma non riusciva a toglierle la sua dignità. Ninetta eseguiva gli ordini a testa alta, mentre sua sorella veniva coccolata e godeva di tutti i privilegi, senza fare nulla per aiutarla. Nel luglio del 1984, due turisti tedeschi si trovarono presso i Quartieri Spagnoli e furono attratti dagli scugnizzi. Giovanni fu avvicinato da loro che fecero alcune domande. Gli chiesero il perché fossero sporchi, trasandati, con i pidocchi e con i denti gialli e gli chiesero perché giocassero per strada. Ci fu una lunga conversazione. Giovanni in parole povere gli spiegò cosa fosse uno scugnizzo e i turisti affascinati da questa figura, scattarono una foto ad una decina di scugnizzi.
Questi chiesero al tabaccaio vicino di distribuire agli scugnizzi le quindici copie della foto che sarebbero state sviluppate da loro in Germania. Le foto arrivarono, ogni scugnizzo ricevette la sua foto. Fu un momento di gioia, credevano di aver ricevuto fama in Germania; invece, i due turisti tedeschi documentarono il perché in Italia, quinta potenza mondiale, ci fossero ancora delle aree così sottosviluppate. Si sentivano degli idoli, riconosciuti da tutto il mondo. Franco non era presente nella foto, per cui sminuì la cosa: <<È solo una foto in bianco e nero fatta da due forestieri. Gli eroi sono gli scugnizzi che sanno guadagnare i soldi in piena libertà.>> In quel periodo girava voce, con diffuso scetticismo, del presunto acquisto da parte della squadra di calcio del Napoli del giocatore più forte al mondo; Maradona. C'erano tante persone convinte di ciò, nonostante fosse una notizia incredibile. Quando la notizia arrivò agli scugnizzi, rimasero per dieci minuti senza parlare, erano increduli. Ad un certo punto Giovanni esclamò: <<È impensabile, Maradona al Napoli>>, e ridendo, se ne andò via. Arrivato a casa, sentì parlare suo padre, che era molto competente di calcio: aveva un'aria seria e in quell'attimo percepì che forse qualcosa di grandioso stava accadendo alla città di Napoli. Solo a pensarlo gli venne la pelle d'oca. La mattina successiva, Giovanni andò a scuola e gli amici di classe non facevano altro che parlare di Maradona. Uno di loro iniziò a ripetere e a prendere in giro chiunque credesse in questa notizia, ma Giovanni non riuscì a star zitto e disse: <<Maradona è già del Napoli.>> Uno di loro gli chiese: <<Come fai a saperlo? Chi ti ha dato questa notizia?>> Giovanni rispose: <<Me lo ha detto mio padre, lui non si sbaglia mai.>> Ci furono grida di festeggiamenti in classe, nonostante avessero tutti la consapevolezza che in realtà di ufficiale non c'era proprio nulla. Ogni tardo pomeriggio, Giovanni andava all’edicola a comprare un quotidiano: "Le ultimissime" per avere aggiornamenti sulla trattativa in corso tra la Società Sportiva Napoli e il Barcellona tramite Antonio Juliano, direttore sportivo del Napoli. Maradona ormai era in rottura con il Barcellona, per cui si fece avanti il Napoli per acquistarlo. Il Barcellona chiese tredici miliardi di lire, con la convinzione che il Napoli non potesse permetterselo; invece, come spesso accade nella città di Napoli, ci fu un miracolo: i soldi c'erano, grazie anche all'aiuto del sindaco e del Banco di Napoli. Il presidente Ferlaino con molta astuzia riuscì a portare a Napoli il giorno 4 luglio 1984 il giocatore più forte al mondo. Ci fu la presentazione di Maradona allo Stadio San Paolo. Tra i vicoli c'erano bandiere, palloncini e canzoni dedicate a lui, era un vero e proprio clima di festa. Per gli scugnizzi era giunto il momento di conoscere il più grande scugnizzo del mondo, il morale era alle stelle: sembrava che i tanti problemi quotidiani non ci fossero più per i napoletani, si sentiva un'aria di speranza, di un possibile riscatto per tutti.
Questo sentimento fu recepito tantissimo, specie tra ceti più bassi. Le magliette di Diego Armando Maradona andavano a ruba, c'era gente che metteva l'orecchino come lo aveva lui, si facevano anche acconciature come le sue. In quel periodo, molti neonati furono chiamati Diego in suo onore. Incoronato dal popolo napoletano il re di Napoli. Quel giorno Maradona si presentò allo stadio gremito, non tutti gli scugnizzi ebbero la fortuna di andarci. Giovanni rimase nei vicoli con gli altri scugnizzi a godersi quei momenti di gioia. Le aspettative erano tantissime, sembrava che qualcosa di positivo stesse avvenendo a Napoli. Maradona trovò a Napoli l'ambiente adatto a lui, familiarizzò subito con il popolo, fu un amore a prima vista, profondo e inspiegabile che solo un napoletano può sentire. Il messaggio che portò Maradona a Napoli era quello di una speranza di vita migliore. Maradona era quello scugnizzo che ce l'aveva fatta e per tutti si apriva quello spiraglio dal nome speranza e iniziarono a vedere nuovi orizzonti escludendo che la propria vita non era de tutto quella ideale. Questo spiraglio di speranza portò nei napoletani la voglia di riscattarsi, generando il desiderio di maggiore impegno in tutti.

Anche se Napoli rimaneva comunque una città con tantissimi problemi, la gente li affrontava però con un'altra ottica: c'era più ottimismo e si affrontavano le giornate sempre con quel sorriso sulle labbra che non mancava mai. Un giorno Mariolino radunò tutta la sua banda, fece presente che una decina di membri non facessero più parte della banda: era iniziato l'esodo verso le periferie. Mariolino quel giorno fece presente alla banda due problemi che bisognava arginare il prima possibile: innanzitutto, la recente costruzione degli edifici nelle periferie destinati agli ex-terremotati portò al trasferimento di famiglie intere che lasciarono i bassi del centro storico per spostarsi in queste nuove abitazioni costruite con criteri moderni. Avevano i termosifoni, il posto auto, ascensore e finalmente le camerette per i bambini, cosa inesistente nelle abitazioni popolari della città di Napoli. Erano circa ventiduemila famiglie, che già a fine anni '70 avevano fatto richiesta per l'assegnazione di un alloggio. La voglia di una vita migliore fece sì che tante famiglie andassero via, ed insieme a loro, anche i piccoli scugnizzi e a causa di ciò le tante bande persero molti componenti. Alcune di queste furono addirittura decimate. Mariolino sapeva bene che era impossibile fermare l'esodo, e si concentrò sul reclutare nuovi scugnizzi.
Ordinò a tutti di convincere amici e parenti a far entrare a far parte della banda chiunque si conoscesse. C'erano i "guagliun 'e cas", i ragazzi che facevano casa e scuola; erano quelli da convincere. La sua stessa iniziativa fu portata avanti da altri capo banda. Il secondo problema esposto da Mariolino con molta rabbia, fu che erano presenti nei bar i Video Giochi e molti scugnizzi attratti da questo nuovo gioco si recavano spesso a giocare, spesso di nascosto, gli era giunta voce che c'erano scugnizzi che avevano richiesto ai propri genitori, per l'epifania del 1985, un videogioco per poter giocare in casa. Con molta rabbia aggiunse: <<Guagliù, mi hanno detto che c'è qualcuno di voi che per la befana ha richiesto il videogioco. Sapete bene che è vietato, nessuno deve comprare roba del genere. Chi gioca a casa è un vigliacco, un perdente, uno che non sa affrontare la vita. Questo è un aggeggio che vi isola dal mondo e per questo chi si permetterà di disubbidire sarà punito.>> Tutti abbassarono la testa, compreso Giovanni, nonostante non sapesse neanche cosa fosse un videogioco. L'unico a non abbassare la testa fu Franco, che rispose: <<Io sono certo che qualcuno ci tradirà, e vorrei che fossi io ad effettuare le punizioni ai traditori.>> La sua richiesta fu accolta da Mariolino. Questa volta ci aveva visto bene, aveva una grossa preoccupazione che i videogiochi potessero togliere gli scugnizzi dalla strada, e bisognava impedirlo a tutti i costi. Immediatamente mise in atto delle contromisure. Giovanni chiese a Franco cosa fosse un videogioco, e questi gli rispose: <<Sono come quelli che vedi nei bar, solo che li attacchi al televisore. La cosa bella è che non devi metterci i soldi per giocare.>> Giovanni replicò: <<Si gioca gratis?>> Franco aggiunse: <<Si, gratis, ma ricordati che è vietato. Stai lontano da queste cose. Domani vieni con me e ti faccio vedere quanti giocattoli portiamo a casa, giocattoli veri, non quegli stupidi videogiochi.>> Nella zona adiacente a Piazza Carità c'era un grosso negozio di giocattoli: aveva una serranda esterna fatta a rombi, seguita da un piccolo ingresso e una porta che non veniva chiusa totalmente, dietro quest'ultima c'erano i giocattoli. Franco, dopo vari appostamenti aveva individuato che appena dopo la porta c'erano giocattoli di vario genere che potevano essere estratti, portati via e successivamente essere rivenduti. Bisognava agire di domenica e fare alla svelta, perché il negozio era in una zona neutra, non controllata da alcuna banda, per cui c'era il rischio di incontrare altre bande durante l'operazione. Per aumentare i profitti decise di portare con sé solo Giovanni. Si organizzarono la domenica del 23 settembre 1984, si procurarono due mazze da scopa attaccate tra loro con del nastro adesivo, ne presero altre due attaccate allo stesso modo e in cima vi inserirono un pezzo di filo di ferro che fungeva da gancio.  Verso le ore 15:30 si incamminarono verso il negozio, era una bella giornata, le strade erano deserte; erano tutti a mangiare e ad ascoltare alla radio la partita del Napoli con Maradona che giocava contro la Sampdoria. Nessuno voleva perdersi questo evento radiofonico. Si avvicinarono al negozio e allungarono al suo interno le due mazze, con una di queste aprirono la porta e con l'altra tirarono fuori i giocattoli con il gancio, portarono con sé molti giocattoli: giochi da tavolo, peluche, robot. Era un bel bottino. Verso le ore 17, Franco disse a Giovanni: <<Aspettami qui con i giocattoli, io vado a casa, mi faccio prestare la vespa da mia sorella e vengo a prenderti. Mettiamo tutti i giocattoli dentro a due grandi sacchi e scappiamo via.>> Franco corse via e Giovanni rimase lì ad aspettarlo, con un mucchio di giocattoli accumulato sul marciapiede. Sperava tanto che Franco facesse il prima possibile poiché l'elevato numero di giocattoli avrebbe potuto dare nell'occhio. Verso le ore 17:30, passarono da lì due scugnizzi appartenenti ad una feroce banda confinante; erano volti noti. Si avvicinarono a Giovanni e uno dei due disse: <<Dove hai preso tutta questa roba?>> Giovanni cercò di mantenere la calma e rispose: <<Sono giocattoli miei, sto aspettando che il mio amico viene a prendermi.>> Nel frattempo, uno dei due scugnizzi corse a chiamare rinforzi, mentre l'altro intratteneva Giovanni parlandogli. Verso le ore 18 arrivarono rinforzi, erano una decina di scugnizzi avversari. Accerchiarono Giovanni e gli chiesero più volte dove avesse preso quei giocattoli. Pressato dalle richieste, Giovanni fu costretto a confessare il funzionamento del furto.
Uno di loro diede uno spintone a Giovanni facendolo cadere a terra. Alcuni portarono via i giocattoli ed altri iniziarono a prenderne altri dal negozio. Proprio in quell'istante arrivò Franco alla guida della vespa (modello PK 50S). Giovanni tirò un sospiro di sollievo vedendolo arrivare, ma Franco si fermò di scatto, girò la vespa e scappò via, lasciando Giovanni solo e indifeso. Per fortuna, uno di loro disse: <<Guagliò scappa via e non dire niente a nessuno di quello che hai visto. Mi sono spiegato?>> Giovanni annuì e scappò via, dirigendosi verso la casa di Franco. Lo incontrò e gli disse: <<Franchetié, che hai fatto, sei scappato via? Mi hai lasciato lì senza aiutarmi?>> Franco gli offrì un gelato, dell'Eldorado, lo fece calmare, lo tranquillizzò e gli disse: <<Io sono la tua guida, non il tuo santo protettore!>> Giovanni ormai aveva appreso tutto ciò che c'era da apprendere dalla strada, ma quel giorno capì che in caso di pericolo avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze, senza aspettarsi nulla da nessuno. Il giorno successivo, la notizia del furto dal negozio di giocattoli fu pubblicata su un quotidiano, oltre a fare il giro della città. L'articolo spiegava che il furto era stato compiuto con mezzi rudimentali ma allo stesso tempo geniali. Giovanni e Franco si promisero a vicenda di non raccontare niente a nessuno sull'accaduto, perché avrebbe potuto compromette la loro reputazione. Franco non voleva si sapesse perché consapevole di aver violato il codice degli scugnizzi; che prevedevano di aiutarsi l'uno con l'altro. Inoltre, promise a Giovanni che avrebbero compiuto qualcosa di più eclatante. Organizzò da subito furti di autoradio dalle automobili. Giovanni faceva il "palo" e Franco si intrufolava nelle auto, rubava le autoradio e dalla vendita di queste ricavava dalle venti alle trentamila lire. A Giovanni venivano date però solo cinquemila lire. Giovanni acquistò nuovamente fiducia e stima nei confronti di Franco. Franco aspettava sempre che Giovanni uscisse dalla scuola per compiere nuovi furti. Le macchine si aprivano grazie alle chiavette utilizzate per aprire i cibi in scatola, ad esempio quella della Simmenthal. Se questo metodo non avesse funzionato, si sarebbe ricorso alla rottura del vetro. Ci fu una giornata molto cospicua, che gli permise di guadagnare novantamila lire. Tingevano le 50 lire con il pennarello dorato e le spacciavano per 200 lire, questo sistema fu molto proficuo. Giovanni, aveva accumulato così tanti soldi da non sapere come spenderli. Sua madre se ne accorse e gli chiese la fonte di questo denaro. Giovanni gli rispose che erano soldi ricavati da lavoretti, ma sua madre non gli credette: erano troppi per lavoretti. Ne parlò con suo padre e decisero di proibirgli di frequentare Franco. Chiesero al cugino Luigi di tenerlo sott'occhio, ma questo gli rispose di non poter assumere questa responsabilità perché stava lasciando la vita da scugnizzo per occuparsi insieme ai suoi familiari del traffico di sigarette di contrabbando per cui non aveva tempo per stare dietro a Giovanni. A questo punto la madre chiese a Gigino che accettò l'impegno. Giovanni non fu d'accordo a questa decisione e agì di conseguenza: si incontrava con Franco fuori dai confini del quartiere, spesso a Piazza Municipio. Andavano nei magazzini Standa, nella Rinascente e da Upim. Rubavano di tutto e di più. Infatti, in quel periodo Giovanni aiutò suo padre ad ampliare il presepe e comprò di tasca sua tutto quello che serviva, dal sughero al muschio fino ai pastori, aggiungendo anche nuove palline all'albero di Natale. Quel Natale del 1984 sembrava andare nel miglior modo. Suo padre disse: <<Giovà, grazie per aver comprato tutte queste cose che io non potevo comprare. Non voglio neanche sapere dove li hai presi questi soldi, l'unica cosa che ti dico e stai attento, sii sempre prudente.>> Giovanni, con un bel sorriso rispose: <<Pà, stai tranquillo, ora sistemiamo il nostro presepe>>. Così si misero in opera. Chi non se la passava tanto bene era proprio Ninetta che trascorse il Natale con suo padre, sua sorella, suo cugino, i suoi nonni e sua zia Filomena. La zia continuava a tormentarla e la rese praticamente schiava. Suo padre era al corrente della situazione, ma non aveva la forza economica per opporsi. La cattiveria e la sopraffazione regnavano sovrani in quella casa nella quale nessuno osava opporsi. Nel gennaio del 1985, dopo l'epifania, la compattezza delle bande di scugnizzi cominciò a venire meno. La banda di Giovanni si era ridotta a sole trentadue unità, e dieci di queste avevano meno di dieci anni ciascuno. La condizione non gli permetteva di essere paragonabili ad altre bande. Quell'anno i vicoli avevano un aspetto surreale, c'erano delle vere e proprie guerriglie tra più bande per accaparrarsi gli alberi e il materiale da incendiare per il "cippo di sant'Antonio". Questa volta però, la banda di Giovanni ebbe la peggio, la loro minoranza numerica li portò alla sconfitta. In quel periodo, cominciò a diffondersi una certa consapevolezza tra i genitori degli scugnizzi, molti di loro infatti furono costretti ad allontanarsi da quegli ambienti e non poter quindi fare il cippo di sant'Antonio. Molte parrocchie e associazioni culturali si organizzarono per togliere i ragazzi dalle strade: organizzavano tornei di calcio, fornendo anche tutto il materiale necessario, e organizzavano interi viaggi in autobus per trasportare tutti i ragazzi. Per appassionarli, stampavano settimanalmente un poster dove erano riportati tutti i risultati, insieme alle formazioni, i voti e i commenti della giornata di calcio. Questo veniva esposto nella stazione della cumana di Montesanto, dove tutti i ragazzi potevano vederlo. Era tutto gratuito, ogni scugnizzo poteva presentarsi di sua spontanea volontà e nonostante questi ricevessero minacce dai propri scugnizzi, decidevano di non tornare indietro. Fecero ingresso in un mondo nuovo, dove le regole erano rispetto e uguaglianza. Franco e Giovanni ebbero da parte di Mariolino il compito di individuare e punire gli ex scugnizzi che avevano lasciato la banda. Appena individuati venivano inseguiti e picchiati duramente, veniva intimato di tornare nella banda, ma nella maggior parte dei casi non vi era nulla da fare: la strategia della violenza impartita da Mariolino e gli altri capobanda non portò nessun risultato sperato, riuscirono solo a reclutare qualche scugnizzo che non aveva alcun interesse a restare nella banda e ci stava solo per obbligo.
L'amarezza si leggeva negli occhi di Mariolino che guardò il fuoco del cippo ardere davanti a sé. Accanto a lui a confortarlo c'erano i suoi seguaci più stretti: Luigi, Franco, Rosario e Vincenzo. Furono momenti difficili, bisognava essere uniti nonostante Franco, per convincere ancor di più Giovanni al commettere truffe e furti, lo portò con sé al mercato della Pignasecca e gli disse: <<Giovà, vedi quei due vigili urbani? Ora ti faccio vedere una cosa, li seguiremo senza farci notare.>> Si intrufolarono tra la folla. I vigili entrarono in una pasticceria e insieme a loro anche Franco e Giovanni con la scusa di star guardando i dolci in vetrina, ascoltarono le loro parole. Uno dei due vigili si rivolse al titolare ed esclamò: <<On Viciè, gli auguri di Natale ce li diamo ora o domani?> On Vincenzo rispose: <<Adesso, adesso...>>, successivamente prese due pastiere napoletane e le incartò, senza chiedere nulla in cambio. I vigili uscirono dalla pasticceria e si recarono dal macellaio di fianco recitando lo stesso monologo: <<On Mario, gli auguri di Natale ce li diamo oggi o domani?>> On Mario prese della carne di prima scelta, la incartò e gliela consegnò, nuovamente senza chiedere nulla. Anche qui Franco e Giovanni assistettero. Giovanni, incuriosito, disse a Franco: <<Franchetié, forse ho capito cosa hai voluto farmi vedere>> Franco sorrise e rispose: <<Vedi quei due vigili, come tanti altri, che indossano la divisa? Nel periodo natalizio entrano nei negozi e si fanno consegnare tutti i prodotti in vendita, non risparmiano nessuno>> Giovanni rispose: <<E perché i commercianti regalano i loro prodotti a questi individui?>> Franco aggiunse: <<Non è un regalo, qui nessuno regala niente, è semplicemente uno scambio. I commercianti pagano con i loro prodotti e in cambio i vigili chiudono un occhio, forse due, per le tante irregolarità. C'è chi ha il personale non inquadrato, il bagno fatiscente, chi espone merce all'esterno occupando il suolo pubblico, insomma, ognuno ha i suoi scheletri nell'armadio; per loro è difficile andare avanti e quindi usano questi metodi per cavarsela>> Giovanni, confuso, chiese: <<Non gli conviene mettersi in regola invece che fare questi regali?>> Franco rispose di scatto: <<No, costerebbe molto di più. I vigili se vogliono trovare il pelo nell'uovo ci riescono, è molto più semplice fare così. Quasi tutti i commercianti usano questa pratica. I vigili urbani non sono gli unici, ci sono Finanzieri, Carabinieri, poliziotti e gli operatori dell'USL. È ovvio, io parlo di una parte di loro che è corrotta, ma tanti altri sono onesti e fanno il loro dovere e spesso si girano dall'altra parte per non denunciare i loro colleghi, ma quella parte marcia rappresenta lo stato, uno stato ladro e incapace di aiutare i commercianti e incapace di aiutare le nostre famiglie che non riescono nemmeno a garantirci la colazione tutte le mattine>> Giovanni ascoltò con attenzione le parole di Franco, espresse con tanta determinazione. Franco aggiunse: <<Io ruberò per sempre, non mi accontenterò mai di recuperare bottiglie di Coca Cola o di elemosinare un osso di prosciutto. Io voglio puntare in alto e ci riuscirò con il tuo aiuto, tu sei la mente e io sono il braccio>> Franco dimostrò a Giovanni che il mondo era corrotto e le istituzioni assenti, per cui bisognava cavarsela da soli e non ascoltare tutte quelle belle paroline che la scuola insegnava: gli insegnanti non sanno nulla della vita, hanno passato il loro tempo a studiare lontano dalla realtà e dalla verità, ricevono lo stipendio fisso e garantito ogni mese e non hanno la più pallida idea di come si sopravvive per strada. Affermò che essere scugnizzo non era un difetto, ma essere un combattente. Giovanni gli fece un'altra domanda: <<Franchetié ma i commercianti oltre a pagare in prodotti a questi parassiti in divisa, devono pagare i soldi anche ai camorristi?>> Franco si irritò e disse: <<Ti sbagli Giovà, i camorristi garantiscono ordine per le strade e garanzie per i negozianti e per le famiglie.
Mai nessuno si permetterà di derubare o rapinare il commerciante protetto dalla camorra e se un loro affiliato va in prigione la camorra provvederà al sostentamento dei suoi familiari cosa che non fa lo stato se qualcuno perde il lavoro a nero>> Giovanni chiese: <<Quindi la camorra si sostituisce allo stato e lo stato alla camorra?>> Franco rispose: <<Giovà non hai capito niente, lo stato è il male e la camorra è il bene; sono coloro che offrono lavoro e aiutano la povera gente>> Giovanni apprese con molto interesse come funzionavano le cose nella città di Napoli. Giovanni disse: <<E se vai di nuovo in prigione, poi perderai la tua libertà.>> Franco gli rispose: <<Chi è povero non sarà mai libero, e ricorda, meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora.>> Giovanni non era molto convinto sul modo di pensare di Franco che rappresentava il pensiero di tantissimi Napoletani che si sentivano protetti da un sistema criminale che fungeva anche da ammortizzatore sociale, tantissimi commercianti pagavano il “pizzo” con vero piacere e senza ripensamenti. Franco disse: <<Domani ti porto all'ospedale per farti rendere conto di come siamo combinati>> Infatti il giorno successivo si recarono in ospedale. Franco fece finta che gli faceva male il braccio, gli furono messe una bacchetta di legno con delle infasciature, ma fece questo anche per intrufolarsi nell'ospedale, allo stesso tempo aveva rimediato anche un po' di materiale medico per la famiglia (la fascia). I due si incamminarono per i corridoi, c'era gente messa sulle barelle in fila ed alcuni invocavano aiuto, una donna aveva finito il lavaggio, ad un uomo bisognava cambiare il catetere, ad un altro ancora zampillava sangue dal braccio, c'era una vecchietta che aveva i piedi distesi sulla barella del vicino per tenergli il posto: infatti era rischioso andare in bagno perché la barella poteva essere presa da qualcun altro. Giovanni rimase impietrito alla scena pietosa: gente ammassata e abbandonata al proprio destino senza un minimo di assistenza. Ognuno di loro era vestito e si arrangiava come poteva. Quei pochi infermieri facevano il possibile. Franco disse: <<Giovà hai visto come siamo messi qui? Chi ha i soldini va nelle cliniche private e chi non ha nulla viene abbandonato a sé stesso, come tutta questa gente>> Dov'è lo stato? Davanti alle lacrime di una signora anziana, Giovanni implorò Franco di uscire da quell'inferno. Franco aveva dato una prova rappresentativa della carenza delle istituzioni e aveva dato lustro alla mala vita con l’intento di trascinare Giovanni nel suo modo di pensare e spingerlo a commettere azioni illecite. Intanto Ninetta continuava a trascorrere il suo tempo al servizio di sua zia Filomena che alzò ancora di più l'asticella: le impose di portare a casa un minimo di centomila lire al giorno. Lei non sempre ci riusciva e quando ritornava a casa con un incasso minore veniva punita, gli veniva rinfacciato il fatto che non volesse aiutare la famiglia, non gli veniva permesso di mangiare e addirittura un giorno fu picchiata con una mazza da scopa e le furono strappati i vestiti, inoltre, le fu detto che non meritava nulla. Per una ragazzina di dieci anni era quasi impossibile portare un incasso di almeno centomila lire facendo solo elemosina. Ninetta smise di vendere le sigarette perché attinse le centomila lire dai soldi destinati ad acquistare le sigarette, per cui non ne aveva altri per acquistare nuove stecche da rivendere. La sua mansione si ridusse quindi alla sola elemosina. Sua zia era impassibile su ciò, la sua unica priorità erano le centomila lire, le raccomandò inoltre che, se nel caso fosse stata fermata dalla polizia avrebbe dovuto dire che era una sua propria iniziativa e volontà. Ma, ovviamente, nessuno fece caso a Ninetta, né i servizi sociali né le istituzioni, Era triste la situazione ma la piccola Ninetta era completamente abbandonata da tutti aveva perso anche la banda di scugnizzi che le davano un po’ di calore umano. La zia usava la sua cattiveria con molta abilità, per giustificare ai vicini l'assenza di sua nipote per giornate intere si inventava la storia che Ninetta fosse ribelle, una poco di buono e vagabonda. Per rendere credibile la sua messa in scena la picchiava in presenza dei vicini, così facendo copriva l'amara realtà dei fatti. Ninetta pensava sempre a sua madre che ebbe la fortuna di incontrare una brava persona: un giorno un uomo di nome Nicola stava pranzando in una trattoria del centro storico, accanto al suo tavolo c'era Antonietta, seduta con un solo bicchiere di vino, fissava onn’Nicola mentre quest'ultimo mangiava. Ad un certo punto onn’Nicola la guardò e le disse: <<Signora, ha bisogno di qualcosa?>> Antonietta rispose: <<Ho fame, vorrei mangiare quello che state mangiando voi>> onn'Nicola chiamò il cameriere e chiese di soddisfare tutte le richieste della signora Antonietta. L'episodio si ripetette per più giorni, offriva alla signora Antonietta praticamente tutti i giorni. Un giorno le chiese: <<Signora, ma voi dove abitate?>> Antonietta gli rispose: <<Non ho una casa, dormo alla ferrovia, per strada>. Da quel giorno onn’Nicola, che aveva vent'anni di più, prese a cuore la situazione. Lui era vedovo, la portò a casa sua, la ripulì, le diede una degna sistemazione e iniziò la convivenza solidale. Egli faceva le pulizie nei condomini e la portava con sé per non lasciarla mai da sola. Ebbe subito la consapevolezza che fosse una donna con problemi psichici e che oltre ad avere bisogno di cure aveva anche bisogno di tanto amore e comprensione. Antonietta trovò una sua dimensione si sentiva amata e protetta da onn’Nicola. Franco insegnò Giovanni a guidare prima il motorino e poi la vespa. Inizialmente fu difficile a causa delle marce, successivamente però imparò del tutto. Nell'estate del 1985 Giovanni fu ospite a Ischia di suo cugino Luigi, per trascorrere le vacanze insieme. I loro affari andavano bene: le sigarette di contrabbando fruttavano molti soldi tanto da permettergli due mesi interi di vacanze ad Ischia, meta ambita e desiderata dai napoletani. Si imbarcarono sul traghetto ad Ischia: Giovanni era molto entusiasta.

Dal ponte del traghetto quel venticello accarezzava il suo giovane viso. I gabbiani svolazzavano nel cielo del golfo di Napoli e da lontano, oltre la punta di Capo Miseno si intravedeva l'isola di Procida, piccola, e alle sue spalle, l'isola di Ischia. Ne aveva sempre sentito parlare, ma non l'aveva mai vista, finalmente riuscì a metterci piede. Arrivati al porto si fecero accompagnare da un simpatico tassista su di un triciclo ape. Presero possesso dell'appartamento affittato a pian terreno in zona Ischia Porto, il fascino dell'isola verde sedusse tutti, compreso Giovanni che non vedeva l'ora di godersi il mare e la vacanza. Gli zii misero bene in chiaro le regole di casa: non erano ammessi fannulloni, organizzavano due squadre composte da due persone, la zia con Luigi e zio Rino con Giovanni. Individuarono tre market nella zona da colpire: entravano fingendo di essere normali clienti e compiendo anche degli acquisti, peccato però che la maggior parte dei prodotti veniva rubato. Nascondevano prodotti confezionati ovunque; nelle mutande, reggiseni e borsette. L'isola di Ischia era un luogo tranquillo per cui non erano abituati a subire furti, la sorveglianza quindi era praticamente assente semplificando ulteriormente l'atto. Giovanni fu di grande aiuto, rubava con molta destrezza: aveva la convinzione che fosse un gesto giusto, ormai quella mentalità da strada gli era entrata nella mente e sapeva bene cosa fare e cosa non fare. La mattina facevano colazione, e con la massima tranquillità andavano a razziare il market di turno. Successivamente si recavano in spiaggia. Erano giorni felici e spensierati. Un giorno in riva al mare Giovanni conobbe un ragazzino di sei anni di nome Ciccillo. Era anch'egli in vacanza insieme ai suoi nonni. Era un ragazzo di piccola statura, molto esile. Aveva vissuto con i genitori in una località tra Napoli e Caserta. I suoi genitori erano separati già da un anno, sua madre era reclusa per spaccio di droga, mentre suo padre aveva conosciuto una nuova compagna che non accettava Ciccillo. Suo padre dovette consegnare suo figlio ai nonni materni che se ne stavano occupando già da un mese. Insieme abitavano ai Quartieri Spagnoli. A Giovanni venne subito l'idea di reclutarlo tra gli scugnizzi. Passavano giornate intere insieme e Giovanni approfittava spesso per raccontargli di tutte le sue avventure e i vantaggi che offriva essere uno scugnizzo. Ovviamente omise tutti gli aspetti negativi per persuaderlo, suscitando in lui molto interesse. Ciccillo non vedeva l'ora di tornare a Napoli e di far parte della banda di Mariolino. Giovanni aveva trovato un nuovo membro che, oltre a infoltire la banda gli permetteva di fare bella figura nei riguardi degli altri. In quel momento difficile serviva a tutti i costi reclutare nuovi giovani. Giovanni ambiva a diventare un seguace stretto di Mariolino, in pratica voleva salire di livello e questa occasione sembrava quella giusta per ottenere ciò. Nell'agosto del 1985 Franco non perse tempo a compiere altri furti e conobbe nello stesso periodo Pasqualino, un suo coetaneo di una banda avversaria. Si incontrarono per strada, si confrontarono e trovarono subito delle affinità. Avevano tutti e due ben chiaro il loro pensiero: ambivano entrambi ad agire indipendentemente dalla banda. Decisero di rimanere amici, ma in gran segreto. Rimasero entrambi a far parte delle rispettive bande, ma solo per facciata, e per organizzarsi in modo serio si incontravano fuori quartiere. Infatti, Pasqualino propose a Franco un nuovo metodo per fare soldi: <<Franchetié, domani vieni con me e andiamo al porto americano, aspettiamo che escono i soldati americani e gli rubiamo i cappelli>>. Franco, con un interrogativo, rispose: <<Un cappello? E cosa ce ne facciamo?>> Pasqualino rispose: <<Loro vengono qui con quei bellissimi cappelli pieni di stemmi. Sono cappelli da collezione introvabili, per cui molto richiesti. Pensa che per un cappello del genere si riesce a ricavare dalle cinquanta alle centomila lire>> A Franco si illuminarono gli occhi: <<Mamma tutti 'stì soldi! Ma i soldati sono dei bestioni. se ci beccano ci fanno male, bisogna organizzarsi bene>> Pasqualino lo tranquillizzò: <<Stai tranquillo, la maggior parte di loro, quando gli viene rubato il cappello dal capo lo prende come uno scherzo o come un segno di benvenuto. Se la ridono e ti lasciano andare via>> Franco aggiunse: <<Poi ci dobbiamo ricordare a chi lo abbiamo rubato, sennò rischiamo che lo incontriamo di nuovo>> Pasqualino rispose: <<Stai tranquillo, le navi americane vanno e vengono, ci sono sempre persone diverse>> Quest'idea piacque molto a Franco tanto da non vedere l'ora di iniziare. Pasqualino sembrava il partner giusto, Franco riteneva che Giovanni non fosse all'altezza del gesto. Ad Ischia la vacanza stava giungendo al termine. Giovanni chiese a Ciccillo come si fosse trovato a vivere in periferia. Ciccillo gli disse: <<Non è male. Napoli è più bella, l'unica cosa che non vedo a Napoli sono i continui roghi. Sembra di essere a Sant'Antuono tutti i giorni e poi ci sono sempre tantissimi camion che vanno e vengono>> Giovanni rispose: <<Come roghi? Cosa brucia?>> Ciccillo disse: <<Non lo so, ti posso solo dire che si sente un cattivo odore nell'aria, a volte diventa irrespirabile>> Giovanni disse: <<Sicuramente non sono alberi, ma chiederò a Mariolino>>. In serata, Giovanni si incontrò con Mariolino e oltre ad avvisargli della sua nuova recluta, gli pose l'interrogativo relativo ai roghi appiccati nella periferia. Non ci fu alcuna risposta, nemmeno Mariolino sapeva di questo fenomeno, sembrava che chi abitasse in città fosse all'oscuro di tutto ciò, ma la questione sembrava seria. Era qualcosa di grosso che stava nelle mani di qualcuno più in alto. Successivamente, furono raggiunti da Ciccillo che si presentò e fu inserito nella banda. Giovanni, ancora tormentato dal dubbio, si rivolse a onn’Umberto accolse con gentilezza. Giovanni gli espose la questione e on Umberto scoppiò a ridere: <<Ah Ah! È una storia che va avanti da anni, i camion che vanno e vengono trasportano rifiuti speciali, li mettono sottoterra e si fanno pagare per farlo. I continui roghi non sono altro che un gesto criminale, raccolgono tutti i rifiuti speciali e scarti di lavorazione da aziende locali e gli danno fuoco, è un modo semplice ed economico per smaltire. Ovviamente è illegale e a discapito dell'ambiente. C'è una grossa organizzazione alle spalle che ci guadagna soldi>> Giovanni, ancora sconvolto, rispose: <<Ma come, le istituzioni lasciano che tutto ciò avvenga senza intervenire? Non voglio credere che non facciano caso ai tanti camion e roghi>> onn'Umberto rispose: <<Guagliò, sei ancora piccolo e tante cose le capirai da grande>> Giovanni rispose: <<E voi come fate a sapere tutte queste cose? La gente che abita lì cosa rischia?>> onn'Umberto aggiunse: <<Io so tutto perché conosco tanta gente e tra non molto quella zona sa inquinata a tal punto che la gente rischierà di ammalarsi senza avere alcuna speranza>> Giovanni preferì non credere alle parole di onn’Umberto, non poteva credere che si stesse consumando un disastro del genere. Era anche preoccupato per Ciccillo, sperava che avesse lasciato quel luogo in tempo, ma nello stesso tempo era felice per Ninetta perché si trovava in un'altra località periferica, ma distante da quella zona. Ancora una volta, Giovanni ebbe un senso di smarrimento. Gli venivano attacchi di panico e a volte non riusciva a dormire la notte, era una brutta sensazione che lo attanagliava. Quando rivide Franco fu felice. Franco gli raccontò subito che stava rubando i cappelli agli americani insieme a Pasqualino, inoltre gli disse che non avrebbe dovuto dirlo a nessuno e che non avrebbe potuto portarlo con sé perché troppo piccolo. Gli confessò che stava guadagnando un bel po' di soldi e stava finalmente facendo uscire la sua famiglia dalla miseria. Il suo sogno si stava realizzando. La seduzione di Franco era arrivata a tal punto che Giovanni lo seguiva ovunque, un giorno stavano passeggiando via Chiaia videro passeggiare un ragazzo su una bicicletta. All'improvviso, Franco, senza avvertire corse verso il ragazzo, gli diede una spinta e lo fece cadere a terra, si sedette sulla bici e iniziò a pedalare velocemente. Giovanni rimase lì, impietrito per questo gesto improvviso. Si girò a guardare quel povero ragazzino a terra che piangeva e nello stesso tempo guardò Franco che si allontanava sempre di più. Per un attimo rimase indeciso, ma scelse di andare da Franco invece di aiutare quel povero ragazzino a terra che si era fatto male. Decise di seguire il suo idolo. Corse tanto e si sedette sul sediolino posteriore, dietro di lui. A quel punto Franco esclamò: <<Pensavo che saresti rimasto lì a fare il bravo ragazzo, ricordati che noi siamo nati scugnizzi e dobbiamo comportarci da scugnizzi.>> Giovanni era lì dietro ad ascoltare le sue parole, chiuse gli occhi e provò un senso di piacere. Era orgoglioso di essere uno scugnizzo, orgoglioso di seguire le orme di Franco ed orgoglioso di portare a casa quel bel trofeo: una bella bici che avrebbe aumentato la stima nei propri confronti da parte dei propri amici. Giovanni tentava di emulare il comportamento di Franco, ma non ci riusciva: non aveva la sua scaltrezza, ma soprattutto non aveva la sua freddezza. Realizzò che tutti gli oggetti rubati venivano rivenduti e i guadagni andavano totalmente a Franco. Giovanni cercava di stare lontano, ma il suo carisma lo affascinava e non riusciva a starne lontano. Dopo alcuni giorni, si recarono in villa comunale e furono attratti da un circolo privato caratterizzato da campi da Tennis.

Giovanni guardò tra le sbarre di un cancello e vide tanti ragazzini della sua età ben vestiti e ben pettinati, che giocavano a Tennis. Rimase affascinato, sembrava un mondo magico, tutto era al suo posto. Per un primo momento, oltre che meravigliato, fu turbato perché scoprì che esisteva un altro mondo al di fuori del suo. Forse era un mondo che mai gli sarebbe appartenuto, ma era consapevole della sua esistenza. Incominciò a pensare che forse uno scugnizzo non era un ragazzo fortunato come molti facevano credere, forse erano solo dei poveri disgraziati senza alcun futuro. Il suo pensiero fu interrotto da Franco, che guardando alcune palline di Tennis a terra all'interno del circolo esclamò: <<Scommetto che quelle palline ti piacciono e ci vorresti giocare, ma non sei all'altezza di andare a prenderle. Io ne sarei capace, ma non so se tu ne saresti. Sappi che uno scugnizzo deve essere capace di ottenere tutto ciò che vuole. Allora ci vai?>> Giovanni lo guardò e rispose: <<Certo che ci vado, ora ti faccio vedere di cosa sono capace.>> Iniziò ad arrampicarsi sul cancello e si calò con cautela all'interno del circolo. Franco rimase fuori a guardarlo con uno sguardo fiero. Così inizio a raccogliere le palline, chiamate in dialetto "e palle 'e ciuccio". Mentre le raccoglieva, uno dei ragazzi del circolo lo vide e chiamò i suoi amici. Giovanni aveva un sacco di palline raccolte tra le sue braccia e al momento che si avvicinarono gli caddero una ad una a terra. Si girò per vedere Franco, ma lui non c'era, lo aveva lasciato lì in quel mondo sconosciuto accerchiato da tanti ragazzini della propria età. Lui stava al centro, tutto spettinato, sporco. Iniziò ad avere paura, finché uno di loro gli si avvicinò e disse: <<Ma da dove vieni?>>. Lui non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che tutti iniziarono ad insultarlo dicendo: <<Torna nella spazzatura, via di qui, questo posto non ti appartiene, è solo per gente come noi.>> Giovanni piano piano iniziò ad avvicinarsi al cancello, quando gli si avvicinò un altro ragazzo con un apparecchio per i denti in bocca, la quale Giovanni non aveva neanche idea dell'esistenza, e gli disse: <<Ora ti apro il cancello, tu scappa via e non mettere più piede qui.>> Giovanni fece un cenno con la testa per dire "certo". All'apertura del cancello scappò via correndo, cercava Franco ma se n'era andato. Si sentì umiliato, si incamminò verso casa un po' confuso perché vide il "mondo dei ricchi", della gente che vive agiata, dei bimbi che facevano attività sportive in circoli privati mentre loro dovevano giocare per strada. Sì, la strada, quella che li aveva formati ad essere scugnizzi e indossare un'armatura invisibile, ma indelebile. Si incamminò verso casa per il lungomare e pensò che forse la loro non fosse una vita normale, ma quando tornò tra gli amici, loro gli dissero che chi ha tanti soldi e vive bene è perché un ladrone, ha semplicemente un modo diverso di rubare rispetto a loro, ma erano della stessa pasta. In pratica, fecero in modo di confondere le loro idee. Ma lui non era del tutto convinto di questa tesi. Ma nonostante tutto, Giovanni e Franco trascorrevano molto tempo insieme giravano su di una Vespa Special, A Giovanni iniziò ad avere passione per i motori e comprava spesso le riviste in edicola. Franco era alla guida mentre Giovanni era dietro seduto. Il motore era truccato, la vespa infatti sfrecciava per i vicoli. Franco e Pasqualino continuavano a rubare cappelli in quel periodo in modo incessante, Franco si accanì tanto perché stava guadagnando soldi che in vita sua non aveva mai visto, nel febbraio del 1986 uno scugnizzo di nome Nino d’Angelo stava per esibirsi al festival di Sanremo lui ce l’aveva fatta mentre per un altro scugnizzo di nome Franco trovò davanti a sé un grosso ostacolo, Giovanni incontrò per strada Pasqualino che stava piangendo. Giovanni gli chiese il motivo di ciò: <<Pasqualì, tutto bene?>>. Lui rispose: <<No, non si trova più Franco.>> Giovanni: <<Come non si trova più?>> Pasqualino: <<Stavamo scappando dai militari americani a cui avevamo rubato il cappello, ci siamo diretti verso il molo e a un certo punto Franco è scivolato e caduto a mare.
Io l'ho visto, ma dalla paura sono scappato via e da quel momento non so più che fine ha fatto>> Giovanni< ma come vi hanno inseguiti> Pasqualino < Sì abbiamo trovato due bestioni che non l’hanno presa bene e ci hanno inseguiti> Giovanni non esitò, si recò immediatamente dai familiari di Franco e chiese informazioni, o meglio, voleva sapere se Franco fosse riuscito a cavarsela. Ma purtroppo nemmeno i familiari sapevano dove fosse. Fece ritorno da Mariolino e da quel giorno iniziò una vera e propria ricerca; tutti si adoperarono: i familiari, gli scugnizzi e la gente del quartiere, ognuno faceva la sua parte. Andarono ovunque a cercarlo, anche nei posti più impensabili. Trascorsero altri cinque giorni, ma Franco non fece ritorno a casa. A quel punto i genitori decisero di rivolgersi alla Polizia che con la collaborazione delle autorità portuarie iniziò le ricerche inizialmente nel porto di Napoli, ma poi furono estese al completo Golfo di Napoli. Pasqualino restò rinchiuso in casa per diversi giorni, sconvolto dall'accaduto. Fu braccato dalla Polizia al punto che iniziò a raccontare l'amara realtà dei fatti: Franco era scivolato cadendo in acqua, ma il mare mosso spinse la nave ormeggiata che lo aveva schiacciato contro il molo. Proprio in quel preciso istante, Franco alzò la testa ed ebbe solo l'attimo di guardare Pasqualino, con il suo sguardo triste comunicò che era ormai giunta la sua fine. Da quel giorno Franco non fu rivisto. Trascorsero altri cinque giorni di ricerche prive di esito. Nel quartiere si vociferava che Franco fosse riuscito a mettersi in salvo intrufolandosi in una nave diretta in Sicilia. Questa notizia fu accolta con molto entusiasmo da parte di tutti che non vedevano l'ora del suo ritorno a Napoli. La notizia infatti fu anche riportata sui quotidiani locali. L'entusiasmo della notizia non travolse però Pasqualino, che mantenne il suo volto cupo e triste, consapevole della terribile verità. Nei suoi occhi si leggeva qualcosa di strano, di oscuro. Era traumatizzato dopo aver assistito a quella scena raccapricciante. Mariolino decise insieme a Giovanni di presentarsi a casa sua. Voleva sapere la verità dei fatti. I giorni passavano, ma Franco non faceva ritorno a Napoli. Mariolino disse: <<Pasqualì, tu sei stato presente in quegli ultimi attimi con Franco, ci devi dire la verità>> Pasqualino replicò: <<E cosa vi devo dire? Io la notte non dormo più. Ormai ho il suo sguardo scolpito nella mente>> Giovanni aggiunse: <<Guarda che i giornali dicono che lui per sfuggire al militare si è introdotto in una nave in partenza per la Sicilia>> Pasqualino, guardandoli e con un tono di voce alto disse: <<Guagliù, rassegnatevi, Franco è morto. Ho il rimorso per non averlo detto subito, mi sono rinchiuso in casa senza parlare più con nessuno, mi ha spinto la paura>> Il 15 febbraio 1986 arrivò la tragica notizia, il corpo di Franco fu recuperato al largo del golfo di Napoli. La notizia fece rapidamente il giro del quartiere fino ad arrivare a Giovanni che scoppiò immediatamente a piangere. Fu preda di una crisi di nervi, il suo carissimo amico non c'era più, a soli sedici anni.
 Non poteva immaginare che la sua vita si fosse spezzata per inseguire un sogno proibito: quello di lasciare la miseria. Al funerale c'erano tantissime persone, sembrava fosse scomparsa una celebrità. Giovanni non si capacitava, piangeva tutti i giorni, scivolò in una crisi profonda. Per una decina di giorni si rinchiuse in casa senza vedere nessuno: immaginava Franco come un immortale. Il dolore fu tanto che lo trascinò in una depressione. Sua madre spiegò a Mariolino che Giovanni stava malissimo e per un periodo avrebbe dovuto cambiare ambiente.

Decisero di mandarlo dalla nonna paterna, nel quartiere di Capodimonte, sperando che avrebbe potuto aiutarla ad uscire da quella crisi. Mariolino accolse la richiesta con serenità, sapeva bene che Giovanni era molto legato a Franco, per cui comprese la situazione. Il padre di Giovanni lo accompagnò dalla nonna, la quale era già al corrente della situazione e si mostrò pronta ad aiutare il suo nipotino. Lo tenne come un figlio, lo coccolava, gli preparava dei bei pranzetti che solo lei con le sue mani fatate riusciva a fare. Era bravissima la nonnina. La stessa, lo fece avvicinare ad alcuni ragazzi del quartiere, con i quali riusciva a distrarsi giocando lunghe partite di calcio al Real Bosco di Capodimonte. Fu una terapia efficace per Giovanni che nell'estate del 1986 ebbe ben chiaro ciò che voleva dalla vita: decise di impegnarsi a scuola. Voleva fare il meccanico e infine la decisione più difficile: quella di smettere di essere uno scugnizzo. La morte di Franco lo portò a capire diverse cose, realizzò che era tutto sbagliato e bisognava cambiare direzione; uscire subito da quel mondo assurdo. Giovanni non era più d'accordo con il vivere per strada, infatti, il suo carissimo amico Franco a soli sedici anni aveva perso la vita per dare sostegno alla propria famiglia. La sera, quando si coricava, sua nonna del 1912 gli raccontava la fame vissuta durante il dopoguerra e gli diceva sempre che dopo il buio veniva sempre la luce. Chiese a sua nonna di procurargli abiti decenti. Sua nonna lo accontentò. Giovanni si tagliò i capelli e decise di pettinarli per dargli ordine. Si specchiò con i suoi nuovi vestiti e con i capelli pettinati e vide davanti a sé un nuovo futuro, una nuova immagine, che forse era possibile cambiare. Pensava spesso a Franco, ne ricordava le parole, che preferiva vivere poco ma buono. Purtroppo, non fu così: Franco visse poco e male, forse se avesse avuto una guida da parte della famiglia e delle istituzioni avrebbe preso un'altra strada. Il suo volto era sempre scolpito nella sua mente insieme alle sue parole, la sua voce, tutto viveva in sè. Allo stesso tempo pensava alla fine che avevano e avrebbero compiuto tutti gli altri scugnizzi. Quando tornò nel suo quartiere, prima di recarsi da Mariolino, decise di fare visita a onn'Umberto. Gli raccontò della sua decisione e ne chiese un parere. onn'Umberto stava seduto su una poltrona, fumava sempre la sua sigaretta con molta pacatezza. Rispose: <<Guagliò, vuoi sapere il mio parere? Ti dico che fai bene, lo scugnizzo è una figura che sta scomparendo. Le cose stanno cambiando, man mano i ragazzi lasceranno questa vita, amara e piena di sofferenza, ma addolcita da parole e fantasia. Avete vissuto finora con un'illusione che quello che facevate fosse giusto. Ora hai capito che è tutto finto, ma sappi che anche il mondo lavorativo è ricco di illusioni. Stai attento e abbi cura di te>>. Lo abbracciò, quasi come se fosse un figlio, e aggiunse: <<Buona fortuna Giovà>>. Giovanni si fece forza e si diresse da Mariolino. Nel passeggiare si vedevano pochi scugnizzi in giro, ormai il numero che avevano abbandonato erano più di quelli che erano presenti. Le speranze di Mariolino di infoltire la banda con nuove reclute ben presto fallirono. Questo fenomeno si estese ampiamente in tutta la città, la situazione stava degenerando sempre di più. Giovanni stava a pochi metri dalla abitazione di Mariolino, ma incontrò Ciccillo e disse: <<Ciccì come stai?>> Ciccillo rispose: <<Giovà tutto bene>> Giovanni: <<Ascoltami, cerca di stare il meno possibile per strada. Sta' a casa, tutte quelle belle cose che ti ho raccontato sugli scugnizzi erano tutte fesserie. Non hai visto che fine ha fatto Franco? Questa è la fine che fai se continui ad essere uno scugnizzo!>> Ciccillo: <<Ma io mi stavo divertendo...>> Giovanni: <<Non è un gioco, è una scelta di vita pericolosa che noi non meritiamo. Io imparerò il mestiere di meccanico e ti prometto che appena ne avrò possibilità ti farò lavorare con me, ma nel frattempo vai a scuola e studia>>. Ciccillo accolse la sua richiesta e apprezzò il fatto che qualcuno finalmente si interessasse a lui. Nemmeno i suoi nonni si degnavano di considerarlo, si concentravano sull'alcol e sul gioco d'azzardo. A quel punto, Giovanni arrivò alla porta dell'abitazione di Mariolino: una vecchia porta con una maniglia malridotta. Bussò con le mani. Aprì Vincenzo che lo accompagnò da Mariolino. Lui era seduto su una sedia con un volto già scuro per la situazione, ed un’espressione rassegnata, come se già sapesse cosa Giovanni gli stesse per dire. Giovanni lo salutò e disse: <<Mariolì, io sono venuto qua per dirti una cosa importante, ho deciso di lasciare la vita da scugnizzo perché voglio una vita diversa e voglio anche imparare un mestiere>> Mariolino rispose: <<Giovà tu lo sai che qui hai giurato di essere uno di noi e ora vuoi spezzare questo giuramento?>> Giovanni: <<Mi dispiace, le cose stanno cambiando. Quello che prima sembrava giusto ora non mi sembra più corretto, per cui spezzo il mio giuramento>> Mariolino si alzò dalla sedia e disse: <<Ebbene, vai pure a fare lo schiavo del padrone di bottega che ti farà lavorare per dodici o tredici ore al giorno per quattro lire a settimana. Noi resteremo gli scugnizzi e andremo avanti a testa alta, ma sappi che sei e resterai un traditore e come tale sarai perseguitato e se un giorno vorrai mai tornare tra noi, non sarai accettato>> Giovanni: <<Mi dispiace, vi devo lasciare. Comunque resterete nel mio cuore e non vi dimenticherò mai, anche se da domani nessuno scugnizzo più mi rivolgerà la parola, io vi vorrò sempre bene>> Le parole di Giovanni fecero rimanere di stucco Mariolino che si rese conto dell'amore ricevuto in contrasto con le sue cattive parole. Quel giorno un altro scugnizzo stava lasciando la banda. Mariolino concluse: <<Giovà, vai via, non farti più vedere. Buona fortuna>> Questa parola fece meravigliare Vincenzo che non se l'aspettava per niente. Avvertiva che Mariolino avesse compreso Giovanni e sotto sotto in cuor suo lo aveva perdonato. Giovanni uscì dall'abitazione. Da quel momento si sentiva una persona libera. Quei vicoli grigi ora sembravano colorati, non vedeva l'ora di iniziare una nuova vita. Da quel momento quel mondo si chiuse definitivamente per lui. Alzò la testa e si recò a casa sua. Raccontò ai suoi genitori della sua decisione e questi ultimi la accolsero con gioia. La morte di Franco aveva scosso anche loro e temevano che il figlio potesse fare la stessa fine. Da quel momento Giovanni si limitò ad andare a scuola e studiare. Il suo intento era quello di conseguire il diploma di licenza media per iniziare successivamente a lavorare. Ninetta invece era giunta al limite della sopportazione. Aveva studiato diversi stratagemmi per liberarsi di sua zia Filomena, ma nessuno sembrava efficace. Forse l'unico modo era la fuga, ma non sapeva da chi sarebbe potuta andare a soli undici anni. Un giorno di giugno del 1986, Ninetta, ormai stanca dei tanti soprusi subiti uscì per mendicare, ma si diresse a Pollena Trocchia, in provincia di Napoli. Lì c'era un fioraio per cui lavorava suo padre che rimase sorpreso nel vederla. Ninetta, stanca e arrabbiata, disse: <<Pà, portami via da quell'inferno. Sono tua figlia, e hai l'obbligo di mettermi al sicuro>> Il padre, inaspettatamente e senza discutere disse: <<Ninè, vieni con me>>, la portò in casa del fioraio e chiese la cortesia di tenerla per un periodo limitato durante il quale avrebbe ricercato una casa in affitto. Il titolare era un uomo rozzo ma di gran cuore, tenne Ninetta in casa sua insieme ai suoi tanti figli. Dopo alcune settimane, la nipote del fioraio, Flora, si offrì di ospitare Ninetta siccome abitava solamente con suo fratello perché suo marito era detenuto. Suo fratello invece, era separato. Quest'ultimo cercò di approfittare di Ninetta, la toccava e gli diceva: <<Ninè, quanto sei bella, quando crescerai sarai la mia femmina!>>. Per fortuna suo padre trovò una sistemazione in tempo da alcuni parenti residenti in un appartamento popolare a Volla. Si trasferirono e per fortuna la convivenza fu abbastanza buona. Finalmente avevano un tetto e un po' di calore umano. Nel gennaio del 1987 finalmente riuscirono ad affittare un appartamento tutto loro, era un piccolo monolocale sprovvisto di bagno ad Acerra, in un palazzo rurale con un canone mensile di duecentomila lire al mese. Era anche troppo per un affitto del genere. Erano costretti a fare i loro bisogni in un secchio e si lavavano nel cortile in cui c'era una fontanina che emetteva acqua fredda. Le condizioni erano disperate, ma sicuramente migliori di quelle con zia Filomena. Suo padre faceva le pulizie e guadagnava solamente duecentomila lire al mese. Si andava avanti a stento. Vivevano in miseria totale. Ninetta riuscì a trovare lavoro in un negozio di Parrucchiere. Guadagnava sessantamila lire alla settimana, più di suo padre. Grazie a quel denaro riuscirono a mangiare e a comprarsi del cibo. Erano giorni difficili, ma non mollavano. Il 10 maggio 1987 Maradona mantenne la sua promessa, portò a Napoli il suo primo scudetto. La città era in fermento e la figura dello scugnizzo sembrava stesse riacquistando il suo prestigio, ma questa fu solo un’illusione. Finiti i festeggiamenti ritornò quasi tutto come prima.

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Giovanni continuava a studiare e frequentava gli amici di Capodimonte, aveva completamente abbandonato il suo quartiere, era considerato qui una persona poco gradita. Ninetta un giorno conobbe un ragazzo che lavorava in un panificio sotto casa sua: Armando. Era più grande di lei di cinque anni. I due si frequentarono e ben presto si fidanzarono. Ninetta sognava una vita migliore. Armando fu presentato a suo padre che accettò il loro fidanzamento con serenità. Furono tempi migliori per Ninetta: per la prima volta nella sua vita le fu regalata la celebre calza della Befana. Si aprivano per lei tempi sereni. Giovanni invece legò con un suo amico di nome Ciro, anch'egli ex scugnizzo. Insieme giravano con il motorino "Sì". Trascorrevano interi pomeriggi andando a spasso per la città, senza sentire il bisogno di dover fare il male a nessuno, solo nella naturale spensieratezza e voglia di divertirsi. Era una bella sensazione che i due stavano vivendo.  La cosa strana è che Giovanni volle incontrare i suoi ex amici scugnizzi. Loro si limitavano solo a girarsi dall'altra parte, senza attaccarlo, anche se avevano ricevuto ordini di perseguitarlo. Ebbe la sensazione che avessero mantenuto la speranza che fosse tornato tra loro. Proprio in quel periodo anche suo cugino Luigi abbandonò la banda, dedicandosi agli affari di famiglia nel contrabbando di sigarette. I più fedeli che rimasero al fianco di Mariolino furono Vincenzo, Salvatore e Rosario, che sostenevano ancora gli ideali da scugnizzo. Avevano la convinzione che prima o poi i ragazzi avrebbero perso interesse nei videogiochi e nelle associazioni varie, ritornando nel loro ovile. In quel momento, nessuno aveva fatto effettivamente ritorno nella banda, nonostante fossero seguiti e picchiati. Ciccillo seguì con attenzione i consigli di Giovanni. Nel gennaio del 1988 morì suo nonno e rimase solo a vivere con sua nonna, stentando con la sua pensione che non bastava per vivere, perché questa era fortemente legata al vizio del gioco d'azzardo. Si era indebitata sempre di più fino al punto da spingere Ciccillo a cercare un lavoro. Troppe serate al digiuno lo portarono all'esasperazione, chiese aiuto anche a Giovanni che gli spiegò che avrebbe dovuto fare l'ultimo anno di scuola per poi andare a lavorare. Gli consigliò di cercare un lavoretto intanto. Trovò lavoro in una cantina, e trascorreva i suoi pomeriggi a consegnare le casse di bibite ai clienti per quindicimila lire alla settimana. Grazie alle mance riusciva a racimolare dalle trenta alle quarantamila lire. Erano pochi, ma almeno riusciva a mangiare. In quegli anni ci fu un vero e proprio incremento dello spaccio di cocaina che come conseguenza ne portò l'abbassamento dei prezzi. Molti giovani napoletani cominciarono a farne uso, i prezzi ridotti avevano attirato molti di questi ultimi che ben presto diffusero il fenomeno ai loro amici delle classi meno abbienti. Ciò alimentò ulteriormente l'abbandono delle bande di scugnizzi, alcuni di questi cominciarono a racimolare denaro con l'unico desiderio di acquistare la sostanza per consumarla, ponendolo come unico scopo di vita. Proprio in quegli anni si diffusero i primi ladri di Rolex. Uscivano con motorini truccati e rapidamente strappavano i Rolex dalle braccia delle loro vittime. Questo metodo era molto profittevole, considerando il prezzo di rivendita e il fatto che ai tempi i motorini cinquanta erano sprovvisti di targa, per cui il rintracciamento era molto difficile se non impossibile. Preferivano rubare per proprio conto senza dover dividere nulla con nessuno, il denaro facile scaturì la rottura di quella solidarietà che emergeva tra gli scugnizzi, ognuno pensava a sé stesso.
Molte bande vennero decimate, alcune iniziarono a scomparire completamente. In alcune bande, addirittura i capibanda cominciarono ad assumere cocaina, portando il gruppo stesso alla deriva. Il boom della droga creò nuovi interessi economici e di conseguenza nuovi conflitti tra i clan camorristici che ben presto iniziarono sanguinose guerre per il conquisto del territorio. Nonostante tutto la squadra di calcio del Napoli continuava a giocare bene e il popolo acclamava il secondo scudetto. A loro non interessava la vita privata di Maradona, l'importante era vincere. Maradona era diventato l'emblema di tutti i napoletani, e la scoperta del suo consumo di cocaina creò un vero e proprio scandalo che portò molti dei suoi ammiratori alla riflessione. Continuò a dedicarsi alla scuola e ai motori. Suo padre gli comprò una vespa usata che lui fece truccare da un amico meccanico. Ci teneva ad assistere al processo per poterne apprendere i trucchi. Infatti, imparò a cambiare i cavi della frizione e dell'acceleratore e a sostituire le ganasce. Erano piccole cose, ma erano i primi passi. Nel dicembre del 1988, in occasione della morte di sua nonna, Ninetta chiese ad Armando di portarla nel suo quartiere di origine. Era desiderosa di tornarci e di rivedere i suoi amici scugnizzi, in particolar modo Giovanni. Armando la accontentò. Attraversando i vicoli, Ninetta si accorse ben presto che questi erano ormai spopolati, c'erano pochi scugnizzi in giro. Credeva fosse successo qualcosa, ma invece era ormai la normalità. Proprio al portone di sua nonna incontrò Giovanni.
I due appena si videro si abbracciarono. Giovanni era felicissimo di rivederla. Ninetta entusiasta gli stava raccontando la sua vita trascorsa quando all'improvviso fu interrotta da Armando che in preda alla gelosia invitò Ninetta a rientrare in macchina, ed andarono via, lasciando Giovanni lì. Ninetta ebbe solo il tempo di abbassare il vetro per salutare Giovanni che urlò in quel frangente di tempo: <<Non sono più uno scugnizzo!>> Ninetta lo guardò con aria sorpresa, capì che a distanza di anni tante cose erano cambiate, ma quel giorno ricevette il primo schiaffo da Armando che in preda all'ira gli disse: <<Non ti permettere più di fare quello che hai fatto!>> Ninetta rispose: <<Ma è un vecchio amico e l'ho semplicemente salutato>> Armando replicò: <<Tu sei la mia femmina! Non devi guardare nessun uomo né tantomeno abbracciarlo! Mi sono spiegato?>> Ninetta abbassò la testa e iniziò a percepire brutte sensazioni; quello era un brutto presagio, pensò da subito che un nuovo incubo si stesse presentando nella sua vita. Giovanni fu deluso dalla brusca reazione di Armando; aveva capito subito che era un atto di gelosia, ma capì anche che il gesto di Ninetta era istintivo dato il loro forte legame. Sperò di poterla rivedere, ma nello stesso tempo fu felice: era ben vestita e stava con un uomo che potesse badare a lei. Ormai mancavano pochi mesi alla fine della scuola e Giovanni si stava preparando per l'esame di terza media. Per questo si iscrisse ad un doposcuola gestito dalla signora Lucia che nella sua abitazione assisteva già diversi ragazzi nello studio. Grazie a questo aiuto esterno Giovanni riuscì a prepararsi discretamente per gli esami. Nel giugno del 1989 Giovanni, emozionatissimo si presentò agli esami, ma da subito si accorse che era tutta una pagliacciata. I professori stessi fecero copiare i compiti ai ragazzi o li istruirono a fare discorsi compiuti. Si accorse ben presto che il suo sforzo era stato vano e che qualsiasi persona in quelle condizioni avrebbe potuto conseguire la terza media. Giovanni, per l'ennesima volta, ebbe la sensazione che le istituzioni trasmettessero un messaggio errato ai giovani: che senso aveva studiare se anche una persona che non lo aveva fatto sarebbe riuscita a passare gli esami? Infatti, fu promosso e ricevette il diploma di licenza media con il voto "buono". I suoi professori tentarono di convincerlo a proseguire gli studi, ma lui era fermamente deciso ad imparare il mestiere. Fu uno dei pochi scugnizzi della sua banda che riuscì a finire le scuole. In quegli anni iniziò ad entrare nel tessuto sociale la musica straniera e quindi le persone smisero di ascoltare unicamente la musica napoletana, ma anche quest'ultima. Michael Jackson, Wham, Madonna e Prince erano i più famosi. La musica era parte integrante della vita quotidiana dei ragazzi grazie al Walk-man, passavano intere giornate ad ascoltare musica. C'erano degli scugnizzi che si adoperarono a fare balli di break dance per strada e guadagnavano soldi in questo modo. Iniziarono anche a diffondersi i primi fast food. L'americanismo stava iniziando a penetrare nel tessuto sociale napoletano. Oltre a questo, stava prendendo campo anche la moda dei paninari. Uno stile di vita fondato sull'apparenza e sul consumo che coinvolgeva ogni aspetto della quotidianità e si caratterizzò tipicamente per l'ossessione per l'abbigliamento griffato e per l'uso di un caratteristico linguaggio codificato sullo stile dei cinema statunitensi. Questi fenomeni contribuirono ulteriormente all'allontanamento dei ragazzi alle bande di scugnizzi. Ninetta, vivendo in periferia, era completamente isolata da queste tendenze. Lavorava e passava il suo tempo libero con il suo fidanzato che si imponeva in modo maschilista nei suoi confronti. Il padre, come al solito, non faceva molto per cambiare le cose; subiva le azioni in modo passivo senza muovere un dito, anche perché le condizioni economiche disastrose gli davano poca possibilità di reazione. Armando era molto geloso nei confronti di Ninetta. Quest'ultima, da un lato non gradiva la situazione, ma dall'altro sì perché nella cultura napoletana le dimostrazioni di gelosia sono considerati atti d'amore.

 

 

Capitolo III - La Fuga da quel mondo

Finito le scuole Giovanni si organizzò a trovare lavoro. La mattina di un settembre del 1989, uscì da casa con grande entusiasmo, iniziò a girare per la città alla ricerca di un posto dove iniziare a lavorare. Aveva con sé un elenco di officine iniziò ad andare presso ognuna di esse, credendo sarebbe stato un gioco da ragazzi trovare un lavoro, anche da apprendista. Purtroppo per lui non fu così, nessun titolare delle officine elencate era interessato a lui. Ma non perché non avessero bisogno di un aiuto, Giovanni non aveva considerato il fatto che a Napoli l'assunzione di un'apprendista, senza nessun contratto, avveniva solo tramite conoscenze o raccomandazioni. Presentandosi senza rispettare questi requisiti non c'era molta speranza di essere assunti. Verso sera Giovanni rientrò a casa, reduce di un lungo giro. Era molto stanco, e appena tornato, sua madre lo guardò e capì che non era tornato con buone notizie. Lo fece accomodare sulla sedia e appoggiandogli la mano sulla spalla gli disse: <<Ascolta Giovanni, io sono molto dispiaciuta, ma per gente come noi c'è poco da fare, non conosciamo nessuno che ci possa raccomandare in qualche officina. Credo che tu debba abbandonare quest'idea.>> Giovanni si alzò di scatto e rispose: <<Non mi arrenderò mai, voglio imparare il mestiere e lo farò!>>. Giovanni era molto determinato e anche se quella giornata gli era andata male, le sue speranze erano sempre accese. Fare il meccanico per lui significava tutto. Giovanni alzò la testa e procedette con decisione. Fece visita a molte officine ma nuovamente senza successo. Sfiancato decise di fare ritorno a casa. Sulla strada incontrò nuovamente i suoi amici che iniziarono a prenderlo in giro e farlo sentire in colpa. Giovanni, irremovibile passò dal portone e salendo di corsa le scale bussò la porta, aperta da sua madre che con sguardo felice gli disse: <<Ho buone notizie per te, sono riuscito a convincere Gennaro, il titolare dell'officina del nostro quartiere ad assumerti. Sta aprendo una nuova officina, ha bisogno di un collaboratore.>> Giovanni fece i salti di gioia, non sentiva alcuna stanchezza, abbracciò la mamma e gli disse <<Sono felicissimo! Dimmi quando iniziare>>. Sua madre gli rispose: <<Gennaro mi ha detto che ha fittato un locale all'aperto che sarà un parcheggio auto e all'interno di esso costruirà l'officina, ma nel frattempo dovrai aiutare il muratore fino alla conclusione dei lavori. In seguito, potrai fare il meccanico.>> Giovanni era incredulo. Rispose: <<Ma come, dovrò fare il muratore? Dovrò costruire un'officina?>> La madre replicò: <<Purtroppo sono queste le condizioni. È un mese di sacrifici, poi potrai cominciare con il tuo mestiere.>> Anche se inizialmente Giovanni avrebbe dovuto improvvisarsi muratore, era ugualmente felice. La mattina successiva si recò al cantiere alle 8:30, come da accordi. Lì trovò Gennaro che aprì il cancello e lo fece entrare, dicendogli: <<Giovanni, aspetta, tra poco arriverà Mario, il muratore. Dovrai seguire le sue direttive per la costruzione dell'officina.>> Gennaro si allontanò. Giovanni aspettò fino alle ore 13, ma nessuno si fece vivo. Per cui decise di chiudere il cancello e avvertire Gennaro, il quale si arrabbiò: <<Non puoi decidere di testa tua! Devi stare lì e aspettare. Capito?!>> Così Giovanni ritornò al cantiere, deluso da quella reazione. Pensava di aver fatto la cosa giusta e non riusciva a capire perché Gennaro si fosse arrabbiato così tanto. Quel giorno non si presentò nessuno. Mario si presentò il giorno successivo intorno alle 11. Giovanni vide entrare un uomo di circa 50 anni, con un abbigliamento da impiegato e una cartellina in mano. Gli si avvicinò e disse: <<Guagliò, anche se non hai mai fatto il muratore dovrai iniziare facendo una buca lunga 2 metri e profonda 30 cm.>>Gli fornì un martello e uno scalpello, e preso un gessetto tracciò a terra la sagoma della buca da scavare. Giovanni lo guardò incredulo: <<Ma come? Io devo fare questa buca? Non credo di riuscirci.>> Mario, andando via, disse: <<Io ho da fare al comune. Tu inizia a lavorare. Verrò a farti visita in giornata.>> Giovanni iniziò a martellare e riuscì in un'ora a realizzare solo un piccolo solco. La terra troppo dura, difficile da scavare. Non aveva abbastanza forza da portare a termina ciò che gli era stato ordinato. Ad un certo punto lasciò cadere dalle mani martello e scalpello, si inginocchiò e iniziò a piangere. Si sentiva solo davanti a una cosa più grande di lui. Aveva immaginato che sarebbe stato un collaboratore; invece, Mario era solamente un impiegato comunale che si occupava di lavori edili come seconda attività e sfruttava i suoi collaboratori senza farsi alcuno scrupolo. Finita la giornata, Giovanni tornò a casa stanco e con un dito gonfio. Spiegò la situazione ai suoi genitori che impotenti e con aria di rassegnazione ascoltavano. Purtroppo per lui, i suoi genitori gli spiegarono che la gavetta funzionava così e che avrebbe dovuto resistere. Giovanni non la percepiva come una gavetta, aveva capito fin da subito che Gennaro aveva ingaggiato Mario perché non voleva spendere troppo per i lavori. E Mario voleva che se ne occupasse Giovanni benché non avesse la minima esperienza, privo di qualsiasi dispositivo di protezione. Il tutto per sole 30 000 lire a settimana. Mario si presentò dopo diversi giorni, e quando si accorse che il lavoro era molto arretrato rispetto alle sue aspettative, si arrabbiò tantissimo, andando via. Giovanni non sapeva cosa fare, scavare quella buca richiedeva la forza di un adulto e le adeguate attrezzature, ma, nonostante ciò, si pretendeva l'impossibile da quel ragazzo che a soli 14 anni era costretto a fare i miracoli solo per guadagnarsi quel posto da meccanico. Un giorno si presentò Gennaro, per vedere come procedessero i lavori. Notò che era stato fatto ben poco e capì subito che era stato affidato tutto a Giovanni. Gli si avvicinò e disse: <<Giovanni capisco che ti è stato affidato un lavoro che non rientra nelle tue capacità, oggi stesso contatterò Mario per vedere se riesce a mandarti qualcuno ad aiutarti. Altrimenti qui ci vorrà un anno per ultimare tutto.>> Giovanni lo guardò con aria sollevata e iniziò a martellare con forza per dimostrare che la volontà non mancava di certo. Ma Gennaro lo interruppe dicendogli: <<Giovanni sappi una cosa, in questo piazzale ci sono 3 auto. Che sono parcheggiate qui come se fosse un garage. Ricordati che non dovrà mai entrare un'eventuale quarta auto. Capito? È molto importante che tu sappia questa cosa. Chiunque voglia entrare, tu non dovrai mai farlo entrare.>> Giovanni era incuriosito ma allo stesso tempo spaventato perché non gli era stato spiegato il motivo per cui non sarebbe dovuta entrare la quarta auto. Era un mistero che non approfondì più di tanto poiché concentrato a scavare quella buca interminabile. I giorni passavano. Mario tornava ogni tanto a visionare il proseguire dei lavori, insoddisfatto dei risultati decise di rivolgersi a Gennaro. <<Gennà non potevi darmi un guaglione più capace? Sembra che stia sbucciando le noccioline.>> disse Mario. Gennaro non replicò. Un pomeriggio si avvicinò un’auto al cancello del cantiere, all'interno vi era un uomo con una folta barba e i capelli lunghi. Suonò il clacson, attirando l'attenzione di Giovanni che uscì fuori, ma prima di avvicinarsi all'auto diede un'occhiata al piazzale e notò che vi erano già tre auto parcheggiate. Con passo lento si avvicinò all'uomo per chiedere cosa volesse. L'uomo abbassò il finestrino e gli disse: <<Mi manda Gennaro, mi ha dato l'ordine di parcheggiare dentro al piazzale.>> Giovanni si ricordò dell'avvertimento ricevuto e rispose: <<Gennaro ha detto che non deve entrare nessuno.>> L'uomo iniziò a gridare come un matto, minacciando Giovanni di farlo licenziare. Giovanni intimorito cedette e aprì il cancello, facendo entrare la quarta auto. L'uomo scese dall'auto e gli disse che sarebbe tornato dopo mezz'ora per riprenderla, andando via. Giovanni ritornò al suo lavoro, quando fu chiamato da tre uomini che si trovavano fuori al cancello. Si avvicinò a loro e notò subito che avevano un'aria minacciosa. Uno di loro gli disse: <<Guagliò, dove sta Gennaro?>> Giovanni rispose: <<Sta sicuramente in officina.>> L'uomo rispose: <<Prendi la mia vespa, vai subito da lui e portalo qua.>>
Giovanni chiuse il cancello, montò sulla vespa del signore e si recò rapidamente all'officina. Arrivato lì, non trovò Gennaro, ma anzi il suo collaboratore che gli riferì che era uscito a comprare un pezzo di ricambio e sarebbe ritornato a breve. Nella curiosità Giovanni aprì il bauletto della vespa e al suo interno vi trovò una pistola. Dallo spavento chiuse immediatamente il bauletto e si allontanò. Il cuore gli batteva fortissimo e iniziò ad avere paura. Il tempo passava, ma di Gennaro non vi era traccia. Giovanni pensava a quell'uomo che gli aveva detto di fare in fretta; in preda alla paura iniziò a pensare che forse non avrebbe dovuto far entrare la quarta auto nel piazzale. Pensò che forse quell'uomo dalla barba folta gli avesse mentito. All'improvviso si presentarono davanti ai suoi occhi l'uomo con la barba accompagnato da due scagnozzi. Gli si avvicinò e disse: <<Credi di prenderti gioco di noi? Ti stiamo aspettando. E tu stai qua senza fare niente?>> Gli diede uno schiaffone che lo fece sbattere contro un portone. Cadde a terra, quasi stordito, prima che gli arrivasse un altro colpo arrivò Gennaro urlando: <<Ma che sta succedendo?>>. L'uomo con la barba si voltò e rispose: <<Sali sulla vespa e vieni con noi. Ti dobbiamo dire delle cose.>> Gennaro senza esitare andò via con loro. Giovanni non ebbe la forza di chiedere se avesse autorizzato lui l'accesso della quarta auto. Si alzò e tornò a casa. Era mezzo stordito, si sciacquò il viso con acqua fredda per non destare sospetti ai suoi genitori. Non voleva che sapessero dell'accaduto. Pensava che si trattasse di un episodio isolato e che sarebbe tutto finito. Sua madre lo guardò e percepì immediatamente che qualcosa non andava. Giovanni era tornato molto prima del solito e non aveva un buon aspetto. Non esitò a chiedergli: <<Giovà, tutto bene?>> Giovanni si voltò e chiuse gli occhi per non scoppiare a piangere, rispondendo: <<Mà, tutto bene, oggi abbiamo chiuso prima.>> Non era il colpo che gli aveva fatto male, ma il fatto di aver subito un'azione crudele da parte di un uomo adulto, nel quale lui riponeva rispetto e fiducia. Raccontare tutto ai suoi genitori avrebbe suscitato altre preoccupazioni in famiglia, che non avrebbero portato a nulla di buono. Rivolgersi alle forze dell'ordine era un pensiero da non mettere in conto per alcun motivo - avrebbe causato solo problemi a sé stesso e alla sua famiglia: sarebbe stato immediatamente licenziato e la sua famiglia isolata completamente dalla vita di quartiere. Giovanni era schiavo di queste regole e non poteva sottrarsi ad esse; per il bene suo e della sua famiglia. Verso le ore diciotto di quel giorno uno scugnizzo bussò alla porta di casa sua dicendogli: <<Giovà, vai subito in officina. Ci sta Gennaro che vuole parlare con te.>> Giovanni corse subito in officina e notò che Gennaro aveva un occhio gonfio. Si fermò di scatto e gli chiese: <<Mi cercavi Gennà?>> Gennaro lo prese per il collo e gridò a gran voce: <<Ma che hai combinato? Ti avevo detto di non far entrare la quarta macchina.>> Giovanni rispose: <<Ma quello aveva detto di aver parlato con te>> Gennaro replicò: <<Non sei degno di lavorare con me. Non venire più, non tieni idea di cosa hai combinato.>> Giovanni scappò via in lacrime. Corse verso casa. Il suo forte stato di agitazione e le lacrime che scendevano sul suo giovane viso non gli permisero di nascondere quanto accaduto ai genitori. Per cui decise di raccontare tutto ai suoi genitori. Aveva un forte senso di colpa che lo attanagliava; si pentiva di non aver avuto la forza e la determinazione di respingere quell'uomo che si imponeva su di lui. Si sentiva il mondo cadere addosso. Saltò la cena e andò a dormire. Non c'era la minima consapevolezza che un ragazzino di soli quattordici anni non potesse ricoprire ruoli di tale responsabilità. L'opinione pubblica era tutto l'opposto di ciò che si potesse immaginare, a Giovanni furono mosse solo accuse: "non sei buono", "sei incapace" e "non è roba tua" erano solo alcune di esse. La faccenda venne gestita da uomini di camorra che fungevano da giudici ed emettevano sentenze secondo il codice della “strada”. Giovanni inconsapevolmente aveva messo nei guai il suo titolare. Gennaro aveva intenzione di realizzare un parcheggio in quel piazzale, desiderio che gli fu impedito dagli uomini del malaffare, poiché a soli cinquanta metri dal piazzale vi era un grosso parcheggio abusivo gestito dall'uomo con la barba. I suoi clienti pagavano una retta mensile e l'uomo in cambio visionava le macchine dalla sua roulotte posta abusivamente nella piazza. Egli era un uomo crudele, prepotente e dipendente dall'alcool. Spesso la notte si metteva alla guida delle auto dei suoi clienti, ignari di ciò, sfrecciando per la città tentando di sfogare le sue frustrazioni. Era molto vicino alla malavita; versava grosse quantità di denaro a questi ultimi in cambio della loro protezione. A Gennaro fu concesso parzialmente di gestire il suo parcheggio, gli imposero di permettere il parcheggio di non più di tre auto. L'uomo con la barba non si accontentò di ciò. Sapeva bene che in quel piazzale lavorava un ragazzino ingenuo. Ingaggiò un suo scagnozzo che con inganno introdusse la quarta auto all'interno del piazzale, per far sì che Gennaro venisse meno e ricevesse le dovute conseguenze. Gli uomini di camorra volevano mettere luce sulla faccenda, non convinti dal fatto che Gennaro era venuto meno così ingenuamente e che gli scagnozzi dell'uomo con la barba lo avessero picchiato senza aver chiesto loro il permesso. La camorra doveva far valere la sua autorità e come un vero e proprio tribunale interrogarono Gennaro, l'uomo con la barba e infine il piccolo Giovanni, che fu accompagnato dai suoi genitori presso il loro "centro operativo". Fecero ingresso in un grosso appartamento, vi erano statue di leoni, lunghi tappeti e prestigiosi lampadari. Sembrava di essere in un film. Giovanni si girava attorno e ammirava tutti quegli oggetti. All'improvviso si avvicinò un uomo che intimò tutti ad accedere al salone, dove vi erano tre uomini seduti su delle poltrone e con modi cordiali invitarono tutti a sedersi su di un comodo divano. Iniziarono a fare domande a tutti e tre e ognuno presentò la sua versione dei fatti. L'uomo con la barba dichiarò di non sapere nulla della faccenda della quarta auto, ignaro del fatto che il suo scagnozzo era stato già interrogato e minacciato. Per cui non fece altro che confermare la tesi. Egli, dopo aver ammesso le sue colpe, riferì che aveva fatto tutto ciò per difendere i suoi interessi, temendo che i suoi clienti si rivolgessero a Gennaro per parcheggiare le loro auto. Uno dei tre uomini si alzò e gli diede uno schiaffo, dicendo: <<Non ti permettere più di fare a capa tua. Qua comandiamo noi. Devi chiedere a noi cosa fare: ti sei fatto giustizia da solo e hai messo le mani addosso a un ragazzino. Mo ce la vediamo noi.>> Ad un certo punto Giovanni fu invitato ad uscire insieme ai suoi genitori e per scusarsi gli diedero 100000 lire. Quel denaro fu ben accetto dai genitori di Giovanni, che mostrarono la loro devozione nei loro confronti. Invece Giovanni si oppose e cercò di spiegare che quelli erano soldi sporchi del sangue del popolo. Ricevere quei soldi significava essere complici di un sistema criminale. I genitori non diedero ascolto al figlio e gli rifilarono la solita frase: <<Se aspetti lo stato hai voglia di morire di fame!>>
Giovanni non accettava quel sistema, aveva la giusta convinzione che solo tramite il lavoro onesto e l'indipendenza economica si sarebbe allontanato da quel contesto distorto di cui era costretto a far parte. Il giorno successivo Gennaro si presentò a casa di Giovanni e gli spiegò che la camorra gli aveva dato ragione, permettendogli di continuare a costruire l'officina. In più, gli concessero di parcheggiare tutte le auto che avesse voluto. Giovanni lo interruppe e gli disse: <<Gennà, io non voglio lavorare più per te - mi avete sfruttato, mi avete fatto fare un lavoro che non sapevo fare e alla fine mi sono trovato anche in mezzo ai guai.>> Gennaro si arrabbiò e replicò: <<Ma come, io ti ho tolto dalla strada e ti ho offerto un lavoro onesto e tu mi ringrazi così?>> La mamma di Giovanni sentì il forte dialogo e si avvicinò all'uscio della porta trovandosi davanti Gennaro che si imponeva nei riguardi di suo figlio, per cui non ci vide più e a gran voce disse: <<Vattene, la tua elemosina non la vogliamo! Mio figlio non vuole lavorare più con te, vai via!>> Gennaro replicò: <<Ok, ma se cambiate idea la mia porta la trovate chiusa!>>
Detto ciò, andò via. Giovanni era ormai demoralizzato, ma decise di non ritornare più a fare il muratore improvvisato. Si mise nuovamente alla ricerca di un lavoro, ma questa volta applicò un altro metodo: non chiedeva solo alle officine se avessero bisogno di un collaboratore, ma estese la richiesta a ogni attività che si trovasse davanti. In questo modo le possibilità di essere assunti sarebbero aumentate. Il suo obbiettivo era di trovare un lavoro qualsiasi, e con calma trovare quello di meccanico. Fece altri tentativi e trovò lavoro in un negozio di orologi nei pressi del porto di Napoli. Era un negozio di grosse dimensioni a conduzione familiare che vendeva sia al dettaglio che all'ingrosso. La paga era di 60000 lire a settimana. Serviva una mano al banco e bisognava prendere merce dal deposito per poi portarla al negozio. Erano circa dieci ore di lavoro al giorno, e l'unico giorno di festa era la domenica. E anche qui nemmeno l'ombra del contratto di lavoro, il tutto era stabilito verbalmente. Giovanni si diede subito da fare, cercò di dare il meglio di sé, ma si presentarono subito le prime difficoltà: Ciro, il suo titolare pretendeva dei ritmi di lavoro insostenibili, e ogni volta che Giovanni impiegava più tempo del dovuto per fare qualcosa veniva sgridato e minacciato. Purtroppo, anche in questo negozio Giovanni trovò solo un clima di prepotenza e abuso nei suoi confronti. Cercò di resistere ma ogni giorno che passava lo sconforto aumentava sempre di più. Venivano clienti da tutta Italia per comprare orologi all'ingrosso e spesso Giovanni caricava la merce acquistata dal cliente sul carrello e lo accompagnava fino all'automobile. Gli venivano date sempre mance generose, ma notò che tutti i clienti gli ripetevano sempre la stessa frase: <<Se ci ferma la Polizia o la Guardia di Finanza mentre porti la merce con il carrello devi dire che tua!>>. Giovanni inizialmente non diede molto peso a questa raccomandazione, in seguito iniziò ad incuriosirsi e a chiedere ai suoi parenti il perché di ciò, ma nessuno gli seppe fornire una risposta. Fino a quando un suo vicino, il quale era un commerciante, gli spiegò il perché: la merce era venduta senza il rilascio di alcuna fattura, per cui le eventuali sanzioni sarebbero state inflitte al piccolo Giovanni, fino ad allora ignaro di tutto ciò.

Ecco spiegato il motivo delle generose mance. Questa notizia lo scoraggiò, e iniziò a pensare di ultimare la settimana di lavoro in corso, prendere la paga e di licenziarsi (o meglio, non presentarsi più). Durante i giorni successivi cercò di familiarizzare con i titolari, ma ogni qual volta che tentava era una completa delusione: in quel negozio si respirava un clima malsano, nonostante i titolari fossero parenti, tra di loro non vi era alcun rapporto, ma anzi, le uniche parole spese erano relative al lavoro. Erano cupi e arrabbiati. Il venerdì, alla chiusura serale del negozio, Ciro disse a Giovanni: <<Giovà, domani devono venire alcuni clienti da Roma, siamo molto impegnati quindi non andare a casa a mangiare che ci facciamo un panino qui.>> Giovanni avvertì i suoi genitori di ciò. Il giorno successivo iniziarono a lavorare con molta intensità. Verso le ore 13, Giovanni fu chiamato dal suo titolare: <<Giovà, prendi questi soldi e vai dal salumiere, vai a prendere quattro panini con la mortadella. Fai presto che teniamo da fare.>> Giovanni si diresse rapidamente dal salumiere, facendo però una riflessione: nel negozio lavoravano cinque persone, perché il titolare gli aveva chiesto di comprare un panino in meno? Ragionò come un ingenuo ragazzino e immaginò che uno di loro avrebbe diviso il suo panino con lui. Appena fece ritorno al negozio, ogni membro della famiglia dei titolari prese il suo panino e senza aggiungere alcuna parola iniziarono tutti a mangiare. Giovanni rimase impietrito davanti a una scena del genere. Non riusciva a credere a quello che stava vedendo, ognuno di loro azzannava il proprio panino e nessuno si preoccupò di lui che stava lì a guardare. I suoi titolari non avevano pensato a lui, nessuno si era preoccupato e questo lo fece nuovamente sprofondare nello sconforto. Non riusciva a comprendere quella indifferenza nei suoi confronti. Decise di farsi forza e affrontare l'ultima giornata di lavoro, appena ricevuta la paga salutò tutti e fece ritorno a casa. Raccontò tutto a sua madre e gli disse che non avrebbe voluto più rivedere quella gentaglia. Il lunedì, i titolari notarono che Giovanni non si presentò a lavoro, per cui si presentarono sotto casa sua, accolti da sua madre che gli spiegò che Giovanni avrebbe voluto cambiare lavoro e per cui non sarebbe più tornato. Giovanni trascorse alcuni giorni a casa senza uscire, per smaltire quella brutta esperienza e spesso veniva invitato dai suoi amici scugnizzi a ricandidarsi di nuovo nella banda, gli dissero che avrebbero messo una buona parola per convincere Mariolino, fu tentato a mollare tutto e tornare a fare lo scugnizzo, ma qualcosa in lui gli impediva di farlo. Il giorno successivo, Luigi, suo cugino disse che c'era un benzinaio al Corso Vittorio Emanuele che era alla ricerca di un collaboratore. Giovanni vi si recò senza indugiare per parlare con il titolare, Alfredo che gli spiegò come funzionava, avrebbe dovuto lavorare dalle 9 del mattino fino alle 8 di sera per una paga di 70000 lire a settimana, escluse mance extra ricavate grazie alla pulizia dei vetri dei clienti. Anche qui, ovviamente, senza alcun contratto. All'indomani Giovanni si recò sul posto di lavoro e imparò rapidamente ad erogare la benzina ai clienti. Era un lavoro abbastanza tranquillo, ma purtroppo gli fu dato un incarico di estrema responsabilità. Appena dopo la pausa pranzo alle ore 14, il titolare gli lasciava gestire la struttura fino alle ore 18:30. Durante quelle ore, Giovanni si sentiva avvilito, doveva erogare la benzina, incassare il denaro, dare l'eventuale resto e prestare attenzione a tutto. Alle ore 18:30, al ritorno di Alfredo, tirava un sospiro di sollievo; aveva in tasca un mucchio di soldi. Il distributore si trovava in una zona isolata, facile preda di rapinatori. Alfredo al suo ritorno era spesso ubriaco e arrabbiato poiché gli incassi non rispettavano le sue aspettative, nonostante tutto ciò non dipendesse da Giovanni. Il suo titolare pretendeva i migliori risultati senza dare conto alle condizioni dei suoi lavoratori. Giovanni la sera ritornava a casa verso le ore 21, stanco e sfinito. Aveva solo mezza giornata il mercoledì di libertà e la sfruttava per cercare un lavoro come meccanico. Un pomeriggio di inverno si avvicinarono al distributore quattro uomini seduti su due vespe piaggio, gli chiesero di erogare la benzina e fu pagato con banconote di grosso taglio. Giovanni prese il resto dalle sue tasche e in quello stesso momento fu spinto a terra da uno dei quattro uomini, il quale tentò di rubargli tutto il ricavato dalle tasche. Le urla di Giovanni attirarono l'attenzione di alcuni passanti, ragione per cui i rapinatori decisero di andarsene. Alcuni passanti si avvicinarono e tentarono di tranquillizzare Giovanni, sbigottiti dal fatto che un intero distributore di benzina era affidato ad un ragazzino di 14 anni. Alfredo fece ritorno al solito orario. Giovanni gli riferì della tentata rapina e si aspettava comprensione e incoraggiamento, ma la reazione fu tutt'altra: si arrabbiò e lo incolpò di non avere la giusta autorità per difendersi. Tirò fuori una pistola finta da un cassetto e la mostrò a Giovanni dicendogli: <<La prossima volta caccia questa, così si spaventano perché sembra vera.>> Giovanni lo guardò incredulo, in pratica gli era stato intimato di difendere l'incasso con una finta pistola. Iniziò a pensare che neanche questo lavoro facesse al caso suo. Si sentiva umiliato e nel profondo del suo animo stava lì al suo posto di lavoro con la giacca che gli stava stretta, con il logo dell'azienda petrolifera stampata sopra e davanti a sé passavano tutti i giorni automobili delle istituzioni di qualsiasi livello. Mai nessuno di loro tese la mano ad aiutarlo, che ne avrebbe avuto tanto bisogno. C'era quella indifferenza che si ergeva nella cultura napoletana, per la quale tante e troppe cose che non sono per niente normali diventano paradossalmente tali. Così diviene molto più semplice ed economico girarsi dall'altra parte e far finta di niente lasciando la plebe napoletana in balia delle onde. L'unico che si fece avanti per aiutarlo fu un coetaneo, studente di una vicina scuola, il quale guardando Giovanni erogargli la benzina disse: <<Non dovresti lavorare alla tua età. I ragazzi della nostra età hanno tutto il diritto di essere liberi, di scegliere il miglior avvenire. Ricordati: solo con l'istruzione potrai uscire da questo contesto. Lascia tutto e iscriviti alle scuole superiori che sei ancora in tempo.>> Disse ciò con gli occhi lucidi, salutò Giovanni e andò via. Lui era profondamente convinto che il lavoro fosse l'unica strada che gli permettesse di liberarsi di quel contesto. Un giorno si presentò al distributore un vecchio collaboratore di Alfredo, Nicola. Alfredo parlava spesso di lui, e dalle sue parole traspariva tutta la sua ammirazione. Era un tipo arrogante e presuntuoso, convinto di essere una persona invincibile. Alfredo lo convinse a ritornare a lavorare per lui ed egli accettò dopo tanta insistenza. Ad un certo punto Nicola si voltò verso Giovanni e disse: <<E a lui dove lo mettiamo?>> Alfredo con grande diplomazia rispose: <<Lui è un bravo ragazzo, deve imparare ancora tante cose, gli farà bene lavorare con te.>>, poi si voltò verso Giovanni e aggiunse: <<Giovanni, tutti dobbiamo fare dei sacrifici. Per il nostro bene io assumo di nuovo Nicola, ma la tua paga scenderà a 40000 lire a settimana.>> Giovanni accettò, anche perché, se si fosse opposto sarebbe stato licenziato immediatamente. Ormai era arrivato Nicola che risolveva tutti i problemi del mondo. Giovanni non serviva più, ma gli fu proposto di rimanere per il semplice motivo che Nicola era un tipo instabile: all'improvviso poteva andare via, come già capitato in passato, e in quel caso sarebbe subito servito qualcuno per rimpiazzarlo. Il rapporto tra Nicola e Giovanni fu subito molto contrastante: egli si imponeva con arroganza e prepotenza. Giovanni, esausto da questi personaggi che si imponevano nella sua vita, iniziò a scontrarsi più volte. C'era scintilla tra di loro, a Nicola era stata affidata da Alfredo l'autorità di comandare su Giovanni, ed abusava di questo suo potere. Le mance non venivano divise in parti uguali. Nicola lasciava a Giovanni solo una piccola parte. Una volta al mese ogni distributore di benzina doveva restare aperto tutta la domenica. Quel giorno il lavoro fu durissimo, c'era una lunga fila di automobili da servire, bisognava essere velocissimi senza commettere alcun errore. Nicola sgridava a gran voce Giovanni perché pretendeva la rapidità nel gestire il lavoro. Giovanni decise di subire e di non reagire, si sentiva di troppo ormai, tutta l'attenzione era rivolta a Nicola, era il pupillo, più grande d'età e godeva di un'esperienza lavorativa superiore. Finirono di lavorare tardi, Giovanni prese la sua paga e andò via. Decise di non tornare più a lavorare da Alfredo e iniziò nuovamente a cercare lavoro senza arrendersi. Dopo alcuni giorni, fece visita in officina ed ebbe un colloquio con Roberto, titolare che spiegò che possedeva due officine; una piccola nella quale aggiustava solo automobili ai Quartieri Spagnoli, in chiusura, ed un’altra più grande dove aggiustavano automobili, motorini e avevano anche un autolavaggio, a Sant'Anna di Palazzo. La paga era di 35000 lire a settimana, ovviamente senza alcun contratto di lavoro. Giovanni era entusiasta, finalmente aveva trovato un lavoro, stava per iniziare a fare il meccanico, la sua passione. Il giorno dopo si presentò a Sant'Anna di Palazzo come gli era stato detto, e prese servizio. La sua mansione era quella di apprendista, passava i ferri di lavoro al suo titolare e osservava con attenzione per imparare il mestiere. In poco tempo riuscì ad apprendere semplici lavori in piena autonomia. Più passava il tempo e più imparava. Un giorno si presentò il farmacista che si trovava al vicolo successivo, era furibondo; spiegò a Roberto che i gas prodotti dai motori entravano nella sua farmacia tramite una finestra confinante. Roberto inizialmente non credette alle sue parole, ma alle insistenze del farmacista decise di inviare Giovanni per vedere se le sue parole erano vere. A Giovanni fu detto: <<Anche se senti odori di gas, dici che non li senti!>> dal suo capo. Giovanni lo guardò e disse: <<Come faccio a negare?>> Roberto rispose: <<Sicuramente sarà qualcosa di poco... sta esagerando, sono sicuro>>. e aggiunse <<Vai lì o puoi finire di lavorare oggi stesso.>> Giovanni si presentò in farmacia e fu accolto dai titolari con molta gentilezza e disponibilità, lo invitarono ad entrare, gli mostrarono l'interno del locale. Ad un certo punto dalla finestrella entravano i gas di scarico così come aveva raccontato. Era talmente evidente che Giovanni non riuscì a negare. Era assurdo negare una cosa così palese. I farmacisti con molto garbo esposero il loro disagio e lo invitarono a riferire al suo titolare di confermare ciò che gli avevano mostrato e di prendere provvedimenti in merito. Giovanni uscì dalla farmacia angosciato, aveva disubbidito alla richiesta assurda del suo titolare. Si fece forza e ritornò in officina. Cercò invano di far ragionare Roberto, a spiegargli che stava nel torto e l'unica cosa da fare è costruire una cappa metallica che avrebbe indirizzato i gas di scarico in cima all'edificio senza creare disagi a nessuno. Sembrava una cosa logica e sensata, ma non per Roberto che si infuriò e lo insultò dicendogli che aveva disubbidito. Giovanni spiegò che c'era tanto fumo ed era impossibile negare, ma Roberto in preda all'ira gli disse: <<Ora gli faccio vedere io chi ha ragione, domani vado da chi so io e gli faccio chiudere la farmacia. Non ti licenzio perché mi fai pena, però starai alla vecchia officina senza far nulla, ad avvisare e accompagnare i clienti alla nuova officina, a darmi una mano verrà un altro ragazzo che ho dovuto per forza assumere>> Giovanni capì subito che Roberto aveva intenzione di rivolgersi alla camorra per punire il farmacista, ma a furia di chiedere favori fu costretto, malgrado non ce ne fosse bisogno, ad assumere un nuovo ragazzo. Ancora una volta Giovanni stava pagando per colpe non sue. Purtroppo, lui era l'ultima ruota del carro, era colui che doveva fare la gavetta, almeno così dicevano i genitori, ma si rifiutava di accettare che per lavorare dovevi fare azioni disoneste e accettare delle regole assurde dove non si pronunciano il senso del rispetto delle regole, ma il più forte ha la sopraffazione sul più debole. Il giorno successivo aprì la vecchia officina e si sedette su una sedia a non fare nulla, il tempo sembrava non passare mai. Veniva pagato per non fare nulla. Nessun cliente venne a chiedere dove fosse la nuova officina, perché ormai tutti ne erano al corrente. Roberto sapeva bene che Giovanni era una persona valida e non voleva perderlo, per questo non lo licenziò, ma bisognava che pagasse per la sua disubbidienza. Un giorno un uomo che abitava di fronte alla vecchia officina chiese la cortesia a Giovanni di prestargli una pinza, così Giovanni gliela diede. Quest'uomo fece un piccolo lavoretto alla propria auto e gliela restituì ringraziandolo. Il giorno dopo Roberto fece visita a Giovanni e gli chiese se c'erano state novità. Al che Giovanni gli disse che aveva prestato una pinza al vicino. Roberto non si arrabbiò più di tanto, ma gli ordinò di non prestare nessun attrezzo di lavoro a nessuno. Le giornate passavano nell'ozio totale, era come stare in prigione. Stava lì in quella piccola officina di trenta metri quadri. Quella non sembrava una punizione, ma una condanna, sperava che prima o poi sarebbe tornato alla nuova officina, dove c'era tanto da fare e imparare. Un giorno si presentò un altro signore che chiese a Giovanni di prestargli due arnesi. Giovanni spiegò che aveva avuto ordini ben precisi dal suo titolare di non prestare niente a nessuno. Quest'uomo lo guardò e gli diede due schiaffetti sulla guancia, dicendogli: <<Forse tu non sai chi sono io>>

Giovanni gli spostò con forza la mano dalla sua guancia e rispose: <<Mi dispiace, non so chi siete, ma gli ordini sono questi>>. Quest'uomo si girò e andò via. Sembrava tutto finito lì, ma il giorno successivo si presentò Roberto e insieme a quell'uomo. Giovanni fu subito verbalmente aggredito da quell'uomo, accusato di non aver nessun rispetto per un uomo d'onore. Giovanni guardò negli occhi Roberto e avvertì subito un clima di sottomissione. Subì un rimprovero, non perché non aveva dato gli arnesi a quel signore, ma perché non lo aveva riconosciuto, e questa è una cosa grave. Roberto implorò al signore di non prendere provvedimenti nei riguardi di Giovanni, e alla fine quell'uomo sfoggiò tutta la sua finta umanità. Disse che era un uomo di cuore, e concesse il perdono. Uscì dall'officina, si sedette in un’auto modesta che stava fuori, guidata da un'autista. Scortato da due uomini posti rispettivamente davanti e indietro all'auto, sulla sella di una vespa e armati, e andò via. Roberto tirò un sospiro di sollievo, decise di non punire Giovanni perché infondo aveva fatto il suo dovere e lo invitò a documentarsi sui volti degli uomini della camorra, perché a loro non bisognava negare nulla. Lo fece ritornare alla nuova officina perché ormai aveva scontato la punizione, ma anche perché un altro sgarro ad un camorrista del genere gli poteva costare molto caro. Giovanni iniziò subito a mettersi in opera in officina senza risparmiarsi, ma l'altro ragazzo di nome Paolo anche se era meno bravo gli veniva data più attenzione. Ma questo non lo scoraggiò, aveva tanta voglia di imparare. Un giorno si presentò in officina un ragazzo che abitava al Vomero, disse che il suo motorino si era spento e non voleva più ripartire. A Giovanni gli fu ordinato di andare a recuperare il motorino che stava circa a duecento metri dall'officina per vedere che problemi avesse. Giovanni verificò alcune cose e notò subito che era semplicemente da sostituire la candela. Preferì sottoporre il motorino al giudizio del suo titolare. Giovanni fece presente a Roberto che con la sostituzione della candela avrebbe risolto il problema con sole 10000 lire. Roberto lo portò in disparte e gli disse: <<Senti Giovà, vedi che questo sta vestito bene e ha il motorino costoso. sicuramente sta pieno di soldi. 'Mo gli facciamo il pacco.>> Giovanni rispose: <<In che senso?>> Roberto replicò: <<Tu digli che ci sono dei pezzi dentro al motore da cambiare e che ci vogliono 400000 lire.>> Giovanni rimase incredulo e Roberto aggiunse: <<Qua ci sono tante spese e ultimamente ho dovuto assumere due persone che non mi servono. Per questo ci servono tanti soldi.>> Giovanni ubbidì e fece presente a quel ragazzo che era una cosa seria e tutto avrebbe avuto un costo di 400000 lire. Il ragazzo si spaventò dal costo elevato e accettò ugualmente, si recò in bancomat per ritirare il denaro col bancomat. Nel frattempo, al suo motorino fu cambiata solo la candela. Poi appoggiarono a terra alcuni pezzi di ricambi per giustificare l'avvenuto montaggio. Come anche la lattina d'olio, era sempre quella di buona marca che veniva mostrata aperta ma in realtà il cambio d'olio avveniva con olio scadente, il ragazzo pagò e ringraziò, andando via felice di aver ricevuto l'ottimo servizio. Giovanni iniziò a riflettere su queste azioni disoneste, non poteva ribellarsi e tantomeno spiegare che forse lavorare con onestà avrebbe portato più risultati invece di imbrogliare gli ignari clienti che riponevano la loro fiducia a Roberto.
Si sentì in colpa di aver mentito a quel bravo ragazzo che era stato ingannato a tal punto che non dormì tutta la notte. Era inutile consultarsi con qualche familiare, avrebbe sicuramente avuto la solita risposta: <<Qua funziona così.>> Lui aveva la piena consapevolezza che non funzionava così. Funzionava male. Un giorno Roberto obbligò Giovanni a recarsi in un’abitazione che lui aveva appena comprato per togliere tutto il vecchio parato dalle mura delle stanze, gli fece presente che lo aveva salvato dalle grinfie dalla camorra e per questo doveva restituire il favore ricevuto. Gli era stato detto che era un lavoro semplice da fare ma in realtà non era così. La casa era vecchia e il parato non andava via con facilità, bisognava usare una stecca metallica bagnata con acqua calda e raschiare con forza. Furono giorni duri, solo e senza l'aiuto di nessuno riuscì a terminare tutto il lavoro ordinato. Non ricevette né ringraziamenti né premi, nulla di questo. Questi atteggiamenti facevano molto male, perché un grazie avrebbe cambiato tutto. Avrebbe dato dignità ad un ragazzino che voleva crearsi un avvenire con le sue mani. Giovanni divenne molto bravo al punto che molte persone del quartiere si rivolgevano a lui per farsi riparare il proprio mezzo. Giovanni si adoperava anche il sabato e la domenica per soddisfare le tante richieste. Certe volte finiva la sera tardi di lavorare. Utilizzava un box di un parente per lavorare, a poco alla volta comprò gli attrezzi e arnesi che servivano per fare le riparazioni più semplici. La sera quando finiva di lavorare in officina, il suo titolare andava a lavarsi le mani che erano sporche di grasso. Il titolare usava una pasta speciale, mentre ai collaboratori veniva concesso di lavarsi le mani con olio esausto e un goccio di benzina. Ovviamente era inutile. Ernesto, un amico di Roberto comprò un grosso appartamento che bisognava ristrutturare. Chiese la cortesia di farsi dare due dei suoi collaboratori. Bisognava togliere il vecchio parato, poi pulire e pitturare tutte le pareti dell'appartamento. Furono inviati Giovanni e Paolo per eseguire questo lavoro "non retribuito". A loro veniva data la paga settimanale come lavoranti in officina che gli veniva data il sabato pomeriggio lanciati quasi come un segno di disprezzo. Per il titolare non rendevano mai abbastanza e quel gesto stava a dimostrare "tu non vali questi soldi" e "devi fare di più". Riusciva a trasmettere sensi di colpa, una colpa ingiustificata al fine di richiedere sempre il massimo dai propri collaboratori per quattro soldi alla settimana. Arrivati in quell'appartamento, Giovanni e Paolo capirono subito che gli avevano affidato una mansione che non era compatibile con le loro capacità. L'appartamento era grande e loro erano solo due ragazzi, non avevano i mezzi adeguati e non avevano l'esperienza giusta. Bisognava farlo, altrimenti venivano licenziati. Si iniziava dopo le ore 19:30, lavoravano senza sosta fino alle ore 22:30. Erano tre ore interminabili. Stanchi e già provati da una lunga giornata di lavoro in officina, i due ragazzi lottarono con tutte le loro forze per cercare di portare il loro lavoro avanti il più possibile, ma non fu di questo avviso Ernesto che fece visita per vedere a che punto fossero. Si arrabbiò e li accuso di essere lenti ed incapaci. I ragazzi fecero presente a Roberto che la situazione era insostenibile e non ce la facevano più a sostenere quei ritmi di lavoro. Roberto replicò: <<Ragazzi, avete ragione ma purtroppo è un favore che devo fare per forza ad Ernesto. Sono in debito con lui e con certe persone bisogna ripagare i favori ricevuti senza discutere, stiamo a Napoli, funziona così.>> Ancora quella frase che risuonava nella mente di Giovanni: <<Siamo a Napoli e funziona così...>>. Era inaccettabile subire così senza reagire. Vedere un'intera popolazione con il capo chinato senza alcuna reazione. Ma bisognava che qualcuno iniziasse, ci voleva qualcuno che dicesse: <<Ora basta!>>. Ma chi? Un ragazzino di 14 anni? Quel ragazzo che lasciò la vita da scugnizzo e la scuola per mettere piede nel mondo lavorativo dove le attività sono sottomesse a regole dettate dalla sopraffazione e violenza. O ti adegui o muori; Napoli funziona così. Giovanni iniziò a provare rabbia verso quelle regole, spesso si confrontava con altri suoi coetanei che come lui scelsero di andare a lavorare. La situazione era simile per tutti. Regnava l'ignoranza, l'arroganza, l'abuso e il ricatto. C'era qualcuno che gli raccontava che a fine settimana non riceveva neanche la misera paga che gli spettava. Ragazzi costretti a lavorare perché le famiglie avevano bisogno di denaro. Altri facevano lavori forzati. Giovanni si confrontava continuamente e alla fine capì che la città era malata in tutti i sensi, e per i miserabili c'era solo la sofferenza e la sottomissione. Lesse una scritta su un muro che gli rimase impresso nella mente “La vita è un diritto non un elemosina” Per la prima volta decise di ribellarsi, si presentò dal suo titolare e iniziò a chiedere orari di lavoro e paga più ragionevoli e infine gli disse che mai più avrebbe messo piede in casa di Ernesto a fare il muratore contro la sua volontà, e soprattutto se non retribuito. Roberto si alzò dalla sedia e gli disse: <<Vattene oggi stesso. Ti ho dato la possibilità di imparare il mestiere e tu inizi a dettare legge? Non hai capito come funziona il lavoro. Vai via e non farti più vedere. Farò in modo che non ti prenderà a lavorare più nessuno. Gente come te devono essere schiacciate!>> Giovanni rispose: <<Guarda che io non devo dire grazie a nessuno, mi hai assunto senza contratto, mi hai fatto fare dodici ore di lavoro al giorno con una paga da fame, mi hai costretto ad imbrogliare i clienti e a fare dei lavori extra non retribuiti. Il mestiere l'ho imparato io con il mio impegno, io volevo solo rivendicare i miei diritti.>> Quel giorno Giovanni uscì da quella officina a testa alta, si sentiva una persona libera nello spirito che non voleva più sottostare a nessuno. Giovanni si ricordò della promessa fatta a Ciccillo. Si recò presso la cantina in cui lavorava e lo vide uscire con una grossa cassa d’acqua minerale sulle spalle. Stentava a camminare e sentiva molto il peso delle casse che portava fino ai piani delle abitazioni dei clienti. Giovanni lo seguì, lo raggiunse e gli tolse la cassa dalle spalle e si offrì di portarla. Ciccillo appena lo vide fu molto felice e disse: <<Giovà grazie. Giusto in tempo non ce la facevo più. Questo lavoro mi sta ammazzando>>. Ebbe una crisi e pianse. A quel punto Giovanni appoggiò la cassa a terra e lo abbracciò, successivamente esclamò: <<Ciccì stai tranquillo, presto inizierò a lavorare per conto mio e come ti avevo promesso ti farò lavorare con me>>. Ciccillo sentì una liberazione; con Giovanni si sentiva protetto. Giovanni gli asciugò le lacrime con un fazzoletto di stoffa e disse: <<Ciccì, finisci la settimana di lavoro qui e da lunedì verrò a prenderti. Sappi che non potrò darti quello che meriteresti, ma farò tutto il possibile per farti vivere nel miglior modo possibile>>. Ciccillo si fece forza, aveva piena fiducia in Giovanni e insieme percorsero il tragitto fino alla consegna della cassa. Giovanni voleva essere la guida di Ciccillo ed insegnargli i valori giusta della vita e non voleva che cadesse nelle grinfie del malaffare. Quella sera Giovanni si recò a casa e durante la cena i suoi genitori esternarono le proprie perplessità sulla sua scelta, alle quali Giovanni esordì rassicurandoli sul fatto che sarebbe riuscito ad andare avanti anche se non fosse “completo”. Si respirava aria positiva, anche perché quell’anno (1990) la squadra del Napoli stava giocando bene ed era in lotta per vincere il secondo scudetto. Lo scudetto arrivò e la città per la seconda volta fu avvolta dai festeggiamenti. Il popolo si sentiva orgoglioso di essere napoletano. Grandi e piccoli erano riconoscenti a Maradona che nonostante non conducesse una vita esemplare entrò in modo definitivo nei cuori dei napoletani che abituati a giustificare tutto non ebbero problemi a farlo anche per lui. Il Napoli era per la seconda volta campione d’Italia e questo andava al di sopra di ogni pregiudizio morale. La vittoria dello scudetto portò lavoro a tutti gli indotti attorno alla squadra, sia in modo legale che non. Si sperava che quei momenti magici durassero il più possibile. La città di Napoli si stava preparando con lavori di ristrutturazione allo stadio e nuove strade per ospitare i mondiali di Italia 90. Maradona confidava molto che i tifosi del Napoli tifassero Argentina e non Italia, ciò era dovuto dal fatto che tanti si sentissero Napoletani e non Italiani, ma il destino fu beffardo: il giorno 3 luglio 1990 si disputò la semifinale di coppa del mondo Italia – Argentina allo stadio San Paolo. Maradona chiese apertamente in TV ai napoletani di tifare Argentina, ma quel giorno fu deluso; il popolo napoletano portò uno striscione allo stadio in cui c’era scritto <<Maradona, Napoli ti ama, ma l’Italia è la nostra patria>>. Non rappresentava il sentimento di tutti, ma di tanti. E questo striscione diede la prova che a Napoli qualcosa stava cambiando: il modo di pensare nei confronti dell’Italia, non si guardava più agli eventi tragici del passato ma alle possibili opportunità che dava e poteva dare l’Italia ai napoletani considerando che in tanti si erano trasferiti al nord per fare una vita migliore ed avere un lavoro dignitoso, molte famiglie avevano avuto accesso al mutuo ed erano riusciti a comprare casa, cosa impensabile a Napoli.

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La gente si era stancata dei soliti piagnistei che sostenevano che i Savoia avevano ridotto il sud alla fame durante l’Unità d’Italia. Si percepiva voglia di smettere di lamentarsi e di rimboccarsi le maniche perché la modernità era una risorsa che non doveva sfuggire per questo le famiglie smisero di fare tanti figli e ne facevano 2 al massimo 3 per garantire ai propri figli un futuro dignitoso. L’Argentina vinse ai rigori passando alla fase finale dei mondiali, mentre l’Italia ultimò il mondiale al terzo posto. Bisognava darsi da fare per accorciare quel divario che c’era tra il nord e il sud. Giovanni aveva piena consapevolezza che lamentarsi tutto il giorno e reprimendo i giovani e spingendoli nel malaffare non serviva a nulla. Bisognava lavorare e creare benessere. Molti ragazzi si accorsero che nonostante il lavoro legittimo fosse meno redditizio della vita di strada, forse era meglio seguire la strada giusta. Ciò diede vita ad un cambiamento sociale alla popolazione che era ferma da troppi anni chiusa in una mentalità criminale e di sopraffazione. Aveva messo qualche soldo da parte e decise di organizzarsi almeno per i primi tempi a lavorare nel box di suo zio che glielo aveva messo a disposizione. Si fece fabbricare un banco di ferro da un fabbro, comprò una morsa e alcuni arnesi che gli davano la possibilità di fare gran parte delle riparazioni che necessitavano i suoi clienti. Il box era piccolo, ma lui riusciva a lavorarci ugualmente in modo arrangiato. Ormai era abituato a tutte le condizioni difficili. Era bravo, gentile e disponibile e questi elementi attirarono tanti clienti, anche se non aveva imparato del tutto il mestiere riusciva a soddisfare tutte le esigenze della sua clientela. I suoi familiari erano orgogliosi, riuscì a guadagnarsi la stima dei suoi amici scugnizzi che iniziarono a vedere che forse c'era qualcosa di diverso dal nome riscatto. Giovanni stava iniziando una nuova vita dignitosa. C'era ancora tanta strada da fare. Cercò di convincere i suoi amici scugnizzi che bisognava lottare per cambiare la propria vita e che lo scugnizzo non era altro che un randagio burattino abbandonato a sé stesso. Convinse a un bel po’ di persone a non trattare con i criminali in caso di furto del proprio veicolo, il “Cavallo di ritorno” non doveva essere accettato per non alimentare la criminalità, bisognava rivolgersi alle forze dell’ordine come avviene in tutti i luoghi civili. Finalmente diede un nuovo senso alla vita di tante persone e alcuni lo aiutavano nel suo lavoro. Credeva di poter mettere da solo un po' di cose nel verso giusto, ma si scontrò subito con la dura realtà della città di Napoli. In città furono posti i contenitori per la raccolta della spazzatura, grazie a una nuova società privata municipalizzata, le cose stavano iniziando a cambiare, i tanti spazzini abituati a timbrare il cartellino la mattina e ritornare a casa senza lavorare furono messi alle strette, c’erano i controlli e chi non lavorava veniva subito licenziato. Cambiare le cose e rendere le persone libere creava problemi al "sistema". Decise di convincere le famiglie che abitavano nel suo vicolo a organizzarsi in proprio e ripulire e disinfettare quel vicolo che versava in condizioni pietose, voleva raccogliere piccole somme di denaro per poter comprare il materiale che serviva, 2000 lire a famiglia, era una somma non obbligatoria chi non disponeva di quella somma poteva dare quello che poteva, era un modo per uscire da quel degrado che stava lì da anni e le istituzioni non provvedevano in nessun modo a risolvere. a lui non piaceva l’idea che là ognuno pensava alla sua abitazione senza dar conto all’ambiente esterno comune, voleva trasmettere quel senso di ordine e pulizia e dire basta! Un giorno fu avvicinato da on Gaetano era un uomo basso di circa 60 anni abitava in un basso accanto al portone dove abitava lui < Giovà ho sentito dire della tua iniziativa, ma cosa ti sei messo in testa!> Giovanni lo guardò con aria da sfida, davanti a lui si presentò quell’uomo che aveva l’emblema del degrado < on Gaetà io mi sono messo in testa di uscire dal marciume che di organizzarci tra di noi a stare puliti nel vicolo> On Gaetano < ah ah ah tu sei scemo, ci deve pensare il comune a pulire il vicolo e finché non arrivano loro qui nessuno alzerà un dito per farlo, qui siamo abbandonati sono anni che aspettiamo un servizio di pulizia decente!> Giovanni < appunto proprio per questo voglio che lo facciamo noi, le istituzioni non funzionano e noi non possiamo stare qui a piangerci addosso tutti i giorni ad aspettare, a sperare che un giorno forse, chissà? Dobbiamo riprenderci la nostra dignità rialzarci con le nostre forze> On Gaetano < Stai zitto, qui non si farà nulla, molta gente e contraria, vuoi raccogliere i soldi e poi? Sono sicuro che a te non interessa ripulire la strada il tuo intendo e fare la cresta su questa povera gente che già stanno messi male per conto loro> Giovanni lo affrontò con decisione <on Gaetà ma voi siete fuori di testa, possibile che non riuscite a capire che bisogna muoversi da sé e non aspettare nessuno, non possiamo vivere sulle spalle delle istituzioni, non possiamo vivere di elemosina! > On Gaetano < lo stato non funziona, non c’è e non ci dà nulla> Giovanni < e proprio qui vi sbagliate, dite che lo stato non vi da nulla, in vita vostra avete mai chiamato i pompieri? Avete mai chiamato un’ambulanza? Siete mai stato curato dall’ospedale? Avete il medico curante? Lo stato dà la pensione sociale anche a chi non ha mai versato un contributo. Vedete che lo stato dà tanto, forse più di quello che meritereste > On Gaetano rimase impietrito senza dire una parola, le parole di Giovanni lo lasciarono di stucco, Giovanni andò via sconcertato da quel modo di pensare di menti chiuse. Ma proprio quando le cose stavano andando nel migliore dei modi per Giovanni si ripresentò una nuova difficoltà, nel febbraio del 1991 la polizia Municipale applicò i sigilli alla sua officina a causa di mancanza della licenza e permessi sanitari, nonostante la sua coscienza stesse cambiando aveva ancora strada da fare, regolarizzare la sua attività. Cercò in ogni modo di affittare un nuovo locale e comprare le attrezzature necessarie e chiedere tutti i permessi per poter esercitare il suo mestiere, si rivolse a un Fiscalista che gli fece un preventivo di spesa, servivano 15 milioni di lire per poter realizzare tutto ciò, gli fu consigliato a chiedere un finanziamento che poteva scontare in rate mensili, si  recò in banca con suo padre dove aveva un conto corrente, suo padre voleva chiedere il finanziamento a nome suo e per garanzia portò con se la busta paga, il direttore li fece accomodare e spiegò che era difficile avere il finanziamento perché la busta paga riportava un reddito molto basso e il conto era quasi a zero, Giovanni incuriosito chiese al direttore < scusate direttò ma cosa centra il fatto che mio padre ha poco denaro su conto? Perché questo pregiudicherebbe l’esito del finanziamento?> il direttore rispose < caro Giovanni noi prestiamo i soldi a chi ha i soldi non a chi non li ha?> Giovanni < Ma come dovrebbe essere al contrario! Se avessimo avuto denaro sul conto non staremmo qui a parlare, avremmo utilizzato i nostri denari > Il direttore < Giovanni il tuo discorso ha una logica morale ma non una logica commerciale, mi dispiace funziona così, il finanziamento non potete ottenerlo, non avete i requisiti > Giovanni e suo padre uscirono da quella banca delusi e amareggiati, e ritornarono a casa. In serata i suoi genitori proposero a Giovanni a chiedere i soldi a un Mercante, Giovanni rifiutò categoricamente, non voleva rivolgersi a uno strozzino per aprire la sua attività, intanto la situazione rimaneva difficile, suo zio lo indirizzò da un noto Dottore Commercialista in via Caracciolo, disse che lo stato faceva dei prestiti a fondo perduto per i giovani che volevano aprire un attività, c’era la possibilità di ricevere fino a 30 milioni di lire che sarebbero stati restituiti solo una piccola parte, Giovanni essendo ancora minore fu accompagnato da suo padre, sembrava l’occasione giusta per poter finalmente aprire una vera e propria officina autorizzata. Fecero ingresso nello studio del Dott. Benincasa, uno studio lussuoso che dai balconi era possibile ammirare la veduta del lungomare Caracciolo, dal Castel dell’ovo fino a Posillipo una vera e propria magnificenza, incantati dal quella veduta per un attimo dimenticarono lo scopo della loro visita, il Dottore li fece entrare nel proprio studio su due poltrone comodissime, Giovanni spiegò al dottore lo scopo della sua visita e aveva già in mano un preventivo di spesa di attrezzature e utensili, il preventivo era di circa 15 milioni di lire, era tutto ben illustrato e dettagliato, il dott. Benincasa esclamò < bene vedo che vi siete organizzati in modo impeccabile, credo che appena compirai 18 anni potremmo inviare la pratica di finanziamento> Giovanni < dottò ma che probabilità ho di ricevere il finanziamento?> Benincasa < le probabilità sono molto alte, non ci sono garanzie da offrire quindi non sarà difficile ottenere il finanziamento per i giovani, vedi lo stato non si dimentica di nessuno!> Giovanni era già al settimo cielo, nella sua mente già stava immaginando la sua bella officina, fece un ultima domanda < dottò mi fa piacere sapere queste cose, ci rivedremo l’anno prossimo quando sarò maggiorenne, invieremo la pratica e quando arriveranno i soldi potrò finalmente aprire la mia officina> Benincasa < c’è solo un piccolo problema, non funziona esattamente così, ti spiego meglio, dovrai anticipare tu i soldi poi porterai le fatture d’acquisto qui e successivamente ti sarà erogato il denaro che avrai speso sotto forma di finanziamento> Giovanni < ma come anticipare io? È quasi lo stesso ragionamento che mi ha fatto la Banca, io avessi avuto il denaro non sarei venuto qui! Non lo capite questo!> Giovanni arrabbiato e avvilito iniziò a perdere la pazienza, suo padre lo invitò alla calma, Il dottor Benincasa disse < Giovanni mi dispiace queste sono le direttive dello stato, non dipende da me> Giovanni si alzò dalla poltrona e disse < È una legge che non aiuta a chi ha veramente bisogno, non aiuta a nessuno, lo stato mi sa che si è dimenticato della povera gente da anni, voglio credere in esso ma non mi dà la possibilità, Addio dottò!> Giovanni e suo padre increduli lasciarono quel luogo lussuoso e ritornarono a casa demoralizzati perché sembrava proprio che non c’era nessuno che li potesse aiutare, dovevano fare tutto con le loro forze. Nel gennaio del 1992, morì la nonna materna di Giovanni, era una donna molto nota nel quartiere che indusse tantissime persone a dargli l’estremo saluto. La notizia giunse anche a Ninetta che ormai donna volle a tutti i costi andarci. Voleva dare l’ultimo saluto alla signora Nunzia, ma aveva anche il desidero di rivedere Giovanni. Armando, il suo fidanzato, volle accontentarla. Si recarono a Napoli in auto, giunsero nel vicolo e parcheggiarono. Proprio in quell’istante accadde qualcosa di strano. Ninetta scese dall’auto e appena alzò lo sguardo, davanti a sé vide Giovanni. I due si guardarono, non fu uno sguardo normale, si trasmisero qualcosa con i loro occhi, furono attratti l’un l’altro. Ma dovettero placare subito le loro emozioni. Anche Armando uscì dall’auto e i due si salutarono a distanza chiudendo in sé le proprie emozioni. Durante il corteo funebre i loro sguardi si incrociarono più volte. C’era molta gente, ma allo stesso tempo silenzio e compostezza. Man mano che il carro percorreva i vicoli come da tradizione, i negozianti abbassavano mezza serranda del proprio negozio in segno di rispetto nei confronti del defunto. Il corteo si sciolse in Piazza Carità, un ultimo saluto a “nonna Nunzia” che si avviò diretta verso la casa eterna. Nonna Nunzia era una donna di una bellezza indescrivibile, pelle scura, capelli neri contrastati dagli occhi chiari. Aveva in sé tutta la napoletanità che ci poteva essere. Analfabeta e povera aveva sposato suo marito di famiglia nobile che abbaiato dalla sua bellezza si innamorò andando contro i suoi familiari. Il carro si allontanò e la folla gradualmente si sfoltì. Armando disse a Ninetta di aspettarlo lì, lui sarebbe andato a prendere la macchina e sarebbe tornato lì per poi ritornare a casa. A quel punto Giovanni non resistette, le se avvicinò, Ninetta stava lì ferma impietrita con un’aria timida, lo guardava desiderosa di parlargli. Giovanni disse: <<Ninè, tutto bene?>> Ninetta: <<Sì Giovà, tutto bene>> Giovanni: <<Ora sei una donna, come sei bella!>> Ninetta arrossì, abbassò lo sguardo e provando un senso di piacere rispose: <<Grazie Giovà, anche tu sei diventato un uomo>> All’improvviso alzò lo sguardo e disse: <<Giovà ma cosa è successo qui a Napoli? Non vedo le bande, che fine hanno fatto gli scugnizzi? Ne ho visto qualcuno qua e là>> Giovanni: <<Ninè, le cose stanno cambiando qui. La gente sta iniziando ad aprire gli occhi>> Ninetta: <<Ma come aprire gli occhi?>> Giovanni: <<Ci sono tante cose che vorrei spiegarti, magari qualche giorno verrai a trovarmi e con piacere ti racconterò del mio e quello di tanti ex-scugnizzi che hanno cambiato la propria vita>> Ninetta: <<Mi sarà difficile venire da sola. Armando è molto geloso e in particolar modo di te, ma io so dove abiti e ti prometto che un giorno farò in modo di venire>> Gli diede un bacio sulla guancia e corse via verso il marciapiede opposto della piazza. Armando stava per arrivare, non voleva farsi vedere accanto a lui. Giovanni alzò la mano destra e la appoggiò sulla guancia, le labbra di Ninetta lo avevano toccato, sentì i brividi e una forte emozione che gli fece battere il cuore, una sensazione mai provata prima d’ora. Non sapeva cosa fosse, ma fu un momento indimenticabile per lui. In quel momento lo raggiunse Ciccillo, i due assistettero a Ninetta che salì in auto con Armando e andò via. Giovanni rimase impietrito, ancora con la mano appoggiata sulla guancia. Ciccillo gli diede una spinta a farlo tornare in sé e gli disse: <<Giovà ti piace Ninetta vero?>> Giovanni arrossì e disse: <<Ma che dici, noi siamo amici! E poi lei è fidanzata>> Ciccillo scoppiò a ridere e disse: <<Io ho la sensazione che anche lei sia innamorata di te, prima da lontano vi ho visto quando parlavate e ho visto anche il bacio!>> I due si incamminarono e ad un certo punto incrociarono per strada Rosario, l’amico di Giovanni, anch’egli aveva lasciato la vita da scugnizzo per fare il meccanico. Sapeva che Giovanni era stato costretto a chiudere l’officina e gli disse che suo fratello maggiore a breve avrebbe aperto un’officina meccanica e gli offrì una collaborazione momentanea. Giovanni ne fu felice e concordò con Lorenzo, il fratello, di rimanere fino a quando non sarebbe stato capace di aprire una sua officina. Insieme a Ciccillo si adoperò a collaborare in quest’officina. In quel periodo Giovanni e Rosario riallacciarono di nuovo la loro amicizia, in precedenza era un’amicizia da scugnizzi, ma ora era da lavoratore. La loro passione comune per i motori li unì a rincorrerla. Ogni sabato pomeriggio andavano a vedere le gare clandestine di vespe da corsa, avevano luogo su un ponte di un tratto di una strada statale in costruzione. Non mancavano mai alla Mostra d’Oltremare per partecipare alla Mostra delle moto. Andavano sui campi da corsa a vedere le moto da cross, erano felici e la loro passione li accomunava. Ninetta apprendeva sempre meglio il mestiere insieme al suo fidanzato Armando nel loro panificio. Quest’ultima era di fatto di proprietà di Armando, ma suo padre, in un’ottica patriarcale vi si imponeva senza alcun titolo. Lei conduceva una vita segregata, Armando le impediva di uscire. Qualsiasi cosa avesse voluto fare, ne avrebbe dovuto chiedere il permesso. Un giorno il papà di Ninetta, on Peppe, gli disse che non riusciva a pagare il fitto di casa e convocò Ninetta e Armando sedendosi ad un tavolo della sua umile casa: era dicembre e faceva freddo e on Peppe prese le mani dei due giovani e disse: <<Ragazzi miei, purtroppo con quello che guadagno non riesco ad andare avanti. Qui manca tutto, non abbiamo nulla e ho deciso di lasciare casa. Ho trovato posto come il guardiano di un garage a Fuorigrotta, là dentro c’è una stanza dove potrei dormire senza pagare l’affitto>> Ninetta l guardò arrabbiata e disse: <<Pà ma che dici? E io dove vado a vivere?>> Suo padre prese le mani dei suoi giovani e le unì e disse: <<Ragazzi, ormai siete adulti e dovrete cavarvela da soli>> Armando non esitò e disse: <<Ninetta verrà a vivere con me dai miei genitori e presto ci sposeremo>>. Ninetta tirò via la mano di scatto e si sentì sopraffatta dagli eventi, non accettava che qualcosa o qualcuno dovesse decidere per la sua vita. Fece un mezzo sorriso e guardò Armando, accettò di andare a vivere dai suoceri, ma disse che voleva ancora aspettare per il matrimonio; non si sentiva pronta. Non aveva trascorso un’infanzia serena e cercava serenità prima di impegnarsi in una vita matrimoniale. I rapporti con i suoceri furono fin da subito ostili; suo suocero Filippo era anch’egli un maschilista oppressore, la moglie viveva in uno stato di quasi schiavitù e pretendeva da Armando e Ninetta ritmi di lavoro insostenibili nel panificio. Le giornate erano dure. Ninetta piangeva, si sentì ancora una volta abbandonata da suo padre che aveva pensato a mettersi al sicuro senza sapere in che modo passasse le giornate sua figlia, e specialmente, senza chiedersi se fosse felice. Ma questa volta decise di non cercarlo più e di andare avanti da sola. Un giorno ci fu una grossa lite tra Armando e suo padre che in preda all’ira cacciò via di casa sua Ninetta e Armando che furono costretti a dormire nel panificio. Nel laboratorio misero due brandine. Filippo preferì tenerseli al lavoro semplicemente perché li sfruttava. Ninetta in una crisi di pianto disse ad Armando: <<Troviamoci una casetta tutta nostra e sposiamoci>>. Armando fu felice di questa dichiarazione, mentre per Ninetta era solo un modo per sfuggire alla sofferenza. Credeva e sperava che la vita matrimoniale ed una casa tutta loro l’avrebbe tirata fuori dalla sofferenza. Armando comprò il “Fieracittà”, un giornale di annunci, riuscì a trovare un piccolo basso nel Rione Sanità con un canone d’affitto modico. L’abitazione era in condizioni pietose, aveva bisogno di una ristrutturazione. Armando, dopo il lavoro andava nella casetta per ristrutturarla. Non era un muratore, ma l’assenza di denaro e la disperazione lo indusse a costruire quel piccolo nido d’amore che avrebbe dato la felicità ad entrambi. Le giornate erano dure, Armando non si risparmiava. Nel giugno del 1993 la casetta fu ultimata e finalmente i due fidanzati potettero viverci. Armando chiese a Ninetta la data del matrimonio, ma lei lo tirò verso sé e disse: <<Armà io mi sposo solo se abbiamo un figlio>>. Armando la abbracciò e la baciò; quella fu la loro prima notte d’amore. Desideravano un figlio e provarono fin da subito ad averlo. Le merendine confezionate, i fast food e il cibo spazzatura, ormai tutti possedevano videogiochi e motorini, tutte queste cose avevano preso piede in tutti i ceti sociali, anche quelli più poveri. I ragazzini erano aumentati di peso e sempre meno propensi alle attività motorie, iniziarono a vedersi i primi personal computer. L’ideologia dello scugnizzo era ormai fuori moda e non più presa in considerazione. Questa fu l’ultima fase che decimò del tutto gli scugnizzi. Rimasero pochissime bande ancora in piedi, tra cui quella di Mariolino composta da sole sette unità, il piazzale davanti casa di Mariolino non c’era più fu cancellato totalmente dalla costruzione di un nuovo edificio scolastico comunale che dava posto all’asilo, elementari e medie, le istituzioni avevano spazzato via il quel piazzale che rappresentava il simbolo degli scugnizzi. altri ex scugnizzi si erano tuffati in un altro settore che ormai aveva preso piede, quello di rubare e pezzottare i ciclomotori di 50 di cilindrata, il manomettevano i numeri di matricola del telaio grazie a dei punzoni d’acciaio facendo corrispondere i numeri a un libretto di circolazione “falso” oppure rubavano il ciclomotore e chiedevano i soldi del “riscatto” chiamato cavallo di ritorno fingendosi intermediari dediti ad aiutare le vittime, queste pratiche permettevano di guadagnare abbastanza soldi. Non facevano più nulla ormai, non si giocava, non si facevano guainelle, tutte le attività che un tempo svolgevano erano ormai tramontate. Si raggruppavano in casa di Mariolino e perlopiù giocavano a carte raccontando vecchi aneddoti sui nostalgici tempi passati.

Ormai avevano smesso di perseguitare chi aveva lasciato la vita da scugnizzo e iniziarono ad armarsi di pistole e coltelli, compiendo rapine nei quartieri più agiati della città. Il loro odio nei confronti del “figlio di papà” era smisurato; andavano a colpire solo loro, quelli che avevano avuto tutto dalla vita senza aver fatto alcun sacrificio. Credevano che questi gesti rendessero giustizia alla loro esistenza fatta da stenti e fatica. Spesso le vittime oltre ad essere rapinate venivano anche picchiate. Nei loro occhi si leggeva rassegnazione, avevano la piena consapevolezza che stava terminando la loro esistenza da scugnizzo. Ma erano troppo legati ai loro ideali e alle loro usanze tanto che, quando si incontravano preferivano rinchiudersi nell’umile abitazione di Mariolino senza uscire. Era come se in quella stanza il tempo si fosse fermato; si scherzava, si rideva, si dicevano parolacce per essere felici e ingannare sé stessi. Fuori il mondo ormai era cambiato, ma loro si erano creati un mondo parallelo tenendo ancora alto il loro orgoglio. Grazie alle rapine iniziarono a guadagnare molto e ciò gli permise di vestirsi in modo migliore, rinunciando ad essere sporchi e trasandati. Le catene dei negozi di abbigliamento offrivano capi accessibili a tutti, non si trattava più di un lusso. Inconsapevolmente, Mariolino e i suoi seguaci iniziarono ad eliminare le usanze da scugnizzo, si affermò il trash, l’apparenza il volgare travestito da signore. Ormai tutti andavano in giro ben vestiti anche quelli meno abbienti.  In quel periodo si incrementarono iniziative da parte delle istituzioni per scongiurare la delinquenza a Napoli e provincia, molti detenuti appena finivano di scontare la loro pena in carcere li collocavano nel mondo lavorativo, perlopiù posti comunali o con aziende municipalizzate, da una parte diede buoni risultati ma da un'altra parte fece crescere un malcontento nei riguardi di chi viveva “onestamente” senza delinquere e erano in attesa da anni la chiamata dall’ufficio collocamento che non arrivava mai, le istituzioni dal canto loro ragionavano alla rovescia si sentirono traditi nel loro orgoglio, era come se chi è delinquente viene premiato e la persona onesta è destinata a soccombere. Mariolino preferì incontrarsi con altri capi banda per trovare una svolta alla loro esistenza: la sua richiesta fu presa molto in considerazione perché insieme volevano trovare una via d’uscita da questa situazione. Non volevano più vivere nei ricordi e nella nostalgia. Dopo diversi giorni Mariolino raggruppò i suoi pochi fedeli presso la sua abitazione  fu l’ultima riunione che fecero, recitò un paio di versi che invocavano l’onore di essere stato scugnizzo e  successivamente si diressero in piazza Carità dove vi erano  tutti i frammenti delle poche bande rimaste, d’accordo con gli altri capi banda  gli ultimi scugnizzi si incamminarono tra i vicoli della città cantando a squarciagola i loro inni, le lacrime scendevano tra i loro occhi, ormai erano raggiunti alla fine della loro esistenza e non c’era più verso di proseguire, non c’erano più le condizioni per farlo. Con orgoglio fecero un’ultima parata per avvertire alla popolazione che gli scugnizzi non sarebbero esistiti più, tra i panni stesi dai balconi e le finestre si intravedevano gente che li applaudiva con commozione, quei ragazzi stavano deponendo il loro credo per far parte del mondo “moderno” Il giro fu lungo e faticoso ma anche questa volta gli scugnizzi mostrarono forza e resistenza abituati alle avversità della vita. Anche i commercianti non persero l’occasione di uscire fuori dalle loro botteghe e applaudire, il gruppo si fermò in piazza del plebiscito detto “miez palazz” lì Mariolino fece il suo ultimo discorso ad alta voce < Noi abbiamo avuto delle regole, abbiamo vissuto in libertà, abbiamo rispettato gli adulti e siamo stati felici, quella felicità ci accompagnava ogni giorno verso nuove avventure che ci allievava da tutti i disagi che avevamo, ora ci accingiamo a entrare nella modernità e nel benessere con la speranza che questi ci possano dare la felicità, che dubito che l’avremo e avranno le prossime generazioni, cresceranno senza doversi guadagnare nulla senza avere rispetto per nessuno ma solo per se stessi, senza regole avendo la baldanza di poter fare ciò che si voglia solo perché avranno qualche soldo in tasca, non avranno libertà perché avranno una vita già programmata dedita solo all’accumulo di denaro senza rendersi conto che la nostra vita ha una scadenza. Lo scugnizzo Napoletano sarà ricordato per sempre come quel fanciullo tristemente felice, è difficile comprendere questa definizione, ma è così> Con gran emozione dichiarò lo scioglimento di tutte le bande e che da domani in poi ognuno sarebbe stato libero di scegliersi la propria vita, si abbracciarono tutti e con grande commozione ognuno di loro prese la sua direzione. Salvatore seguì Mariolino che fino a raggiungerlo, aveva una domanda da porgli < Mariolì io devo farti per forza questa domanda, c’è una cosa che mi tormenta> Mariolino gli appoggiò la mano sulla spalla e disse < Salvatò dimmi, cosa ti tormenta?> Salvatore < Se tutti hanno lasciato la vita da scugnizzo perché attratti dal benessere e la tecnologia, le prossime generazioni quando si scocceranno di queste cose a che cosa verranno attratti? Che ci sarà dopo?> Mariolino si girò e disse < che bella domanda mi fai, spera che ciò non avvenga> Salvatore rimase impietrito mentre Mariolino si allontanava, replicò < e cosa succederà, dimmelo!?> Mariolino < Immagina un mondo senza valori, rispetto, ideali, spirito di sacrificio, altruismo… Tu lo immagini?> Salvatore <No> Mariolino < e nemmeno io, Salvato stat buò> (stammi bene) Mariolino sparì tra i tanti passanti di via Toledo lasciando lì fermo Salvatore confuso e avvilito. La maggior parte degli ex Scugnizzi che si sciolsero quel giorno perseguirono una vita anti stato, alcuni morirono ammazzati, per droga, alcuni andarono in prigione per spaccio di droga causando danni a sé e agli atri con pene severe, ecco perché gli anziani dicevano sempre “chi vende la droga vende la morte”. Mariolino fu arrestato il mese successivo per tentata rapina a mano armata, scontò nove anni di carcere in una casa di reclusione. Salvatore diversi mesi dopo fu sorpreso a rubare un motorino in periferia per sua sfortuna erano uomini legati a un potente clan della zona, lo attaccarono a un albero e iniziarono a torturarlo, uno di loro tirò fuori la pistola per ammazzarlo ma proprio in quel preciso istante sbucò una pattuglia di carabinieri, i malviventi scapparono lasciando lì  salvatore sofferente, fu liberato dai carabinieri e riportato a casa, il destino gli diede una seconda occasione, comprò delle scarpe in via Toledo fu servito da una commessa scambiarono due chiacchiere, ritornato a casa scoprì che la commessa per sbaglio mise nella scatola due scarpe dello stesso piede, lui ritornò per cambiarle e da lì iniziarono a frequentarsi, i due si sposarono e andarono a vivere in una città del nord, trovarono entrambi un lavoro dignitoso e così lasciarono il loro passato lì nella città di Napoli.  Ninetta ben presto scoprì di essere incinta ma le liti tra Armando e suo padre si estesero anche all’ambito lavorativo. Un giorno Armando cacciò via dal panificio suo padre, aveva la piena autorità per farlo. Questo, senza batter ciglio, andò via. Ninetta e Armando si rimboccarono le maniche mandando avanti la loro attività e senza la guida di nessuno. I sacrifici erano tanti, ma loro non sentivano alcun peso della loro fatica. Armando aveva sempre di più in comportamento autoritario su Ninetta, proprio come suo padre nei confronti di sua madre, rendendola totalmente dipendente economicamente nei suoi confronti, senza avere alcun diritto di decidere su nulla.  
A Ninetta non piaceva questo atteggiamento, ma ogni qual volta che protestava veniva presa a botte. Ancora debole e indifesa si ritrovò di nuovo ad affrontare momenti di sofferenza che sperava, anzi credeva, che con la nascita di un figlio sarebbero terminati, facendo cambiare l’atteggiamento di Armando nei suoi confronti. Era un suo pensiero istintivo ed era convinta che ciò accadesse. Ninetta era ostile nei confronti di suo padre, si era sentita per l’ennesima a volta abbandonata, ma il giorno 7 febbraio del 1995 si riconciliò con lui grazie alla mediazione di una zia. Il giorno 14 febbraio del 1995 il papà, emozionatissimo, accompagnò la sua Ninetta all’altare. Sotto l’uscio di casa le sussurrò: <<Sei ancora in tempo. Andiamocene io tu e il bambino, non ti sposare. Non la vedo bene>>, Ninetta però, preferì seguire Armando e sposarsi. Quel <<Sì>> riunì il matrimonio e da quel giorno il papà tutte le mattine e tutte le sere telefonava la sua figliola per sincerarsi sulle condizioni della sua gravidanza. Era molto apprensivo e voleva che tutto procedesse nel migliore dei modi. Il loro rapporto iniziò man mano a ristabilirsi. Ninetta sapeva bene che suo padre non era malvagio, ma semplicemente debole. Il giorno 29 marzo 1995, di sera, fu l’ultima volta che Ninetta sentì la candida e rassicurante voce di suo padre. Quella sera stessa, uomini armati, per una tentata rapina lo colpirono nel garage in cui lavorava con un’arma da fuoco. La mattina successiva, la telefonata del papà non arrivò. Armando nel pomeriggio si presentò al pranzo con anticipo e disse: <<Ninè vieni con me dobbiamo andare in panificio>>. Ninetta in quel momento non sospettò di nulla, ma nella fretta Armando dimenticò i soldi a casa. Chiese all’amico benzinaio la cortesia di fargli credito aggiungendo <<Poi te li porto, è perché mio suocero sta male.>> Ninetta ebbe fin da subito un brutto presentimento, anche perché il notiziario locale parlava di un uomo che era stato sparato in un garage. Inizialmente non aveva dato ascolto al notiziario, ma associandolo alle parole dette dal marito percepì che qualcosa di brutto era accaduto. La vita gli stava regalando un po’ di serenità anche se le cose non andavano come avrebbe voluto lei; non si lamentava mai, tutto sommato avevano una loro attività, una casa e a breve sarebbe nato un bambino, infine si era anche riconciliata con suo padre. Le cose sembravano andare bene. L’amore del padre verso di lei e il futuro nipote aveva placato ogni vecchio rancore. Ma in quegli istanti la sua mente correva più del tempo, fece di tutto per ingannare i suoi pensieri, si aggrappò ad una piccola speranza e sperava tanto che stesse vivendo un sogno se non un incubo, e presto si sarebbe svegliata accanto al suo papà. Ma in panificio arrivò la chiamata di un parente, rispose al telefono Ninetta, la parente disse: <<Ninè!>> e Ninetta replicò: <<Adesso arriviamo subito in ospedale!>> Esordì in questo modo, interrompendo la conversazione, per dare fretta ad Armando e convincerlo a portarla subito lì. Arrivati all’Ospedale, Ninetta vide i parenti che stavano piangendo e capì subito. Armando preferì riportarla a casa. Verso le ore 14.25 richiamò zia Grazia li invitò a recarsi all’obitorio dove si trovava il corpo del papà di Ninetta, si avvicinarono Ninetta riuscì a vedere solo etichetta che stava attaccata al piede di suo padre, preferì fermarsi e ritornò indietro chiudendosi nel suo dolore poco dopo ritornò Armando e invitò a Ninetta a non entrare perché suo padre era irriconoscibile, aveva tutto il corpo tumefatto, prima di essere colpito con arma da fuoco fu picchiato brutalmente. Il giorno 31 marzo il corpo fu sequestrato dalla magistratura per effettuare l’autopsia, fu consegnato ai familiari il giorno 1° aprile. La camera ardente fu allestita in un’associazione culturale del quartiere, essendo il 1° aprile molta gente non cedettero che on Peppe fosse morto, credevano fosse uno scherzo del pesce d’aprile. Quel giorno fu avvertita con molta freddezza e poca umanità anche la mamma di Ninetta che apprese la notizia con molto dolore, i funerali eccezionalmente furono fatti il giorno 2 aprile del 1995 era di domenica, la gente non riusciva a capacitarsi, on Peppe era una persona mite e il modo di cui era stato ucciso lascio tutti con forti dubbi che fosse stata una tentata rapina, ad un certo punto si creò una forte tensione tra i familiare di Ninetta e  i colleghi del garage di cui lavorava suo padre dopo che videro una grillanda sui scritto “gli amici del garage” Dal quel giorno Ninetta entrò in una forte depressione, aveva perso il suo papà, il suo punto di riferimento, non mangiava più carne e ovunque sentiva l’odore della colla per incollare le scarpe di cui usava suo padre a lavoro. Ninetta era in uno stato pietoso, cercava di farsi coraggio per portare avanti la sua gravidanza nel miglior modo possibile, iniziò ad avere paura che qualcuno la potesse uccidere, la sua mente non era più lucida era in preda alla paura e allo sconforto. La gravidanza andò avanti con molte complicazioni, doveva partorire il 12 luglio ma partorì  il 30 luglio del 1995 alle ore 9.20 nacque il piccolo Leonardo, durante il parto Ninetta a gran voce gridò “Papà”  La Nascita di Leonardo le diede la forza e lo scopo di andare avanti, il giorno 30 settembre del 1995 mentre passeggiava col passeggino per puro caso incontrò Giovanni, l’incontro fu piacevole per entrambi, Giovanni mostrò la sua fierezza nel vederla sposata e con un figlio e la incoraggiò ad andare avanti per il bene di suo figlio e suo marito, poi si lasciarono andare a racconti di quant’erano scugnizzi che fece apparire sul giovane viso di Ninetta il sorriso di un tempo, le loro vite si erano separate ma la loro amicizia era indelebile, si salutarono con affetto e ognuno proseguì per la propria direzione. Giovanni aveva pensato più volte in passato di corteggiare Ninetta ma ormai era troppo tardi e aveva perso ogni speranza invece Ninetta era una donna spenta e completamente distaccata a suo marito, l’illusione di una vita felice con la nascita del piccolo Leonardo svanì fin da subito. Il giorno 14 febbraio del 1996 Ninetta ebbe una febbre molto alta, si ricordò che non le era venuto il ciclo, nel dubbio comprò un test in farmacia e quel giorno ebbe la notizia che stava aspettando il secondo figlio a distanza di 6 mesi dal primo. Nonostante le tante difficoltà Ninetta e Armando lasciarono la loro casetta e fittarono un appartamento più ampio e adatto per quattro persone e vicino al loro laboratorio. Il giorno 25 Ottobre nacque Fabio ma le cose non cambiarono anzi peggiorarono, le loro liti si intensificarono, il maschilismo di Armando gli faceva credere che i figlio fossero proprietà sua e non di Ninetta, nonostante tutto Ninetta combatté con tutte le sue forze rimaneva sempre nella posizione della donna sottomessa, le veniva dato solo 15000 lire al giorno per comprare da mangiare e nulla più, non era padrona di nulla e se doveva andare dal parrucchiere oltre a chiedere il permesso doveva elemosinare i soldi da suo marito. La situazione peggiorava giorno per giorno fino l punto che divenne insostenibile al punto che Ninetta ingerì una quantità eccessiva di Lexodan, svenne e cadde a terra, le grida di Leonardo attirarono l’attenzione di una vicina di casa che avvertì l’ambulanza che la trasportarono in ospedale, le salvarono la vita per un pelo evitarono in tempo un arresto cardiocircolatorio. I dottori chiesero cosa l’avesse spinta a questo gesto estremo ma Ninetta negò la verità disse che non aveva contato bene le gocce ….  Ebbe paura di dire la verità, temeva che poteva fare una brutta fine, temeva che i servizi sociali le potessero toglierle i figli ma il dottore concluse il discorso con una frase < Ninetta ricordati se vuoi ammazzarti buttati dal balcone ma se vuoi vivere lotta senza mai arrenderti, a volte la vita riserva delle sorprese> Fu dimessa e ritornò a casa, il clima era sempre ostile, Armando stava accumulando debiti perché spendeva soldi per fatti suoi, i debiti aumentarono sempre di più al punto che armando non riuscì più a onorarli. Nell’estate del 1997 Armando insieme al piccolo Leonardo partì diretto a Torino deve si trovavano i suoi parenti e Ninetta e Fabio andarono da parenti suoi a San Benedetto del Tronto, trascorsero l’intera estate separatamente era come se ognuno stava cercando una via di fuga dal loro matrimonio, entrambi percepirono che non stavano bene insieme e ognuno di loro doveva pensare a sé stesso. Dopo l’estate al loro ritorno la situazione rimase invariata, non dormivano più insieme, una mattina di un giorno fresco di settembre Ninetta si sveglio e vide che Armando non c’era, ebbe una strana sensazione, andò di corsa in camera da letto e aprì l’armadio, tutti gli indumenti di suo marito erano spariti e con esso anche i suoi effetti personali non c’erano più, quel giorno Armando pensò bene di abbandonare tutto e tutti e andarsene dai parenti a Torino dove trovò ospitalità. Ninetta invece rimase lì da sola con i suoi due piccoli con il laboratorio chiuso, senza soldi e senza lavoro, ancora una volta fece appello a tutte le sue energie e non farsi lasciare andare dallo sconforto, aveva il compito di superare anche questa dura prova che la vita le aveva riservato. All’indomani si presentarono 2 uomini a casa di Ninetta, erano alti grossi e con volti da far paura, bussarono con le mani quasi a buttare giù la porta, Ninetta aprì i due chiesero di Armando e dissero che gli avevano prestato del denaro che non era stato restituito, Ninetta spiegò che suo marito era sparito senza dire nulla e non sapeva dove fosse, i due cercarono di impadronirsi di cose in casa di valore per recuperare i soldi che dovevano avere ma Ninetta si oppose, gridò a squarciagola e minacciò che avrebbe chiamato la polizia se non sarebbero andati via, a quel punti i due energumeni andarono via con un’aria rassegnata e Ninetta rimase lì impaurita e in un pianto disperato sfogo tutta la sua tensione emotiva che aveva dentro. Passava il tempo, Ninetta venne aiutata dalla Parrocchia del quartiere che le davano da mangiare e pagavano le bollette , purtroppo non riuscì a pagare il fitto di casa, tirò avanti per diversi mesi dopo che il proprietario le intimò di pagare Ninetta preferì lasciare casa di sua iniziativa, si trasferì in un piccolo monolocale poco distante dalla sua abitazione con un canone d’affitto molto modico, riuscì a vendere i mobili e letto della sua camera da letto e con quei soldi riuscì a prendere possesso del nuovo appartamento. Trovò un lavoro presso una pasticceria come banconista, lo stipendio le permetteva di coprire quasi tutte le spese necessarie per tirare avanti ma era penalizzata perché fu costretta ad assumere una badante che si occupasse dei bambini e la retta che pagava pesava gravemente sul suo bilancio, la sera quando arrivava a casa mangiava i prodotti di rosticceria invenduti che il suo titolare le dava, qualche volta rimaneva digiuna per non far mancare ai suoi figli il necessario. Il peso delle responsabilità che aveva sulle spalle era come un macigno che pesava al punto che spesse volte rischiava di cadere e non sapeva se poi si sarebbe rialzata, quei pensieri la tormentavano ma bisognava andare avanti in un modo nell’altro, quel poco di energie mentali e fisiche le riceveva dai suoi bambini che ogni giorno le regalavano un sorriso innocente che solo loro possono donare. Un giorno Armando tornò a Napoli in incognita, si camuffò molto bene per non farsi riconoscere da nessuno, nel quartiere alcuni abitanti gli riferirono che Ninetta aveva un nuovo appartamento, si recò senza esitare bussò la porta, Ninetta appena lo vide richiuse subito la porta, scoppiò a piangere e gli disse di andare via, Armando con molta furbizia la convinse a farlo entrare, si sedettero e Armando spiegò che fu costretto a scappare via per i troppi debiti che ormai non poteva più onorare e che a Torino stava lavorando e stava conducendo una vita serena, le propose di venire da lui con i bambini, Ninetta un po’ spaventata disse che voleva riflettere su questa decisione, Armando la persuase al punto che quella notte dormirono insieme ma il giorno dopo Armando iniziò di nuovo con i suoi atteggiamenti da maschilista oppressore, ebbero un altro diverbio al punto che Ninetta lo buttò fuori casa e da quel giorno ebbe la piena consapevolezza che era finita tra loro e che quell’uomo le avrebbe dato solo dolore e null’altro. Per un attimo ebbe i sensi di colpa per non aver offerto ai suoi figli una vita migliore a Torino ma quel giorno disse basta a tutti, da oggi penso prima a me stessa. Concesse ad Armando che poteva vedere i figli una volta al mese in un luogo pubblico con lei presente ma il destino fu nuovamente beffardo nei suoi confronti, quella notte che dormirono insieme Ninetta cadde di nuovo tra le grinfie seduttive di Armando e scoprì all’indomani che era nuovamente incinta di 2 gemelli, La parola che le suonava in testa era sempre “ora basta” prese la decisione più cruda ma più adatta a garantire la sopravvivenza per se e i suoi figli nativi, la nascita di altri due figli le avrebbe distrutta definitivamente la vita e avrebbe perso quel poco che aveva, da “egoista” decise di non dire nulla a nessuno si recò al consultorio e decise di abortire di sua volontà, nonostante gli psicologi cercarono di farle cambiare idea Ninetta fu più decisa che mai, ormai le troppe sofferenza che aveva ricevuto non riusciva a sentire più dolore per nulla, voleva semplicemente vivere una vita normale e dignitosa ma nonostante i tanti uomini che si fecero avanti a vivere una vita con lei e occuparsi dei bimbi, Ninetta rifiutò, non voleva l’uomo che la mantenesse era desiderosa di innamorarsi. Pensava spesso a Giovanni voleva incontrarlo di nuovo ma ogni volta che ci pensava poco dopo ci rinunciava, immaginava che una Giovanni avrebbe sicuramente un'altra relazione con altra donna e non voleva essere di intralcio. Il giorno 7 Dicembre 1997 si convinse e decise di recarsi all’officina dove lavorava Giovanni senza farsi troppe domande, pensò che la sua era semplicemente una visita da amica e che non doveva interferire nella vita personale di Giovanni, alla sua presenza Giovanni spalancò gli occhi e la salutò con molto affetto, Giovanni le disse <Ninè come mai da queste parti?> Ninetta abbassò la testa e rispose < Giovà ti sono venuto a trovare per darti gli auguri di Natale>, Giovanni ne fu felice e replicò < tutto bene? Ti vedo giù di morale> Ninetta < io e Armando ci siamo lasciati, abbiamo perso il panificio e ora vivo in un monolocale sola con i miei due figli, ora faccio la banconista in una pasticceria come dipendente> Giovanni spalancò gli occhi ed espresse tutto il suo rammarico, il mondo gli stava cadendo addosso, pregava sempre al signore che potesse dare una vita serena a Ninetta ma quella notizia lo sconvolse, il fatto che stesse male lo faceva star male, a quel punto Ninetta prese un pezzetto di carta segnò con penna il suo numero telefonico e disse < Giovà ti lascio il mio numero, se nel caso vorresti fare quattro chiacchiere con una amico io sarò felice di ascoltarti> Giovanni apprezzò molto quell’invito, raccolse il foglietto e lo conservo con molta cura. Dopo alcuni giorni, Giovanni cercò di chiamare Ninetta ma il telefonino risultava sempre spento, ebbe un senso di vuoto perché non sapeva dove abitasse e temeva di non rivederla più anche se non c’erano i presupposti. Il giorno 15 gennaio 1998 Ninetta si ripresentò all’officina Giovanni non esitò a dirle< Ninè ho cercato diverse volte di chiamarti ma il cellulare risultava sempre spento> Ninetta sorrise con molto piacere; la notizia che Giovanni aveva tentato di chiamarla per parlarle trasmise in lei un senso di piacere che mai aveva percepito. Con un sorriso rispose che aveva avuto il cellulare in assistenza perché si era rotto per questo risultava sempre spento, poi aggiunse < Giovà voglio farmi perdonare, venerdì sera sei invitato a cena a casa mia> Giovanni la guardò perplesso, sorrise e accettò l’invito. Riflettete con molta attenzione prima di recarsi a casa di Ninetta, Si presentò da lei con spirito di amicizia e per darle un supporto morale, il fatto che Ninetta fosse ancora sposata con Armando demoralizzò Giovanni nonostante le piaceva tantissimo, ma senza farsi troppe domande quella sera entrò in casa e nella vita di Ninetta. Il monolocale era umile ma ben tenuto, c’era una struttura letto di cui c’erano i bambini che dormivano, poi c’era una piccola cucina e un piccolo bagno. Al centro della stanza c’era la tavola ben imbandita era tutto, Ninetta aveva un vestitino nero di velluto sembrava una reginetta, Giovanni rimase abbagliato dalla sua bellezza al punto che si senti imbarazzato, si aspettava una cena spartana; invece, Ninetta organizzò una vera e propria cenetta romantica. Parlarono tanto e Giovanni le disse che dopo la morte di Franco lo aveva segnato e decise di cambiare vita e di non essere più uno scugnizzo poi le confessò che era fidanzato ma non l’amava e aveva deciso che prima o poi l’avrebbe lasciata e rivolgendosi a Ninetta le disse che oltre a un supporto morale era intenzionato a darle anche un aiuto economico, Ninetta lo guardò con occhi lucidi e in un atmosfera di pieno silenzio si diedero il loro primo bacio, Giovanni si alzò di balzo e le disse che doveva andare via per un impegno urgente.

Scappò verso casa voleva riflettere bene, quel bacio gli diede dei brividi che mai aveva sentito, il cuore gli batteva forte ma l’amara realtà lo turbava, non voleva intromettersi nella vita di una coppia seppur separati erano sempre marito e moglie, preferì starsene qualche giorno da solo e riflettere profondamente. Dopo diversi giorni Ninetta telefonò Giovanni e lo invitò di nuovo a casa sua per un'altra cenetta romantica e gli confessò che aveva tanto bisogno di lui, Giovanni nonostante non volesse andare si sentì attratto e non riuscì a rifiutarsi, era desideroso di toccarla, di accarezzarla e di baciarla. Quella sera mentre cenavano Ninetta appoggiò la sua mano su quella di Giovanni e gli disse < Giovà tu lo sai che ora noi siamo una coppia?> Giovanni la baciò intensamente e accettò con tutto il suo cuore la loro unione, era perdutamente innamorata di lei al punto che lasciò definitivamente la sua fidanzata e decise di costruire una vita insieme alla sua amata Ninetta. Armando periodicamente come accordi veniva a Napoli per vedere i suoi figli, finché un giorno Leonardo gli disse che la mamma aveva un fidanzato, la notizia lo fece irritare al punto che il mese successivo organizzò uno stratagemma per punire Ninetta in modo definitivo, stavano in un parchetto insieme ai bimbi come di consuetudine alche Armando disse a Ninetta avrebbe portato i bimbi a comprare i palloncini da un venditore ambulante che era distante circa 300 metri, Ninetta non si oppose anche perché anche se distanti erano a vista d’occhio, proprio quando Armando si trovò vicino al venditore di palloncini prese con le mani i bimbi e li portò con sé in un taxi che era fermo (già d’accordo con lui), Ninetta fu ingannata ancora una volta, Corse più che poté verso il taxi ma non fece in tempo a raggiungerli, la distanza era troppa, montarono e scapparono via quasi come un rapimento, si recarono alla stazione centrale e presero un treno Diretto per Torino. Ninetta fu colta da un malore, ebbe giusto il tempo di avvertire Giovanni che sopraggiunse immediatamente ad aiutarla a riprendersi, questo fu l’ennesimo forte dolore che afflisse Ninetta sprofondò di nuovo nello sconforto, Giovanni la stette vicino a superare quei momenti difficili al punto che si trasferì a vivere da lei. Preferì non avvertire la polizia e né tantomeno rivolgersi a un avvocato, in cuor suo pensò che tutto sommato i bimbi avrebbero avuto una vita migliore a Torino e promise a sé stessa che un giorno sarebbe andata lì a riprenderli, ora doveva ricostruire la sua vita con Giovanni, era innamorata e si sentiva amata al punto che iniziò a non avere più paura di nulla, la sua parola d’ordine da quel momento era “è solo questione di tempo poi aggiusterò tutto quello che mi è stato tolto” Decise di riscattarsi e di costruire insieme al suo amato una nuova famiglia. Successivamente i due innamorati dovettero fare i conti con un altro problema “i pregiudizi” i genitori di Giovanni erano contrari alla loro relazione, non volevano che il figlio stesse con una “donna sposata” giudicata da loro donna peccaminosa e non affidabile al punto che Ninetta fu intimata a lasciare perdere il loro figlio e non farsi più vedere, la notizia fu riferita a Giovanni che litigò pesantemente con i propri genitori trasferendosi definitivamente a casa di Ninetta. Giovanni non guadagnava abbastanza e la situazione era difficile perché non poteva più contare su un aiuto psicologico ed economico dei suoi genitori che spinti dalle voci di quartiere sulla reputazione di Ninetta credevano di fare una cosa giusta per il bene del proprio figlio. A settembre del 2000 Ninetta seppe di aspettare un bambino da Giovanni la notizia diede ai due giovani tanta voglia di combattere, Ninetta nonostante era prena riuscì a trovarsi un lavoro in un laboratorio di bomboniere, guadagnava ottocento mila lire al mese che insieme a quello che guadagnava Giovanni diede la possibilità di poter pagare le spese necessarie per tirare avanti. Si ripresentò zia Filomena venne a vivere nel quartiere dei genitori di Giovanni, seppe che Ninetta aspettava un bambino e non esitò a vendicarsi nei riguardi di Ninetta, andò a trovare la madre di Giovanni le comunicò che Ninetta era incinta ma inventò che il padre non fosse Giovanni, così indusse la signora Anna a convincere suo figlio a far abortire Ninetta e di sbarazzarsi di lei il prima possibile perché giudicata una poco di buono, aveva già preorganizzato un aborto semi abusivo con un medico compiacente dietro compenso in denaro, la signora Anna non diede retta a Filomena, sapeva bene che era una donna malvagia e che aveva fatto molto male a Ninetta per cui la invitò ad andare via e le disse di non venire più a casa sua. Era un giorno del dicembre del 2000 Il papà di Giovanni si recò in officina e disse a Giovanni di “buttare l’ascia di guerra” e ritornare a casa loro per le feste natalizie, Giovanni stizzito rispose <Pà dì a mamma che io verrò da voi solo se accetterete Ninetta nella nostra famiglia!> il papà rimase perplesso non seppe cosa rispondere e gli disse che avrebbe riferito alla mamma e gli avrebbe dato risposta il prima possibile, infatti dopo qualche giorno on Antonio si ripresentò in officina e disse a Giovanni che potevano venire a casa a trascorrere le feste Natalizie e che Ninetta sarebbe stata accettata come una nuora senza alcun pregiudizio. La notizia riempì di gioia i due giovani innamorati che acquistarono ancora più sicurezza nell’affrontare la vita ed erano felicissimi che i genitori di Giovanni avevano aperto la porta a Ninetta senza badare ai pregiudizi loro e specialmente della gente del quartiere. Il giorno 11 dicembre si presentarono, Ninetta aveva già la pancia che si vedeva, trascorsero il Natale più bello della loro vita tutti insieme a progettare il futuro per loro e per il nipotino. Nel gennaio del 2001 Giovanni riuscì, grazie all’aiuto dei suoi genitori, ad affittare un piccolo locare che riuscì a adibirlo in officina meccanica, anch’esso sprovvisto di licenza ma al momento la priorità di Giovanni era che a breve sarebbe nato suo figlio ma confidò che con l’aiuto delle istituzioni avrebbe trovato il modo per regolarizzarsi e non dover lavorare in nero. Al suo fianco ad aiutarlo in officina l’insostituibile Ciccillo che lo avrebbe seguito in capo al mondo. Era il 6 giugno 2001, giornata calda e afosa. Giovanni era impegnato al lavoro. All'improvviso si presentò un uomo, alto con occhiali scuri ed entrò nella sua officina. Si girò intorno a guardare senza dire una parola. Giovanni si avvicinò a lui e disse: <<Avete bisogno di qualcosa?>> L'uomo rispose: <<Buongiorno. Sono on Raffaele. Sono un uomo molto rispettato e aiuto tanti giovani a realizzare i propri sogni. I soldi non mi mancano e per questo ti faccio una proposta che sono certo che non rifiuterai.>> Giovanni iniziò ad insospettirsi, ormai conosceva bene quel linguaggio: docile e vellutato ma tagliente come una lama. Si avvicinò a "on Raffaele" con aria autoritaria e gli disse: <<A me la vita mi ha insegnato a diffidare da chi vuol farti del bene senza chiederti nulla in cambio.
Di cosa si tratta?>>. Raffaele sorrise e rispose: <<Molto semplice, tu lavori in questo sgabuzzino da un po'. Hai aperto senza chiedere il permesso a noi, ma ti voglio perdonare, perché questa non si può considerare una attività. Finora nessun rappresentante dello stato è venuto qui ad aiutarti per darti la possibilità di aprirti una vera officina. Menomale che ci siamo noi, amici del popolo, grazie a noi tanta gente riesce a sopravvivere, diamo lavoro a chi ne ha bisogno. Noi ti aiuteremo ma ricordati che nella nostra legge tu avrai e darai.>> Giovanni rimase lì ad ascoltarlo e capì subito che era la camorra che aveva bussato alla sua porta. on Raffaele aggiunse: <<Io ti faccio uscire da questo buco, apriamo una vera e propria officina con attrezzatura buona. Pago tutto io, ma tu in cambio devi dividere gli incassi con noi per sempre.>> Giovanni impugnò un martello e glielo puntò alla testa e disse: <<Vattene da qua o ti spacco la testa.>> L'uomo senza dire una parola uscì, ma prima di andare via gli disse: <<Ti do dieci giorni per pensarci. Sono certo che accetterai per il tuo bene.>> Giovanni buttò il martello a terra e scoppiò a piangere, non riuscì a capire cosa lo aveva spinto a quella reazione violenta. Mai usato quell'atteggiamento con nessuno e temeva che l'ambiente praticato gli potesse cambiare il carattere. Ma la cosa più grave era che aveva buttato fuori un uomo della camorra.  Raccontò tutto a Ninetta spaventato insieme per trovare una soluzione al nuovo problema che si era presentato, Ninetta gli disse < Giovà perché non andiamo via da questa città che, a quanto pare, ci ha dato e ci sta dando solo dolori, i miei parenti a San Benedetto del Tronto ci aiuteranno a costruire una nuova vita lì, che né pensi Giova?> Giovanni rimase immobile e pensieroso era molto attaccato alla sua città e alle sue tradizioni ma questa volta la faccenda era seria e bisognava prendere una decisione alla svelta. Così pensò di interpellare lo stato. Ripose la sua speranza nelle istituzioni, cosa che non aveva mai fatto in vita sua. Si presentò al commissariato di zona, dove fu accolto al primo piano dall'ispettore di polizia Di Mauro. Gli spiegò tutta la faccenda e che on Raffaele sarebbe tornato tra nove giorni, ma lui non aveva nessun’intenzione di mettersi in affari con la camorra e per questo aveva deciso di chiedere aiuto allo stato. L'ispettore gli disse che serviva sporgere denuncia, ma lo mise in guardia nel farlo: <<Stai attento, quelli sono feroci, agiscono senza scrupoli.  denuncia nei confronti del signor Raffaele noi agiamo e lo mettiamo in galera.>> Giovanni al momento non spose, preferì riflettere. Uscì dal commissariato, si recò a casa con le gambe tremolanti e gli girava la testa, raccontò tutto a Ninetta e anche ai suoi genitori che gli consigliarono di non denunciare altrimenti ci potevano stare delle rivendicazioni nei loro confronti, bisognava anche tutelare il piccolo che a breve sarebbe nato. Quel giorno crollò del tutto la fiducia nelle istituzioni. Nelle settimane successive non ebbe nessuna visita sgradevole, continuò il suo lavoro in modo precario, ma con tanto impegno. Stava mettendo un po' di soldi da parte per aprire un'officina in regola e uscire del tutto dall'illegalità. Un giorno finì di lavorare e mentre stava mettendo il lucchetto alla porta del box, fu avvicinato di nuovo da on Raffaele e uno scagnozzo che con la sua grossa mano strinse il collo a Giovanni.

Lo stava soffocando. Giovanni gridava: <<Aiuto! Aiuto!>>, ma quell'uomo burbero e forzuto non mollava la presa. Raffaele parlava con una voce bassa e modi molto eleganti, era inimmaginabile pensare che un uomo di camorra feroce e crudele si potesse nascondere dietro a tali atteggiamenti. Nell'immaginario popolare era la figura dell'uomo grezzo vestito un po' trasandato. Non era così, chi stava al vertice era dolce, educato e ben vestito. Si presentava al suo interlocutore come una persona per bene e pronta ad aiutare il prossimo. Ma Giovanni conosceva bene le loro metodiche, conosceva bene il loro linguaggio subdolo. Aveva sempre alta la guardia e non voleva avere nulla a che fare con loro, ma ormai lo scontro fu inevitabile. La camorra aveva allungato le sue possenti braccia contro quel giovane ragazzo indifeso. Riuscì a liberarsi dalla morsa dello scagnozzo e gridò: <<Cosa volete da me?>> Raffaele rispose: <<Una farfalla è venuta al mio orecchio a dirmi che tu sei stato alla polizia. Sappi che mi dicono tutto in questo quartiere.>> Giovanni prese un po' di fiato, alzò la testa e notò che di solito a quell'ora nel vicolo c'era tanta gente affacciata ai propri balconi e finestre, ma proprio quella sera non c'era nessuno. Il vicolo era deserto, era incredibile che tanta gente potesse girarsi dall'altra parte davanti a scene di violenza inflitte a persone per bene da parte di un’organizzazione criminale. Giovanni gridò: <<Lasciatemi in pace. Andatevene!>> Raffaele lo prese per i capelli e gli sussurrò nell'orecchio <<Guagliò. Non denunciarmi o farai una brutta fine. Ormai la gente del quartiere ha saputo che ti sei rivolto alla polizia, da domani in poi nessuno ti parlerà più e nessuno verrà da te ad aggiustare il motorino. Sei un infame!>> Dopo pochi secondi salì in auto, che stava ferma a pochi metri, e andò via insieme al suo scagnozzo. Giovanni ormai aveva la piena consapevolezza di essersi messo contro qualcuno più forte e contro il popolo solo perché voleva vivere in modo onesto e sereno. Rappresentava un pericolo perché stava scuotendo la coscienza di tanti giovani che come lui avevano lasciato la vita da scugnizzo per studiare o lavorare. La parola riscatto era scomoda, e bisognava estirpare questo pensiero in modo radicale. Il giorno dopo uscì da casa e vide che tutte le persone del quartiere solite a salutare, appena incrociavano il suo sguardo, abbassavano la testa. Sembrava fosse un appestato, era stato isolato da tutti proprio come aveva detto Raffaele. Si recò al commissariato ed ebbe un lungo colloquio con l'ispettore Di Mauro. Giovanni era disperato, voleva che lo stato lo difendesse. Purtroppo, l'ispettore gli disse che la faccenda si era aggravata e la sua vita era in pericolo, gli disse di avere fiducia nello stato e che avrebbero cercato di fare qualcosa. Gli consigliò di sparire per un bel pezzo nella speranza che potessero calmarsi le acque o che Raffaele potesse venire arrestato o assassinato da un clan avversario. Giovanni batté i pugni sulla scrivania e disse: <<Scusate, ma come è possibile? Per condurre una vita serena dovrei sperare che quegli assassini si calmino, o che vengano uccisi da altri assassini come loro? E voi? Che fate? Lo stato dov'è?>> L'ispettore gli offrì una camomilla e gli spiegò che non era semplice arrestare Raffaele anche perché al momento non c’era nessuna denuncia nei suoi riguardi. Gli diede una pacca sulla spalla e gli disse: <<Giovanni, per un mese ti consiglio di stare a casa e non uscire, non affacciarti dal balcone.>> Giovanni seguì il consiglio dell'ispettore e se ne tornò a casa a fare la vita da segregato nella speranza che qualcosa potesse accadere a suo favore. Stava in mezzo tra il bianco e il nero, tra l’acqua e il fuoco, tra la paura e l’inganno, ormai non aveva nessuna posizione sociale il quel momento. Il giorno 25 giugno nacque il piccolo Antonio che riempì di gioia i loro cuori, ebbero momenti che dimenticarono la loro triste situazione ma ben presto si ripresentò e bisognava risolverla al più presto. I giorni non passavano mai. Era in preda alla paura, aveva i sensi di colpa nei riguardi dei suoi genitori che, oltre a dargli tante preoccupazioni anch'essi erano stati isolati da tutti. Ormai nessun commerciante gli faceva credito. Tutti volevano essere pagati subito, e questo creò grossi problemi alla famiglia, perché con il loro misero stipendio il credito gli permetteva di arrivare a fine mese. Era quel poco di ossigeno che serviva a prendere tempo per poi prendere lo stipendio del mese successivo. Giovanni senza esitare mise a disposizione tutto il suo denaro che aveva da parte. I genitori a malincuore accettarono, non c'era alternativa. L'isolamento li aveva messi in difficoltà e sapevano bene che quel denaro era sufficiente per tre o quattro mesi. Una sera di luglio ci furono degli spari d’arma da fuoco rivolti verso la loro abitazione, sembrava essere un gesto intimidatorio. Il giorno successivo Giovanni comunicò all’ispettore Di Mauro che sarebbe partito per lasciare la città e probabilmente non sarebbe più ritornato. L'ispettore lo abbracciò stretto e gli disse: <<Giovanni, mi dispiace che una brava persona come te debba andare via. Purtroppo, questa città è malata ed è impossibile cambiare le cose. Qui c'è la camorra, lo stato e la brava gente. Hai scelto di stare dalla parte della legalità, e questo ha messo in pericolo le vostre vite.>> Gli disse che sarebbe stato inutile Aspettare la morte o la detenzione di on Raffaele, sarebbe stato sostituito immediatamente da un altro magari più feroce, e come tagliare l’erba senza rendersi conto che poi ricresce anche più lunga di prima. Nell’agosto del 2001 Ninetta tirò fuori tutta la sua energia interiore che aveva, convinse Giovanni a lasciare Napoli e andare a San Benedetto del Tronto dai parenti propensi a ospitarli anche per lungo periodo per far sì che Giovanni potesse decidere di trasferirsi definitivamente lì e trovarsi un lavoro che lì non mancava di certo. Giovanni accettò partirono e con loro portarono anche Ciccillo. La Mattina del 9 agosto 2001 decisero di partire mentre si avvicinavano all'auto, Giovanni alzò la testa e notò che dai balconi e finestre del vicolo c'era tanta gente che lo guardava con aria di sfida in un silenzio surreale. Ad un certo punto si fermò, guardò negli occhi i suoi genitori poi rivolse lo sguardo in alto, gridando con tutta la sua voce: <<Noi andiamo via per vivere una vita migliore! Voi resterete qui prigionieri di un sistema. Liberatevi tutti! Lottate per la vostra libertà e i vostri diritti!>>
Entrarono in macchina e sfrecciarono tra i vicoli. All'angolo di un vicolo c'erano alcuni suoi amici ex scugnizzi stavano lì fermi con gli sguardi rivolti verso di lui senza alcuna espressione.
Forse volevano dire: <<Bravo>>, ma non avevano nemmeno la libertà di esprimere le proprie emozioni. Ancor più avanti riuscì ad intravedere il Vesuvio, quel vulcano gigante che osserva la città nel bene e nel male senza mai giudicarla. Sembrava fosse finita una vita e ne stesse per iniziare un'altra, come una resurrezione. Le lacrime bagnavano i sediolini dell'auto che li stava portando in un'altra realtà dove usanze e abitudini erano diverse. Più si allontanavano e più nel loro animo cresceva un senso di pace. Era tutto diverso, la gente era discreta e silenziosa. Erano tutti ben vestiti, parlavano l'italiano, nessun’automobile bussava il clacson, non c'erano i panni stesi dalle finestre. Furono ospitati con amore e li misero subito a loro agio, Matteo il cugino di Ninetta spiegò a Giovanni che lì c’erano molte possibilità di lavoro che oltre al meccanico avrebbe avuto un’ampia scelta anche in altri settori, con inquadramento e paga sindacale e in più lo omaggiò di una settimana di vacanze in un villaggio turistico a Rimini che fu bene accetto, anche se non sapevano neanche che fosse un villaggio turistico. Il giorno 13 agosto 2001 Giovanni, Ninetta, Ciccillo e il piccolo Antonio si presentarono al villaggio turistico, fecero il check-in e aspettarono che il loro bungalow venisse pulito, pochi minuti dopo si presentarono due signore addette alle pulizie, una era giovane e magra l’altra era di mezza età corpulenta, iniziarono a pulire era una giornata caldissima che quando le due donne sfinite e sudate uscirono fuori a prendere un po’ di fiato Giovanni le invitò ad accomodarsi e chiese a Ninetta si offrire acqua fresca alle signore che avevano bisogno anche di dissetarsi, le donne rimasero incredule davanti a questo nobile gesto, accettarono ben volentieri nonostante la scena si presentò alla rovescia gli ospiti di un villaggio stavano servendo gli inservienti, la signora più anziana disse a Giovanni < Voi siete di Napoli vero?>  Giovanni rispose < si certo, ma perché mi fate questa domanda?> La signora sorridendo rispose < Siete state le uniche persone in questo villaggio che ci avete offerto dell’acqua e un sorriso, donandoci un po’ di dignità>  Giovanni sorrise con gioia ma il suo fu felice delle parole dette della signora. In serata Ciccillo rivolse a Giovanni una domanda < giovà ma è una fortuna o una sfortuna nascere Napoletani?> Giovanni si mise a ridere e non rispose al che Ciccillo si irritò < e allora me la dai questa risposta? Ho bisogno di saperlo?>  Giovanni rispose < Ciccì io una risposta non riesco a dartela ma forse te l’ha già data la signora delle pulizie> Quella sera Ninetta abbracciò fortemente Giovanni, disse che voleva divorziane con Armando e diventare sua moglie, questa notizia riempì di gioia il cuore di Giovanni, e infine gli disse < Giovà ora dovrai decidere se vuoi restare a San benedetto del Tronto per iniziare una nuova vita o ritornare a Napoli per lottare per un futuro migliore, sta a te decidere, io ti seguirò ovunque tu vada amore mio>


Dedicato a tutti i ragazzini della plebe napoletana che hanno vissuto nella sofferenza e lontano dai propri diritti.





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 Storia ispirata a fatti realmente accaduti



Nomi, personaggi, e luoghi sono il frutto della fantasia dell 'autore.


 

 

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